martedì 25 dicembre 2018

LE ORBITE DI KEPLERO (ultima parte)


  
                                  
Il riuscito tentativo di Keplero di dare una forma geometrica ai dati raccolti da Tycho Brahe, ratificò il successo del modello copernicano rispetto a quello tolemaico e ticonico. Tuttavia, l’eleganza e la semplicità matematica delle sue tre famose leggi, non risolvono un’antica questione: il mondo è come si pensa, o come si percepisce? In altri termini, le leggi di Keplero possiedono un vero riscontro nella realtà, o sono perfettamente valide solo in ambito teorico, dunque ipotetiche, ma non certe?
Abbiamo infatti più volte evidenziato la contraddizione tra teoria e realtà presente nel modello eliocentrico, circa l’idea del movimento della Terra rispetto al Sole centrale. I sensi e gli effetti fisici dimostrano l'opposto: il movimento del Sole e la quiete della Terra. La prova fisica che la terra è in quiete ed il Sole in movimento è fornita dalla percezione sensibile, quella contraria dalla ragione. Se un tempo, nel processo di acquisizione della conoscenza, si dava preminenza alla logica correlata al cosiddetto senso comune, realtà e ragione combaciavano, poiché quanto si percepisce è vero, oggi non è più così. Vale il principio contrario.
È vero ciò che si pensa, ciò in cui si crede, poiché la percezione della realtà celeste sarebbe illusoria, rispetto alla sua descrizione. Per quale motivo la maggioranza delle persone crede assolutamente alla ragione scientifica ed alla narrazione storica dell’imporsi di una travagliata teoria, piuttosto che alla percezione del reale, direttamente riscontrabile da tutti? La risposta è semplice, e mostra quanto il martellamento operato nel corso dei secoli dalla cultura dominante, sia riuscito ad imporre nell’opinione comune una forma astratta, perfezionata dalla ragione e fortificata da secoli di lavoro scientifico, associato ad una penetrante diffusione che ha investito l’opinione e l’istruzione pubblica, la quale contraddice la percezione dei sensi.
Questa contraddizione comporta una scissione sia nell’ambito della conoscenza, che nella coscienza, le quali non possiedono più un riferimento assolutamente certo e concreto. La realtà tramonta a favore della sua “immagine immaginata”, la quale non sorge come riflesso dal mondo percepito, ma ha radice e sostanza nella ragione dalla quale è stata partorita ed elaborata. All’interno di tale contrasto, il quale determina come una scissura nella coscienza e nella mente, trova giustificazione ogni tipo contraddizione ed illusione. Non ultima, l’allontanamento della ragione dal Dio fattosi carne, poiché la mente viene impegnata ad avvalorare il contrario di quanto la “carne” percepisce. Se si mette in dubbio quanto gli occhi vedono, a maggior ragione si dubita anche di quanto non si vede. La ragione diviene prigioniera di se stessa e del mondo che si è auto costruito, nel quale Dio non è necessario, non è Carne perfetta, ma al più una soluzione teorica pacificante e retorica.
La rappresentazione virtuale del mondo celeste, trasmessa dalla comunicazione sociale mediante immagini, animazioni e simulazioni visualizzabili su pagine di ogni tipo, si è sovrapposta a quella percepita, riuscendo a spogliare quella sensibile di tutti i suoi risvolti trascendenti e sacrali. Il cielo è divenuto una indefinita ed informe mappa astronomica, interpretata esclusivamente da super esperti, sempre molto saccenti ed autocompiacenti, formati secondo le tecniche e gli indirizzi dell’astronomia moderna, inaccessibili ai profani, se non attraverso specifiche e ridondanti divulgazioni. Si è giunti quindi alla conoscenza perfetta dei moti planetari, delle strutture chimiche di stelle e di altri elementi celesti. Si è scandagliato il cielo con strumenti di ogni tipo, ricavando dati sperimentali, diagrammi, modelli, programmi informatici pronti ad indagare ogni ipotesi cosmologica. Eppure, nonostante questa rilevante sapienza enciclopedica, qualcosa non torna qui, sulla Terra.
I risvolti negativi della conoscenza scientifica, al di là dei vantaggi del progresso tecnologico, insieme ai suoi risvolti negativi in ambito sociale, risuonano nell’intimo di molte coscienze insoddisfatte della vita moderna, delle sue contraddizioni e problematiche. La visione del cielo non rasserena più, non rimanda al “altro”, essendo stata spogliata del lato misterioso e trascendente, che costituisce invece a tutti gli effetti la vera sua essenza. Tutto viene fatto rientrare e spiegato alla luce della tecnica astronomica, praticata da astronomi ed astrofili. Un settore molto limitato della popolazione. Se un tempo si cercava di leggere nel cielo i messaggi e la volontà relativi ad una dimensione superiore ed invisibile, oggi i fenomeni atmosferici e celesti interessano alla maggioranza delle persone per lo più in senso meteorologico. Ci si preoccupa del tempo che farà nel prossimo week end o nel periodo di ferie programmato. A parte sentimentali sguardi di ammirazione e di emozione passeggera, il cielo non dice più niente a chi è costretto ed abituato a guardare per terra. Come se stelle e Sole fossero per molti come lampadine, utili solo per far luce e portare il bel tempo, o come un soffitto da guardare fuggevolmente, quando lo si riesca a vedere. La scienza moderna ci ha dato tanto, ma ci ha tolto quel senso del mistero e della trascendenza insito nella stessa natura dell’uomo, con la pretesa di voler spiegare tutto attraverso i suoi canoni standardizzati fatto di numeri e codici.
A scuola abbiamo imparato tutta la storia che ha accompagnato l’imporsi della teoria copernicana, la genialità del rivitalizzatore di tale teoria, Galileo, l’ottusità dei tomisti. I quali, attaccati alla logica aristotelica e quindi privi di aperture intellettuali, credevano il contrario, soltanto perché questo era provato dalla evidente, ma troppo semplice per menti complicate, quiete terrestre. Fortuna che sorsero scienziati eminenti e liberi, Copernico, Galilei, Keplero, tuttavia, come abbiamo detto in precedenza, legati alla stessa matrice sotterranea che agiva in tutt’Europa.
Keplero, anche se semicieco, riuscì a dimostrare “come andava il cielo”. Attestò quale fosse il vero modello celeste, quello composto da orbite ellittiche, dove il Sole occupa uno dei due fuochi. In questo notissimo modello, i pianeti, Terra compresa, rallentano ed accelerano, non solo perché ruotano su se stessi, ma perché orbitano su ellissi più lontani o più vicini al Sole. Le sue tre leggi, di anno in anno insegnate nelle sedi scolastiche, sono divenute più indubitabili di Dio, dei suoi angeli e dei santi. Tutti relegati dalla ragione scientifica nell’ambito della superstizione, come obsoleto folclore insopportabile per l’uomo di scienza.
Tuttavia, la scienza, che ha soppiantato la religione, con il razionalismo e materialismo scientifico, fino a che punto è credibile nelle sue imperiose certezze? Che dire infatti delle leggi di Keplero, le quali a ben vedere indicano proprio il contrario di quello che postulano? Dovendo infatti un pianeta percorrere un’ellissi, nella quale uno dei due fuochi è occupato dal Sole, non potrebbe muoversi senza accelerazioni, ruotando oltre che su di sé, intorno ad uno dei due fuochi. La seconda legge di Keplero mette in rilevo tale aspetto. Essa asserisce che le aree descritte dal raggio vettore che unisce il pianeta al Sole sono proporzionali ai tempi impiegati a percorrerle. Ossia, aree uguali vengono coperte in tempi uguali. Quindi i pianeti accelerano quando la distanza dal Sole è minima, e rallentano quando la distanza è massima.
Un’ulteriore conferma di questo moto accelerato e curvilineo è dato dalla terza legge, la quale specifica che i quadrati dei periodi di rivoluzione planetari sono proporzionali ai cubi degli assi maggiori delle loro orbite. Tale legge indica che più ci si allontana dal Sole e più i periodi impiegati dai pianeti a percorrere le loro orbite aumentano. Le velocità di tutti pianeti orbitanti, ed in particolare della Terra, per principio dunque non è costante. Se fosse costante le aree descritte dai pianeti in uguali intervalli di tempo non sarebbero uguali.
Ebbene, questo è del tutto il contrario a quello che si vede nel cielo e sulla Terra, la quale dal punto di vista fisico si presenta come in quiete, senza alcun effetto relativo alla sua velocità variabile prevista da Keplero, alle sue teoriche accelerazioni e decelerazioni intorno al Sole. In realtà, noi percepiamo che il Sole si sposta nel cielo a velocità sempre costante, inverno ed estate, primavera ed autunno, percorrendo spazi di cielo uguali in tempi uguali. Questo suo movimento regolare è infatti un segno per la misura dello scorrere del tempo, come afferma la Genesi, nel quarto giorno della creazione (Gn 1, 16-19). Se fosse la Terra a muoversi su orbita ellittica a velocità variabile, non vedremmo e non sentiremmo altrettanta “pace dinamica”. Dovremmo vedere il Sole accelerare e rallentare rispetto a noi nel suo passaggio nel cielo. Invece, non vediamo questo.
La regolarità, l’ordine dei movimenti celesti, il variare delle stagioni, l’alternarsi delle ore, dei giorni e delle notti sono invece un segno ben chiaro ai nostri occhi. Tutto questo avviene secondo un moto uniforme, con traiettorie rapportabili ad un regolare moto circolare uniforme, più che a linee ellittiche e moti accelerati. Afelio e perielio non corrispondono a variazioni di velocità, né di Terra, né di Sole, riscontrabili da comuni osservatori terrestri. L’orbita corrispondente al movimento del Sole è circolare. Non ellittica. Il Sole compie nel cielo archi di circonferenza, traiettorie corrispondenti ad archi circolari, d’estate e d’inverno, innalzando o abbassando la sua traiettoria in seguito ad equinozi e solstizi. Archi di cerchio e non rapportabili a vertici di ellissi.
Questo appare ai sensi, ed è verificato anche dagli strumenti più semplici: gli occhi. I calendari si basano sulla affidabilissima regolarità e velocità costante del moto solare e lunare. Il versetto del Libro della Sapienza, secondo il quale «Tu hai disposto tutto con misura, calcolo e peso», omnia in numero, mensura, pondere disposuisti, (Sap 1, 21), rispecchia proprio questa armonia, regolarità ed inalterabilità dei movimenti celesti, del movimento del Sole. In questo senso, il mondo è ordinato, e seguendo i gradi dell’ordine l’uomo può innalzare la propria mente verso la dimensione trascendente, che sovrasta quella ordinaria, fino a riconoscere in essa la presenza e l’azione del Pantocrator, Signore dell’Universo: «C’è infatti un altro mondo, lontanissimo da questi occhi, che l’intelletto di pochi sani riesce a vedere, come afferma lo stesso Cristo, che non dice: Il mio Regno non è del mondo, ma il mio Regno non è di questo mondo» (Agostino, De ordine 11.32). Ma la realtà di questo mondo ultramondano è stata adombrata nel tempo dalla cosiddetta scienza moderna. Sempre fiera dei suoi proclami, sempre pronta ad irridere ed azzittire chi osa dubitarne.



sabato 15 dicembre 2018

LE ORBITE DI KEPLERO (II parte)




Copernico, Galileo, Keplero, sostenuti da cerchie di aristocratici ed intellettuali di alto bordo, il popolo difatti non contava niente in questo dibattito astruso, guidavano la loro ricerca illuminati dalla loro fede ermetica, di matrice solare, che proprio in quegli anni si stava radicando sottotraccia, sulla scia degli insegnamenti trasmessi specialmente nei trattati, De Triplice vita, De Sole, De Lumine, dell’equivoco sacerdote Marsilio Ficino, volti a divinizzare il Sole, in virtù delle molteplici energie irradiate da esso.
Lo stesso Giacomo Leopardi, scriverà: «Il Sole fu il primo oggetto che attirò a sé gli occhi dell’uomo rivolti verso il cielo. Adamo innocente non tardò ad avvedersi che quest’astro non era che la base del trono di un Essere superiore: penitente, non dimenticò la verità che aveva appresa nello stato della sua innocenza; ma la dimenticarono ben presto i suoi figli. Il Sole era bello, benefico, la sua luce era di una sorprendente vaghezza, la sua attività era mirabile: ciò bastava perché i popoli lo stimassero degno di culto»[1].
Sulla scia di Giuliano l’apostata, che nell’inno ad Helios Re declamava: «Il Sole materiale è l’immagine di un altro Sole, che i nostri occhi non possono afferrare e che illumina le stirpi invisibili e divine degli dei intelligenti dal mondo superiore», gli alchimisti rinascimentali iniziarono a cercare di attirare e condensare i raggi solari nei metalli. Essi cercavano di estrarre dal “sacro fuoco” la famosa quintessenza, in grado di trasmutare la materia grezza in oro, ottenendo l’elisir di lunga vita, la panacea e tutte le altre denominazioni attraverso le quali si è voluto rendere pittoresca una disciplina sconosciuta ai più, in quanto segretamente praticata da pochi. È questa essenza energetica solare, celebrata, ricercata, captata mediante pratiche magiche ed alchemiche, il vero centro e motore dell’eliocentrismo e del movimento esoterico e rivoluzionario ad esso associato, che ritornò ad operare nella storia dell’umanità.
Difatti, dalla corte fiorentina venne celebrata la dottrina eliocentrica, prima ancora che Copernico la rielaborasse, cercando di trasporla in ambito cosmologico nelle paginette del Commentariolus, la prima sua breve opera nella quale, in stile euclideo, esponeva sette postulati circa l’ipotesi eliocentrica della quale, probabilmente, nemmeno l’Autore era convinto. Difatti, in seguito, dovette scomodarsi il Retico, che dalla sede di Wittenberg, venne inviato, forse proprio dallo stesso Melantone, a stimolare energicamente il potente canonico della Warmia, Nicola Copernico, confortato da una vita agiata, trascorsa in more uxorio con una donna sposata, per fargli riprendere l’antico progetto eliocentrico partorito nel giovanile soggiorno italico e che egli stesso, nella «Dedica al Santissimo Signore Paolo III, Sommo Pontefice», del suo famoso libro «Sulle Rivoluzioni», giudicò come «Elucubrazioni che andavano contro lo stesso senso comune, immaginando qualche movimento della terra».
Peraltro, è assai poco considerata la compartecipazione di Copernico all’interpretazione pitagorica del Sole. Poco soppesati i significativi riferimenti alla cultura iniziatica, contenuti nel Libro Primo del De revolutionibus, acquisiti sotto la guida di Domenico Maria Novara, in contatto con la corte medicea. Del tutto sottaciuta, la militanza iniziatica di Copernico (1473-1543), dimostrata dalla sua protezione accordata al giovane tedesco Alexander von Suchten (1520-1590), medico, alchimista, astrologo, a sua volta discepolo del discusso filosofo e mago Paracelso (1493-1541). Il quale, modestamente, dichiarava di sé: «Io sono Teofrasto, e valgo più di coloro con i quali mi mettete al confronto. Io sono io, e sono il monarcha medicorum, e a me è lecito dimostrare a voi quello che voi non potete dimostrare a me»[2]. Tutti questi personaggi bazzicavano nell’area germanica nella quale operavano segretamente gli inafferrabili Rosa-Croce, ai quali era collegato, in analoga modalità sottotraccia, anche l’ex monaco agostiniano, autore delle famose tesi del 1519, affisse sul portale della cattedrale di Wittenberg[3].
Von Suchten, impegnato nella comune missione di diffondere la latria solare, richiamava la stessa immagine ermetica proposta nel De revolutionibus, riguardo alla signoria del Sole ed alla sua eccellenza su tutti gli elementi. Nel trattato, De vera medicina, con toni enfatici scrive: «Il Sole siede come un Re al centro, in mezzo agli altri pianeti, sovrastante tutti in luce, distribuisce a tutti la luce e la vita provenienti da sé. Tutto ciò che abbiamo di buono lo abbiamo dal Sole… così il Sole governa il cielo ed il mondo nello stesso universo, e le cose che sono in lui, poiché ne ha il dominio»[4].
Più o meno, un centinaio di anni dopo, questa celebrazione metafisica del Sole, venne fissata in forma razionale ed astronomica da Johannes Keplero. Il quale, ingabbiando nel modello eliocentrico i dati di Tycho Brahe, uscito di scena, per così dire, provvidenzialmente[5], riuscì a dare una veste formale alla causa eliocentrica, patrocinata dall’invisibile “tempio”, operante in ambito europeo. In tale indefinibile sede, si celebravano segretamente le glorie di un nuovo oriente, iniziatico, alternativo al vero Oriente, Gesù Cristo, «Oriens ex alto» (Lc 1, 78). Questi iniziati, come affermò Robert Fludd, altro esoterista collegato a Paracelso, fanno parte di una «Chiesa sotterranea» che, a seconda delle situazioni, agisce e si manifesta sempre in forme diverse nella storia del mondo.
La strategia adottata da questa gilda di alti intellettuali, prevedeva l’insinuazione surrettizia del dubbio cartesiano, nel Corpo Mistico di Cristo della contraddizione, per insidiarlo attraverso l’ingenuità di suoi ministri e l’ignoranza dei suoi fedeli, facilmente ingannabili dai nobili proclami. Erano gli anni, insomma, nei quali stava prendendo piede lo Spirito di Sintesi, eggregore o idolo, collegato alla Fama Fraternitas Rosacruciana, profetizzato dall’ispiratore dei rosacroce Paracelso[6], al quale come detto era collegato il protetto di Copernico, von Suchten. Paracelso, nel suo trattato De Mineralibus, riguardo alla venuta dell’«Elia artista», scrisse: «Dio permetterà che si faccia una scoperta della maggiore importanza, che deve rimanere nascosta fino alla venuta dell’Elia l’artista»[7]. Il reverendo luterano Valentino Andree (1586-1654), occultista ed alchimista, legato ai Rosacroce, identificò questo Elia artista «con un’associazione fidata di alchimisti impegnata nella ricerca fino allora fallita di scoprire il segreto della trasmutazione dei metalli»[8]. Ed in effetti, l’arte a cui si riferiscono il Teofrasto ed i suoi compagni è proprio quella alchemica, insieme a tutte le pratiche occulte e magiche ad essa collegate, finalizzate a realizzare dietro la trasformazione dei metalli grezzi in oro, quella ben più importante delle anime e della società. Questo Elia avrebbe dovuto aprire le porte all’anticristo, così come Elia ed il Battista le prepararono a Cristo.
Il rifiuto della religione Cattolica, dei suoi riti, delle sue promesse ultraterrene, adombrate da alcuni fattori terreni, i quali tuttavia non rendono inefficaci l’azione della Grazia, si manifestava anche nella ricerca di interazioni dirette con la dimensione invisibile e con le forze oscure, strette nei lacci della divina riprovazione e quindi in cerca di espansione in quella terrena. In questa prospettiva densa di significati reconditi, si può ricondurre il rituale, solo in apparenza pittoresco, che diede avvio, giovedì 25 settembre del 1603, alle 9 e 50, alla famosa Accademia dei Lincei, fondata a Roma dal principe Federico Cesi, insieme a quattro soci. Tra questi, Johannes van Heeck, naturalista olandese che dopo aver ferito a morte uno speziale, l’anno seguente fu costretto ad abbandonare l’Italia, impazzendo infine nel 1616.
Il documento del verbale dell’inconsueta riunione, esposto a Parigi in una mostra sul Seicento in Europa, nel lontano gennaio del 1992, scritto anche con carattere cifrati, rivela che i cinque fondatori scelsero il giorno e l’ora non a caso, ma secondo superstizioni astrologiche, credendo così di propiziare favorevolmente l’ascendente degli spiriti astrali, specialmente quello di Mercurio-Hermes. Il redattore del catalogo spiega che «Il testo redatto dal Cesi appare chiaramente come un’operazione magica, condotta secondo i canoni dell’ermetismo rinascimentale, con la quale si cerca, mediante la manipolazione di metalli e vegetali collegati ai pianeti, di attrarne simpateticamente l’influsso, convogliandolo su di sé dalla sfera superiore del cosmo. Si legge sul documento consunto e ingiallito: “Su fogli di carta di seta predisposti allo scopo venivano trascritti pitagorici misteri”»[9].
Questo cerimoniale, dal quale prese avvio il circolo scientifico italiano, che divenne modello anche per la famosa Royal Society, presieduta anche da Isaak Newton, sembra ricalcare le procedure iniziatiche caldee ed egizie, finalizzate alla creazione ed animazione di quei legami psichici, anche detti eggregori. Tale parola di matrice greca indica un gruppo di persone collegate da ideali, mode, credenze, riti comuni. L’eggregore è una sovrastruttura immateriale che si crea mediante l’unione di persone, in un livello di esistenza non percepibile. Esso si manifesta tramite i componenti che lo rappresentano, e continua ad operare anche quando questi si separano. Richiede di essere regolarmente alimentato, essendo un organismo, anche se di altra natura, per alimentare e difendere a sua volta chi lo alimenta. Sembra un circolo vizioso, inesistente e fantasioso, pur essendo una realtà scontata e ben nota nella cultura magica. È difatti l’entità psichica creata che sceglie e governa i suoi creatori, al fine di consolidarsi ed accrescersi, lottando a tutti i livelli, per dominare su analoghe entità.
Sembra quindi possibile che, nella seconda metà del Quattrocento, la cerchia medicea sia riuscita a produrre l’idolo-eggregore solare, secondo le riscoperte ritualità della magia ermetica, mascherate in dotta erudizione. La forma associata a questa entità psichica richiama quella del plastico ideogramma copernicano del Sole centrale, concepito da Keplero come un’anima dotata di una forza di tipo magnetica. Questa forma energetica si accingeva a richiamare ed assorbire, per essere giustificata e razionalmente fortificata, le migliori intelligenze dell’epoca. Fra le quali, quella del pitagorico Johannes Keplero. Il quale, seguendo idee sconclusionate, come quelle esposte prima nel Mysterium e poi nel suo farneticante Somnium, popolato da demoni, filtri e fantasiosi viaggi lunari, trovò delle soluzioni matematicamente giuste. Dopo un lungo e snervante lavoro di calcolo algebrico, egli ricavò la seconda famosa legge, nata per prima, delle aree percorse in tempi uguali dai pianeti, intorno al Sole. Impiegò altri tre anni, per ricavare la cosiddetta prima legge, la quale afferma che le orbite sono ellittiche ed il Sole occupa uno dei due fuochi.
Keplero, con le sue famose leggi geometriche, ha dato ragione della forma geometrica corrispondente alla metafisica eliocentrica, in grado di insidiare il senso comune, immaginando con la forza della ragione un moto terrestre ideale a discapito della quiete reale. Del resto, la componente fondamentale della magia è la forza dell’immaginazione, in grado di far credere la realtà di quanto immaginato. Attraverso l’immaginazione Keplero, nel suo pitagorico Somnium, sognerà di recarsi sulla Luna, grazie all’azione di un demone, e di lassù immaginare di vedere ruotare la Terra, allo stesso modo in cui dalla Terra si vede girare intorno il suo satellite naturale. Egli in queste pagine, per ovvie ragioni pubblicate postume, ma circolanti sottobanco da tempo, diede spazio all’immaginazione scrivendo, tra l’altro:
«Tutti strepitano che il moto delle stelle intorno alla Terra è evidente agli occhi di chiunque, come pure lo stato di quiete della Terra stessa. Io ribatto che agli occhi dei lunari risultano invece evidenti la rotazione della nostra Terra ed anche l’immobilità della Luna. Se mi si obiettasse che i sensi dei miei lunari si ingannano, con pari diritto potrei obiettare che sono i sensi di noi terreni a ingannarsi, quando sono privi della ragione»[10].
Keplero oppone all’evidenza della realtà l’immaginazione. Difatti, non potendo negare il senso comune, circa la certa percezione del moto e della quiete terrestre, lo relativizza, immaginando che lo stesso ragionamento possa applicarsi sul nostro satellite naturale. Questo come se non fosse possibile stabilire chi effettivamente sia in quiete e chi in rotazione, in base ai relativi effetti. Se noi tutti abbiamo la sensazione di stare fermi, è perché non ci sono effetti rotazionali sensibili che dimostrano il contrario. Il movimento della Terra si dimostra solo con l’immaginazione razionale. Immaginare di andare sulla Luna, supponendo di rilevarvi gli stessi effetti rinvenibili sulla Terra è difatti un argomento persuasivo, ma ipotetico, certamente non fisico. Procedimento simile alla potente campagna di persuasione mediatica, sempre impegnata nel farci credere di essere davvero andati sul nostro satellite naturale.







[1] G. Leopardi, Saggio sugli errori popolari, Capo nono, Del sole.
[2] In E. Garin, L’uomo del Rinascimento, Ed. Laterza, Roma-Bari 1993, p. 196.
[3] Cfr. E. Innocenti, Inimica vis, Roma 1990, p. 10.
[4] In A. Boella e A. Galli, Divo Sole, Ed. Mediterranee, Roma 2011, p. 82.
[5] Cfr. L’altra faccia del Sole, Armando 2013, p. 87.
[6] Zaira Fusco, Il Sapere esoterico dei Rosacroce, Om Edizioni, Bologna 2009, pp. 60-65.
[7] Cfr. J. G. Bennet, Subud – Il contatto con la fonte di vita, Ed. Mediterranee, Roma 1978, presentazione di D. Piantanida, p. 9.
[8] E. Gallo, Maghi, sciamani e stregoni, Piemme, Casale Monferrato 2000, p. 400.
[9] A. Socci, Il lato debole di Giordano e di Galileo, «Il Sabato», 18/1/1992, n. 3.
[10] Cfr. A. M. Lombardi, Il sogno di Keplero, Sironi, Milano 2009.

mercoledì 21 novembre 2018

LE ORBITE DI KEPLERO (I parte)




Nel gennaio del 1600, il giovane e semisconosciuto Johannes Keplero giunse a Praga, per iniziare la sua collaborazione con il matematico imperiale e grande astronomo danese Tycho Brahe, in quel periodo a servizio di Rodolfo II d’Asburgo, Imperatore del Sacro Romano Impero, grande estimatore della cultura esoterica.
Tycho aveva raccolto migliaia di nuovi dati osservativi relativi ai moti planetari. La sua abilità osservativa lo aveva reso il massimo esperto nell’astronomia dell’epoca, oltre che un validissimo filosofo naturale. Infatti, in base ai dati raccolti, dopo aver dimostrato la non solidità delle sfere aristoteliche e confutato il sistema geocentrico tolemaico, elaborò un sistema geostazionario, detto appunto ticonico, in cui i pianeti ruotano intorno al Sole, il quale, allo stesso tempo ruota con essi, intorno alla Terra ferma.
Questo modello, nonostante sia stato frettolosamente abbandonato, perché ideologicamente poco rivoluzionario, aveva un vantaggio rispetto a quelli copernicano e tolemaico: quello di essere fedele ai dati dell’osservazione. Il movimento del cielo, da est ad ovest, la quiete della terra ed il moto dei pianeti si rispecchiavano infatti pienamente nel modello ticonico, tranne il movimento di Marte. La questione dell’orbita di Marte era alquanto complicata, addirittura inspiegabile, volendo rinunciare agli epicicli ed equanti di Tolomeo, per la sua imprevedibilità e per i suoi moti retrogradi. Tycho pensò bene di affidare la soluzione di questo enigma, in ordine al proprio sistema, al nuovo assistente, Keplero, considerando anche la sua inabilità ad osservare il cielo, poiché era debole di vista. Strano a dirsi, colui che elaborò le leggi che oggi descrivono il moto dei pianeti, lo fece da euclideo, guardando la terra più che il cielo.
Keplero, nel 1596, aveva presentato nel suo primo libro, Mysterium cosmographicum, un astruso modello del sistema solare, inteso come una struttura composta di sei sfere solide, associate rispettivamente ai sei pianeti, tra le quali erano inseriti i cinque solidi platonici. Tale modello, compilato a priori, secondo lo stile di Platone circa l’iperuranio, pur se centrato nel Sole, si accordava tuttavia malamente con quello copernicano. Johannes se la prese con Copernico, effettivamente colpevole di aver trascritto misure del passato, senza verificarle, preoccupandosi solo che dessero ragione al suo traballante modello eliocentrico. Inoltre, proprio lui, Keplero, che si ispirava alle forme platoniche per far rientrare in esse la realtà, accusò l’astronomo di Torun, di fare della geometria, invece della fisica. Keplero in effetti si occupò più della matematica che dell’osservazione celeste, peraltro a lui impedita, come detto, per difetto naturale.
Dopo aver stampato il Mysterium, con l’aiuto del suo precettore e amico Michael Maestlin, cercò di diffonderlo a quelli che contavano in Europa, inviandone due copie anche a Galileo. Il grande Brhae venne a sapere del lavoro dell’allora sconosciuto matematico ed astronomo, nato a Weil, settimino, il 27 dicembre, festa di S. Giovanni apostolo, nell’allora ducato di Württemberg, nel sud ovest della Germania, con capitale Praga. La madre, Katharina, allevata da una zia che poi venne bruciata sotto l’accusa di stregoneria, venne ella stessa in seguito accusata dello stesso delitto, ma riuscì a salvarsi a malapena, grazie all’intervento del figlio ormai famoso, Johannes, anch’egli in odore di eresia. Il padre, Heinrich, mezzo mercenario e vagabondo, era sparito da tempo, senza lasciare traccia, dopo aver malmenato durissimamente la moglie e forse anche i figli.
Brahe partecipò, cum grano salis, alcune delle sue preziose misure a questo suo collaboratore, con il quale diverse volte entrò in conflitto, per farle inquadrare nel suo sistema planetario. Keplero, invece, li valutò in senso eliocentrico. Egli infatti, come il suo mentore Maestlin, era un tenace assertore dell’eliocentrismo, essendo peraltro ben collegato al gruppo di studiosi antiaristotelici che circolavano nelle corti dell’aristocrazia europea, insieme ai grandi esponenti del pensiero magico. Tutti dediti ad una ricerca fondata sulla base del misticismo geometrico, delle armonie e delle sue aperture creative, facendo così prevalere l’immaginazione razionale sulla realtà. Stesso procedimento utilizzato dagli illusionisti e dai maghi, i quali presentano con forza le loro visioni, fino a farle credere reali.
L’insanabile difformità di concezione cosmologica, che opponeva Brahe a Keplero, dipendeva anche dalla differenza dei loro metodi di indagine. Secondo Tycho, l’astronomia è una scienza che si costruisce a posteriori, ricavando dai dati osservativi il modello che li raffiguri, come l’immagine dallo specchio. Keplero, invece, costruiva la sua indagine a priori, cercando di fare rientrare i dati dell’osservazione in modelli razionali precostituiti. Egli riuscì quindi a trovare la soluzione geometrica in chiave eliocentrica dei dati di Brahe, pubblicando nel 1609, nel testo Astronomia nova, le prime due famose leggi sulle orbite ellittiche dei pianeti e della Terra, rispetto ad un fuoco occupato dal Sole.
I risultati dell’osservazione costituiscono i fattori immutabili e certi, il firmamentum della scienza. La loro interpretazione tuttavia può variare a seconda della teoria adottata. Difatti, le osservazioni relative ai passaggi planetari rientravano analogamente nei tre modelli tolemaico, copernicano, tychonico. Ognuno di essi dava ragione secondo prospettive diverse al moto planetario: «Nonostante le importanti differenze concettuali, dal punto di vista predittivo è possibile dimostrare una loro sostanziale equivalenza; i risultati forniti utilizzando gli strumenti previsti dai tre astronomi differiscono, come scrive Keplero, “per meno di un capello”»[1].
È quanto sosteneva San Tommaso, secondo il quale gli stessi fenomeni naturali possono essere spiegati in modo diverso. La conoscenza assoluta infatti si determina solo quando un effetto si spiega con la sua causa o principio ad esso primo. Una spiegazione che faccia risalire la causa dagli effetti non è che ipotetica (Summa Theologica I, q. 32, art. 1 ad 2) e possibile di altra interpretazione. L’astronomia, la fisica, quindi, sono scienze ipotetiche, mentre la metafisica è la scienza della certezza ed inalterabilità, perché parte sui principi primi indubitabili, fondati sull’identità dell’Essere.
Questo per dire che le leggi di Keplero, con modifiche tecniche, potrebbero funzionare anche secondo la concezione di Tycho Brahe, nella quale la Terra è considerata in quiete, così come si manifesta ai sensi. Ma poiché questa concezione sensata è, dal punto di vista speculativo, affine alla cosmologia tomista, venne da subito combattuta ed accantonata. Al contrario dell’idea del movimento fisico della Terra. A tale idea, altrettanto plausibile, corrisponde tuttavia una forza sovversiva intrinseca, in grado di destabilizzare il senso comune e giungere persino ad intaccare la fede nel Dio che si manifesta nell’opera delle sue mani. Difatti, se quanto si percepisce è illusorio, perché dovrebbe essere reale e certo Colui dal quale il tutto deriva?
Del resto, Cristo fondò la sua Chiesa sulla Pietra, perché, come l’ elemento Terra, è segno e simbolo della stabilità, della fermezza, della quiete rispetto alle forze della natura. Cristo soffrì la sua passione in pace, imperturbabile, nell’ingiusta sofferenza che gli veniva inflitta dagli accusatori, dimostrando fino in fondo la certezza ed il valore delle sue promesse. Mettendo il moto la Pietra, rispetto al Sole, ribaltando cioè i dati della percezione, si relativizza e si ribalta tutto. Anche il mandato di chi interpreta e diffonde legittimamente la Parola, mediante l’autorità della Chiesa Romana, alla luce della Tradizione Apostolica. Come fece Lutero, influenzato dalla metafisica solare rinata nella corte medicea, che scelse come simbolo della sua riforma una croce nera nel cuore di una rosa bianca, con cinque petali, come la massonica stella fiammeggiante.
Probabilmente, per questo tipo di ragione, il gesuita Melchiorre Inchofer, nel Tractatus syllepticus, considerò l’opinione della mobilità della terra, come scrisse Galilei, «tanto orribile, perniciosa e scandalosa», che se anche si permettesse di mettere in dubbio i fondamentali articoli della fede, come «l’immortalità dell’anima, la creazione, l’Incarnazione, non si deve però permettere che si disputi o si argomenti contro la stabilità della terra», poiché solo questo principio sopra a tutti deve essere ritenuto talmente sicuro, da impedire «in alcun modo» che qualcuno gli argomenti contro, mettendolo in discussione[2].




[1] A. M. Lombardi, Keplero – una biografia scientifica, Codice Edizioni, Torino 2008, p. 8.
[2] A cura di I. Del Longo e A. Favaro, Galileo, Dal carteggio e dai documenti – pagine di vita, Sansoni, Firenze 1984, p. 382.

venerdì 14 settembre 2018

LA “CROCE SOLARE”



La Sacra Scrittura afferma che, nel corso della storia della salvezza, l’arcangelo Gabriele si manifestò in sembianze umane al profeta Daniele, annunziando le fatidiche «settanta settimane», 490 anni, che precedevano la venuta del Figlio dell’uomo sulla Terra (cfr. Dn 8, 16; 9, 21). Quest’ultima si realizzò, quando lo stesso angelo rivelò a Maria che Dio aveva scelto lei, per divenire la madre del Verbo. Prima di mostrarsi alla Vergine, l’angelo era apparso al sacerdote Zaccaria, mentre stava officiando nel tempio di Gerusalemme: «Io sono Gabriele che sto al cospetto di Dio e sono stato mandato a portarti questo lieto annunzio» (Lc 1, 19). Per la sua incredulità, Zaccaria venne reso muto e tale rimase fino alla nascita di Giovanni, il precursore. In tale occasione, finalmente la sua lingua si sciolse, prorompendo nel famoso cantico, recitato quotidianamente nel corso delle Lodi. Le due apparizioni dell’Arcangelo e le due conseguenti venute al mondo, del Battista e di Gesù, rappresentano quattro misteriosi eventi salvifici, i quali possiedono anche una valenza universale e cosmica, che «durerà quanto il Sole, quanto la luna per tutti i secoli» (Ps 72, 5). 

Di certo, l’uomo moderno e la società stessa hanno perso il senso del mistero legato al cosmo, la sacralità dei fenomeni celesti. I media assorbono e guidano le coscienze, secondo una “paideia” non sempre trasparente e finalizzata al bene. Un tempo erano i movimenti del Sole e degli elementi celesti i principali e spettacolari mezzi di informazione e formazione delle coscienze, di conseguenza molto sensibili circa il soprannaturale. Si contemplavano assiduamente i fenomeni celesti, credendo nell’omologia tra l’alto ed il basso. Quanto avveniva in cielo, sembrava corrispondere e determinare quello che sarebbe successo in terra. Spesso si esagerava. Così come si esagera attualmente, in senso opposto. Oggi infatti i movimenti del Sole e del cielo interessano in genere per quanto riguarda le previsioni del tempo, se farà bello nel week end, o per i fuochi di paglia di qualche scoperta scientifica americana. Essi sono stati spogliati del loro significato profondo, che li collega al Logos, dal quale «tutto è stato fatto» (Gv 1, 3) ed al quale tutto resta collegato. In questo senso, proprio il Sole, con le sue armoniche quattro fasi, due equinozi e due solstizi, indifferenti ai più, sembra celebrare sistematicamente col suo passaggio in cielo, in una sorta di liturgia cosmica, i quattro eventi misteriosi ai quali ci stiamo riferendo. 

Il precedente calendario liturgico faceva precedere la festa di san Gabriele di un giorno rispetto a quella dell’Annunciazione, ancora oggi celebrata il 25 marzo. Questo santo Arcangelo si presentò difatti a Maria, in Galilea, in prossimità dell’equinozio di primavera. Quando il giorno e la notte hanno la stessa durata. Questo evento naturale era acclamato con enfasi dalle religioni naturalistiche, le quali ritenevano che in tale momento si compisse l’unione del maschile e del femminile. Per gli antichi romani, Marte, dopo aver sedotto Minerva, «il 19 marzo sposava Neriene. La celebrazione della funzione riproduttiva precedeva la partenza per la guerra, fissata al 23 marzo, festa del Tubilustrium». Il fuoco sacro di Vesta, custodito nel centro dell’Urbe, svolgeva simbolicamente le funzioni di un fallo, «penetrando vergini principesse o serve della casa reale, generava un eroe fondatore o rifondatore. Il fuoco era purus, ma al tempo stesso semen»[1]. Questo simbolo stimolava con enfasi il popolo ad imitare l’immaginata ierogamia di tali divinità durante le feste primaverili delle vestali. Superando l’impurità legata a tali superstizioni, come dice san Leone Magno, in seguito al martirio di Pietro e Paolo, la Roma pagana, da maestra di errori, divenne Roma felix, discepola della Verità[2]

In questa fase di equilibrio tra luce e buio, si presentò dunque a Maria, in un villaggio sperduto della Palestina, l’Inviato di Dio, in probabile figura d’uomo, imponente e rispettoso. Il quale subito rassicurò la Vergine: «Non temere Maria, perché hai trovato grazia presso Dio…» (Lc 1, 29-30). Il turbamento di Maria era composto da sorpresa e timore. Sorpresa, per la incomprensibile comparsa di un individuo avvenente nell’intimo della sua casa. Timore, per l’annuncio della maternità, che sembrava contraddire il suo fermo proposito di perpetua purezza. Sicuramente, se l’angelo si fosse presentato in forme femminili, come donna, Maria si sarebbe sentita più a suo agio, sarebbe stata meno turbata. È comunque un dato di fatto riferito dalla Sacra Scrittura che gli angeli non siano mai apparsi agli uomini in forma di donna. Forse, per non suscitare diversi turbamenti. 

A Daniele, difatti, Gabriele si rese visibile come un possente uomo (cfr. Dn 8, 15). Tuttavia, non un uomo effettivo e perfetto, come è il Figlio di Dio. Il quale avrebbe assunto la vera carne ed il vero sangue da Maria, pur conservando intatta, come Lei la verginità, la sua natura divina. Anche l’arcangelo Raffaele si presentò sotto le spoglie di un uomo, di nome Azaria, a casa di Tobia. Stette accanto a lui giorni e notti, guidandolo verso la sposa, Sara, senza che nessuno sospettasse della sua vera natura. Soltanto dopo aver condotto a termine la sua missione, prima di sparire gloriosamente, rivelò di essere: «Raffaele, uno dei sette angeli che sono sempre pronti a entrare alla presenza della maestà del Signore… a voi sembrava di vedermi mangiare, ma io non mangiavo nulla: ciò che vedevate era solo apparenza…» (Tb12, 15, 19). 

Gli interventi di Gabriele nella storia della salvezza come dicevamo sono particolari, perché hanno come consacrato equinozi e solstizi, prima di allora celebrati dai culti naturalistici in altro senso. I pagani chiamavano il solstizio d’estate “la porta degli uomini” ed il solstizio d’inverno “la porta degli dei”. Essi credevano che nel solstizio d’estate si radunassero in cielo le anime che avrebbero dovuto incarnarsi nel corso dell’anno, nelle rispettive «case», o segni, che compongono lo zodiaco. Nel solstizio d’inverno, pensavano che si raccogliessero, all'opposto, tutte le anime dei morti durante i mesi dell’anno, in attesa di essere indirizzate verso le dimore divine, «come premio per le loro virtù, specie quelle eroiche»[3]. Queste quattro fasi del Sole rappresentano invece per noi cristiani i quattro momenti cruciali, quatuor tempora, della nostra religione. Ed anche una specie di consacrazione del movimento del Sole. 

Infatti, considerando la Terra in quiete ed il Sole in movimento intorno ad essa, realisticamente, così come i sensi percepiscono, è possibile ipotizzare come una lettura cristocentrica del rapporto Terra-Sole, ovviamente del tutto estranea alla concezione astronomica, che dichiara il contrario. Questi quattro punti di specifica luce solare, uniti a due a due, richiamano la forma di una croce. L’asse minore degli equinozi, sembra corrispondere al braccio orizzontale. L’asse maggiore dei solstizi, all’asse verticale. Inoltre, «poiché il Signore ha fatto tutto per un fine» (Pr 16, 4), nel punto di incrocio dei due assi della “croce solare”, è posizionata stabilmente la nostra Terra, luogo dell’Incarnazione, dove perennemente pulsa il Cuore Eucaristico di Cristo. 






[1] A. Carrandini, Il fuoco sacro di Roma, Editori Laterza, Bari-Roma 2015, pp. 83, 86. 


[2] Cfr. Sermo 1, in natali App. Petri et Pauli. 


[3] B. Carboniero – F. Falconi, In hoc signo vinces, Ed. Mediterranee, Roma 2011, p. 94.

domenica 20 maggio 2018

IL BARATTO PITAGORICO




Gli elogi che Galileo rivolse a Copernico e ad Aristarco, nel Dialogo sui due massimi sistemi del mondo, per “aver fatta con la ragione tanta violenza al senso”, fino a divenire padrona della loro fede, sono molto indicativi per comprendere come sia stato possibile l’imporsi di un modello celeste immaginato, rispetto alla stessa realtà celeste. Ossia, l’idea del movimento della Terra, a tutti gli effetti ferma, rispetto al tangibile moto del Sole e delle stelle. In questo procedimento, non solo il pensare e l’essere, il razionale ed il reale sono stati equiparati. Ma la prima categoria si è imposta sulla seconda, adombrandola. Questo singolare avvicendamento è avvenuto in nome di quella scienza che nei suoi protocolli dichiarava di avere come oggetto lo studio induttivo della realtà, mediante il linguaggio oggettivo della misura geometrica e matematica.
Il moto effettivo del Sole e dei pianeti, percepito da tutti come evidente realtà, venne dunque dichiarato apparente e illusorio, a partire dal 1500. Sorretto da antiaristoteliche spinte sotterranee, venne invece innalzato il modello pitagorico eliocentrico, del tutto inadeguato ed insufficiente, sia per le pseudo prove poste a suo fondamento, i dati astronomici proposti non corrispondevano affatto a quelli celesti. Sia perché contrario al principio di contraddizione dell’essere. La terra infatti, al tempo stesso, veniva dichiarata in movimento rispetto all’idea, pur se in quiete rispetto ai sensi. Il metodo utilizzato, contro chi si opponeva a questa insolita immagine del cielo, fu quello dell’ironia e della denigrazione, mancando gli argomenti per confutare la validità del “senso comune”. Tale metodo sarcastico indirizzato ai sostenitori della quiete terrestre si è propagato nei secoli ed ancora perdura. Al giorno d’oggi, chi sostenesse, come chi scrive con i pochi seguaci, che la Terra è in quiete ed il Sole e gli altri corpi celesti in movimento, così come i sensi percepiscono, verrebbe ironicamente indicato come retrogrado, oscurantista, antiscientifico, ecc. Stesse accuse che vengono attribuite alla Chiesa Tridentina. Il realismo moderato sostenuto dagli scolastici medievali è infatti un indirizzo filosofico ritenuto ormai privo di fondamento, nonostante questo potrebbe significare che due più due non fanno quattro.
Galilei, come Cartesio, fu un ambiguo sostenitore di Aristotele e di Platone, a seconda della convenienza. Da buon pitagorico, egli mascherò dietro le argomentazioni scientifiche una dottrina. Quella pitagorica. Il Rinascimento fu l’epoca della riscoperta delle arti classiche. Tra queste, lo studio delle armonie e delle scale musicali, in particolare quella pitagorica, basata sull’intervallo di quinta giusta, corrispondente al rapporto 2/3. Vincenzo Galilei, padre dello scienziato ed apprezzato musicista, maestro di liuto, ebbe modo di insegnargli la bellezza e la potenzialità di questo rapporto e della dottrina al quale è collegato, condividendo con lui e con gli altri figli la sua difesa della monodia accompagnata, rispetto alla polifonia, nonché la ripresa della tradizione greca basata appunto su una sola voce, rispetto al cantare più arie insieme.
Il rapporto pitagorico di quinta, corrispondente al sol, è assai singolare. Dal punto di vista numerologico, esprime implicitamente la cifra dell’apocalisse, il seicentosessantasei. Infatti, dividendo questi due numeri, 2/3, si ottiene il numero periodico 0,66666… Bastano le prime tre cifre, per indicarne l’aspetto simbolico e settario al quale può essere ricondotto. Non solo. Questo rapporto armonico è espresso simbolicamente nella famosa stella a cinque punte. Nel senso dell’uomo vitruviano, il rapporto è invertito in 3/2. Del resto, la sua riduzione all’unità si ottiene con i sei sesti, 3/2 x 2/3 = 6/6.
L’implicito riferimento apocalittico del rapporto pitagorico, 2/3, ci consente di aprire una parentesi evangelica, non estranea, a nostro avviso, al cambio di paradigma astronomico avvenuto nel 1500, sul quale da tempo stiamo dissertando. Ci riferiamo alla tentazione subita dal Signore, nel deserto. Ne parla l’evangelista Matteo, sottolineando che Gesù, dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti nel deserto, ebbe fame. In quel momento, si presentò Satana (cfr. Mt 4, 1-4). In genere, la tentazione giunge all’inizio o durante la prova, al fine di impedire di condurla a termine. Non quando la prova è praticamente superata. Matteo invece evidenzia che, solo dopo quaranta giorni, Gesù ebbe fame e venne tentato dal diavolo. Questo lascia credere che non si trattasse di una tentazione carnale. Difatti, dopo quaranta giorni di purificazione, la carne, divenuta debole, non sente attrazione per la carne.  
È noto che i «quaranta giorni» rappresentano un evento simbolico e sacro, che richiama altri momenti della storia della salvezza. La permanenza di Mosè sull’Oreb, l’esodo del popolo eletto verso la terra promessa, il cammino di Elia nel deserto (1 Re 19, 8), ecc. Il numero quaranta è composto dal quattro, indice di saldezza, e dal dieci, simbolo della perfezione. «Quaranta giorni» figurano allora il tipico periodo della prova mistica. Alla fine di essi, accade qualcosa di spiritualmente importante. Per tale ragione, al termine di questi giorni e non prima, si presentò l’avversario, per tentare il Maestro. 
Ma «quaranta giorni» non indicano esclusivamente la dimensione temporale. Essi alludono come ad un tragitto, una elevazione, la conquista di una vetta. Il punto più alto raggiungibile dall’anima. Il superamento dell’«ego». Quando si raggiunge il limite umano, ci si trova di fronte il cielo, la dimensione divina, la terra promessa. Tuttavia, è proprio qui che un insormontabile abisso preclude il cammino, lo adombra, rendendolo inaccessibile. Qui compare l’ultima barriera, il grande velo, la nube che avvolge Dio, i cherubini e la fiamma della spada folgorante posti a custodia dell’Eden (cfr. Gen 3, 24). In quel momento, al termine della prova di questo numero biblico, si manifesta quindi la tentazione. Questo perché è allora che termina l’azione della Grazia, e l’uomo è lasciato in balia di se stesso, per proseguire con le proprie forze la risalita verso la Sommità. Infatti, superata una prova, si acquisisce potere. Del resto, anche gli sciamani ed i grandi maghi digiunano per lunghi periodi, al fine di interagire con gli spiriti.
Gesù dopo il lungo digiuno ha come raggiunto, dal punto di vista umano, l’altezza di Satana, la sua posizione. Egli così ha portato l’uomo all’altezza di quello che fu il più splendido cherubino. Il quale non conosce in dettaglio lo svolgersi dei piani della redenzione umana, essendo fuori della Grazia. Si è ribellato, ha perso la comunione, la partecipazione e condivisione dei disegni divini. Come affermano S. Agostino (Città di Dio 1, XI, c. 21) e S. Tommaso (Somma Teologica I, 64, a. 1; e q. 44, a. 1, ad 2), egli non sapeva con certezza di avere di fronte, in povere vesti, addirittura Dio, nella Persona del Figlio.
«Se tu sei il figlio di Dio…». Satana inizia così, più che a tentarlo, ad interrogarlo. Egli vuole sapere chi è davvero quell’uomo che gli si presenta di fronte. Prova a farselo rivelare, chiedendogli un atto di magia. Lo desidera tutto per sé, ai suoi piedi, nel suo amore egoistico e possessivo. Voleva sapere se fosse uno dei suoi. Un mago, come i sacerdoti egizi che entrarono in competizione con Mosè, eguagliando tutti i suoi prodigi con le tecniche della magia egizia.
Secondo la richiesta del maligno, Gesù avrebbe dovuto operare una sorta di sortilegio, ossia la mutazione di un elemento in un altro. Le pietre in pane. Trasformare l’essenza di un ente, nell’essenza di un altro ente. Applicare il principio materialista che pone la materia alla base dell’essere. La stessa materia accomuna tutti i corpi. Quindi variando la forma della materia, essendo la sostanza la stessa, si otterrebbe la trasformazione dei corpi illusori. Se questo fosse possibile, l’ente individuale perderebbe il fondamento proprio, non essendo più radicato nell’Essere autosussistente, restando privo della propria autonomia e specificità ontologica, la sua particolarità, la sua parte propria di partecipazione all’Essere.
Gesù invece non baratta la realtà: «Il vostro parlare sia sì sì no no, il resto viene dal maligno» (Mt 5, 37), dirà in seguito. Il Figlio di Dio dimostra infatti concretamente che la sua logica è quella della non contraddizione dell’essere, quella del sì o no. Non quella del sì e no. Quest’ultima è alla base della dialettica eraclitea ed hegeliana, della conciliazione degli opposti, del bene che si muta in male e viceversa. Della pretesa ontologica del male. Il quale invece non ha consistenza, essendo una privazione del bene. Ma non un’entità in sé. Gesù dimostra quindi il valore della realtà creata, l’importanza ontologica del più piccolo ente esistente. Anche gli uccelli ed i passeri sono nutriti da Dio, perché anche essi hanno valore e significato ai suoi occhi (Mt 6, 26). Come i capelli del nostro capo (Mc 10, 30). Dio non inganna, non crea illusioni, non nasconde la realtà dietro a false apparenze.
Gesù acconsentì solo una volta a trasformare un ente in un altro ente. Ed anche a malincuore. Nelle nozze di Cana, su richiesta della Madre, alla quale rispose in modo non entusiasta (cfr. Gv 2,4). Ma accordò la richiesta, perché finalizzata alla gloria di Dio, alla sua manifestazione di fronte ai discepoli. Non per soddisfare un fine personale, come richiesto dal diavolo. Mutò la natura dell’acqua in quella del vino, in una sorta di anticipo della futura sua Transustanziazione. Il vino finale, migliore di quello iniziale. Così come l’antica Alleanza, in Gesù, si sarebbe mutata in nuova Alleanza. Come Mosè prefigurò il Cristo, così il vino buono venne servito alla fine. In questo caso, un ente venne perfezionato e sublimato dall’onnipotenza di Dio.
La realtà possiede ed esprime un valore insuperabile. Essa è il fondamento sul quale instaurare la conoscenza, non essendo illusoria, come la scienza vuole farci credere in questo particolare frangente. La realtà difatti è fonte di conoscenza, alla luce del realismo moderato e della metafisica scolastica. Quindi non manifesta il contrario di quello che è, ed i sensi non ingannano nelle loro funzioni più evidenti. Sono i ragionamenti tortuosi che confondono e allontanano dalla verità (Sap 1, 3). Essi costituiscono quell’ampio «resto che viene dal maligno», e che tanto ammalia gli uomini. Sostituire alla realtà percepita una sua immagine mentale è quindi un tipico ed erroneo procedimento pitagorico, al quale a partire da Galilei tutta la società degli uomini è stata assoggettata.
Il Pisano infatti ripropose in altri termini, in altre condizioni, lo stesso baratto gnostico proposto dal maligno a Cristo nel deserto: la sostituzione di un ente con un altro ente. Ossia, la negazione della realtà concreta e l’elezione di una immagine che la rappresenta. Il Pitagorico fermò idealmente il Sole e mise in moto la Terra, determinando l’attestazione dell’esatto contrario di quanto si vede, il ribaltamento del senso comune, l’inversione dei termini che compongono il processo cognitivo, l’alterazione della lettura del libro della natura, nel quale sono inscritte le leggi armoniche che la regolano.
Da allora, dall’accettazione di questo processo, noi abbiamo dato vita ad un mondo virtuale ed utopico, zeppo di informazioni precostituite, di opinioni comuni, fortificate da chi esercita il potere a suo vantaggio, essendosi prostrato, a differenza del Divino Maestro, ai piedi dell’antico serpente. La nostra cultura si è costituita sui libri scritti dai vincitori, asserviti ad un potere che non tiene in alcun conto, spesso irridendo, la misera sorte dei vinti. Noi difatti abbiamo ceduto alla tentazione pitagorica di “forzare i sensi”, per dar luogo all’immaginazione. Credendo il contrario di quanto percepiamo, abbiamo accettato il baratto del reale con una sua immagine razionale. Trasformando così una cosa nell’altra. Le pietre, in pane. La dòxa, in epistème.





domenica 21 gennaio 2018

CONGETTURE APOCALITTICHE




Isaak Newton, il padre della fisica moderna, era convinto che le Sacre Scritture e le profezie più enigmatiche potessero decifrarsi mediante un metodo razionale, al pari di un problema scientifico. Stimolato da questa brillante idea, che gli pareva un dono del suo dio, avviò un’indagine personale e segreta, attraverso la quale giunse alla conclusione che «il cristianesimo era stato vittima di una frode e che la Parola di Dio era stata corrotta!»[1]. Elaborò quindi il personalissimo metodo di interpretazione, composto da 16 Regole, a loro volta frazionate in 3 parti, nel quale credette di ricondurre tutta l’Apocalisse di S. Giovanni in 70 Definizioni[2]. Si convinse peraltro di vivere nei famigerati “ultimi tempi”, provocati dall’apostasia della Chiesa Romana, che riteneva responsabile della corruzione religiosa e morale dell’umanità. Combinando quindi le profezie apocalittiche con le visioni notturne del profeta Daniele ed il numero 1260, concluse che la fine del mondo e della civiltà umana sarebbe avvenuta nel 2060. Egli non aveva fatto altro che sommare alla data dell’incoronazione di Carlo Magno, l’800 d. C., la cifra di 1260 giorni, ottenuta, moltiplicando per 30, i 42 mesi durante i quali i pagani calpesteranno il santuario di Dio (cfr. Ap 11, 2-3), giungendo così a decretare la fine del mondo nel XXI secolo. Ma è mai possibile determinare numericamente il tempo in cui il Signore ha decretato la fine del mondo e l’instaurazione del suo Regno?

Sappiamo che san Giovanni inizia il libro della «Rivelazione» rivolgendo sette messaggi, di giudizio, esortazione e speranza, a sette chiese: Efeso, Smirne, Pergamo, Tiàtira, Sardi, Filadelfia, Laodicea. Tutte localizzabili in Asia. Ossia in Oriente, luogo dal quale nasce il Sole, per noi cristiani simbolo di Cristo. Il numero sette si ripete continuamente nell’Apocalisse, riguardo a coppe, sigilli ecc., come a voler indicare un significato recondito attribuibile a tale numero. Le sette chiese potrebbero allora rappresentare sette tappe mistiche, che nel corso della storia indicano il rapporto tra l’opera di Dio e quella dell’uomo. Una progressiva azione redentrice che si attua nella storia dell’umanità attraverso un’azione divisibile in sette tragitti, ognuno composto da trecento anni, una sorta di salita su sette gradini di tutta l’umanità, verso la Gerusalemme celeste. Questo, a partire dalla nascita di Gesù Cristo, fino ai nostri giorni, circa 2100 anni. Trecento anni, perché il numero tre, essendo il numero proprio di ogni processo, inteso come inizio, svolgimento e termine, ricorre costantemente nelle interpretazioni del mondo, della storia, della vita stessa dell’uomo, come simbolo di perfezione ed espressione della Santissima Trinità, creatrice di tutte le cose visibili ed invisibili.

Dal canto suo, san Bonaventura, nelle Collationes Hexaemoron, presentate all’Università di Parigi nel 1273 e rimaste incompiute, rapporta, secondo la tradizione patristica, i sei giorni della creazione biblica alle sei età del mondo, in tutto circa seimila anni, più o meno quattromila prima di Cristo e duemila dopo. Per il santo serafico, la sesta chiesa, quella di Filadelfia, sarebbe segno dei tempi nuovi che si andranno formando in preparazione di quelli finali. Secondo san Bonaventura, l’angelo di Filadelfia sarebbe l’angelo del VI sigillo dell’Apocalisse, il quale sceglie i 144000 eletti per prepararli alla nuova era. Ma in quale epoca collocare tale chiesa?
In ambito iniziatico, il nome di Filadelfia esprime il patrimonio esoterico-ribelle all’interno del quale operano i cosiddetti iniziati, detti appunto “filadelfi” o “filareti”. Ossia, coloro i quali lottano per la determinazione di un nuovo mondo, emancipato da Dio e dalla Chiesa. Forse non per caso, e proprio come profetizzato dal Santo Dottore, nell’Inghilterra rivoluzionaria del XVII secolo, ricomparvero i “Filadelfi”, i cui testi, giunti in Germania influenzarono la setta degli Illuminati e gli stessi Rosacroce. Peraltro, una loggia di nome Filadelfia è registrata anche in Francia nel 1780.
A partire dal Rinascimento, con la riscoperta dei testi pagani e magici, nell’arco di tre secoli, si risvegliarono e ripresero vigore in tutt’Europa le società iniziatiche, fino a fondarsi ufficialmente, nel 1717, nella Gran Loggia madre di Londra, regolata dal «Libro delle Costituzioni» di Anderson e Desaguliers, del 1723. Se la chiesa di Filadelfia fosse quella sviluppatasi nell’arco di questi tre secoli, dal 14° al 17°, l’ultima chiesa, quella di Laodicea, sarebbe in relazione con il nostro tempo: i trecento anni che grossomodo vanno dal 1800 al 2100. In essi, insieme alla rivoluzione tecnologica e massmediatica, si sono determinati eventi significativi, come il Risorgimento, la caduta della Roma felix e, con la fine del potere temporale del Papa, l’avvento della Roma massonica.
Infatti, dopo la presa di Porta Pia ed il confinamento del Papa entro le mura del Vaticano, la Chiesa è stata partecipe di importanti avvenimenti e trasformazioni interne, culminate negli anni 60. Quando si è cioè determinata una profonda scissura nella storia della Chiesa, da allora segnata da un “prima” e da un “dopo” il Concilio Vaticano II. Ne rendono evidente testimonianza alcuni fatti. Ad esempio, prima il tempo liturgico era suddiviso in un solo anno, tutti i 150 salmi del breviario si recitavano integralmente in una sola settimana, anche quelli oggi soppressi perché considerati “violenti”, come i Salmi 102 e 78. Adesso, gli altari sono posizionati verso il popolo, al latino sono subentrate le lingue volgari, le traduzioni dei testi sacri vengono aggiornate da commissioni di autorevoli ed inerrabili esperti. Perfino il Rosario è stato modificato, con l’introduzione della recita dei Misteri Luminosi il giovedì, sancita da Giovanni Paolo II.
Se, da una parte, si registra una delusione ed uno sfollamento nelle fila della Chiesa, indebolita peraltro da carenza di vocazioni, di abbandoni degli impegni religiosi solennemente assunti, dall’altra è curioso rilevare un avvicinamento da parte di coloro che in precedenza le si opponevano. Il sapore genuino della Romanità si è forse disperso? Il sale ha perduto la sua “salinità”? Gesù Cristo troverebbe ancora quella fede in Lui per la quale i martiri hanno offerto la vita, senza cercare conciliazioni e consensi umani, rifiutando ciò che unisce, per rafforzare ciò che divide i cristiani dalla gente non santa? Paradossalmente, Egli forse la troverebbe in chi non sarebbe presumibile trovarla. Proprio in quei christifideles laici, viri spirituales, mediatori fra vita attiva e contemplativa, inseriti nel mondo ed in Cristo, i quali, come afferma Daniele, resteranno saldi ed agiranno: «I più saggi del popolo ammaestreranno molti» (Dan 11, 33). Il progetto risorgimentale segreto dell’Alta Vendita di giungere «al trionfo dell’idea rivoluzionaria attraverso il Papa»[3], sta andando davvero in porto?

Gioacchino da Fiore, condannato dal Concilio lateranense del 1215, per alcune espressioni eretiche contro Pietro Lombardo, ma riabilitato in seguito dal papa Onorio III, nel 1220, alluse all’equazione fra papato ed Anticristo, poi ripresa dai Protestanti e combattuta strenuamente dai Gesuiti. Su presupposti gioachimiti, relativi alla terza età della storia del mondo, quella dello Spirito, risorse, nel corso del 1600, il mito del papa angelico. Questa profezia dichiarava la venuta di un papa buono, il rinnovamento della chiesa e la realizzazione del detto evangelico “unum ovile et unum pastore” (Gv 10, 16).
Le riserve riguardo alla profezia del papa angelico vennero subito espresse da diversi esponenti dell’Ordine Gesuita, in particolare da S. Roberto Bellarmino, perché le prospettive ad essa collegate non collimavano con le regole di tipo militaresco proprie di questi religiosi, totalmente dediti al servizio della suprema autorità gerarchica della Chiesa. Il senso irenistico e radicalmente riformatrice connesso alla profezia del papa angelico, determina infatti screpolature delicate sulle mura che mantengono immune la Chiesa dalle forze estranee. Senza la ferma barriera di queste mura, innanzitutto liturgiche e dottrinali, i sapori si confondono, il sacro si annacqua, la Chiesa verrebbe pervasa da quanto le si oppone. Forse a questo pericolo si riferisce il Signore, rivolgendosi all’angelo della Chiesa di Laodicea: «Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo. Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca» (Ap 3, 15).

Nel segreto di La Salette, del 19 settembre 1846, la Vergine Immacolata già dichiarava l’attuarsi di uno stato nefasto all’interno della Chiesa: «Roma perderà la fede, diventerà la sede dell’anticristo». Affermazioni che fanno rabbrividire, un tempo sulle labbra degli eretici, formulate invece dalla Madre di Dio, oggi quasi censurate, anche alla luce delle migliaia di messaggi mariani, meno efficaci e dirompenti, che continuano a giungere da altre parti. Sembra alludere ad una crisi di fede interna alla Chiesa, anche il famigerato terzo segreto di Fatima, che non venne divulgato, come richiesto dalla Vergine, nel 1960, dando così spunto ad ipotesi veramente inquietanti in proposito.
Insieme alle profezie di Newton, riecheggiano quelle ancor più famose attribuite al vescovo irlandese Malachia, vissuto nel XII secolo. Il quale, attraverso 112 brevi motti in latino, profetizzò la successione dei Papi, fino al tempo ultimo in cui Pietro sarebbe tornato in terra, per riprendere le chiavi della Chiesa. Stiamo dunque vivendo questi famigerati ultimi tempi? Se infatti con il 111 e penultimo motto, De gloria olivae, viene in genere designato il Papa emerito, Benedetto XVI, per via dello stemma con il simbolo dell’ulivo, il successivo si conclude con l’annunzio del famigerato Petrus Romanus, che regnerà durante l’ultima persecuzione della Chiesa, dopo la quale viene profetizzata la venuta del giudice tremendo: «Petrus Romanus, qui pascet oves in multis tribulationibus; quibus transactis, civitas septicollis diruetur, et Judex tremendus iudicabit populum suum. Finis».
Il 2060 è prossimo, la persecuzione della Chiesa è divenuta una realtà quotidiana. Così come la sua crisi interna, che vede opporsi le fazioni di chi frena e di chi accelera la sua modernizzazione. Francesco, Vescovo di Roma, è preso di mira da più parti, soprattutto interne, per svariati e non trascurabili motivi. La confusione tra noi fedeli è quindi lievitata ed è molto difficile prevedere cosa potrà accadere prossimamente. Peraltro, più che cercare di conoscere i tempi stabiliti dal Padre, per ricostituire il regno di Israele (cfr. At 1, 7-8), a noi spetta il ruolo della testimonianza della Verità evangelica. Per il resto: «Estote parati, quia, qua nescitis hora, Filius hominis venturus est» (Mt 24, 44).  




[1] V. Palermo, Newton e la mela di Dio, Hoepli, Milano 2016, p. 96.
[2] A cura di M. Mariani, I. Newton, Trattato sull’Apocalisse, Bollati Boringhieri, Torino 1944, p. 21, Regole per interpretare le parole ed il linguaggio delle Scritture.
[3] In R. de Mattei, Pio IX e la Rivoluzione italiana, Cantagalli, Siena 2012, p. 24.