lunedì 31 ottobre 2016

IL TRISTE TEILHARD



Qualcosa di ambiguo, questo personaggio lo possiede già nelle sue radici. La madre, Berthe-Adèle de Dompierre d’Hornoy, era infatti pronipote di Marguerite-Catherine Arouet, sorella di Voltaire, il sarcastico denigratore di Cristo e dei cristiani. Sembra che Pierre Teilhard de Chardin abbia intrapreso lo stesso intento, per altra via, sotto forma di un raffinato pseudo misticismo, formulato in termini ambigui e vaghi, insidiosi addirittura. Insomma, un cristianesimo di facciata che trasmette al suo interno i germi del suo contrario.
Pierre nacque nel 1881, nel cuore della Francia, vicino a Clermont-Ferrant, quarto di undici figli, in una facoltosa famiglia di antica nobiltà. Studiò in un collegio di Gesuiti ed entrò nella Compagnia a diciotto anni. Morì improvvisamente il giorno di Pasqua, nei pressi di New York, il 10 aprile 1955, come a compimento di un suo espresso desiderio.
La sua opera venne ripetutamente condannata. Nel 1957, iniziarono i primi interventi censori da parte della Santa Sede. Anche il papa “buono”, Giovanni XXIII, firmò un monito del Sant’Uffizio, nel 1962, che proibiva le sue pubblicazioni, perché «contengono ambiguità ed errori gravi che offendono la Dottrina Cattolica». La Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede, ex Sant’Uffizio, confermò tale proibizione, nel 1967.
Il perché dei molti sospetti verso un esponente della Chiesa, nonché paleontologo, oggi da più parti rivalutato ed ampiamente sdoganato, è presto detto. Le sue opere, come dicevamo, esprimono un’interpretazione della fede cristiana, in senso gnostico, acquariano, in vista di una nuova chiesa, “post cattolica”. Un veleno iniettato sotto forma di bene ed in grado di contagiare gran parte del sacro Organismo.
Le elucubrazioni di Teilhard, colte ma confuse, camuffate di spiritualità metacristiana, espresse con una terminologia ambigua e sfuggente sono difatti riuscite a permeare molte coscienze e strutture ecclesiastiche. Anche in base ai forti appoggi esoterici, che puntualmente entrano in gioco quando qualche personaggio singolare si impegna a travisare la sacra dottrina. Del resto, come avvertiva Cristo circa i falsi profeti che si manifesteranno alla fine dei tempi: «Là dove sarà il cadavere, si raduneranno gli avvoltoi» (Mt 24, 28). Il cadavere in questo caso sarebbe Teilhard, gli avvoltoi i suoi seguaci?
Pertanto, è venuta ramificandosi, all’interno della dimensione cristiana, una mentalità ecclesiale, non più coesa e stabile. Ma in continua evoluzione nelle sue certezze, fino al dissolvimento delle stesse, in una sorta di “dissolve et coagula”, teso alla determinazione del teilhardiano “Cristo finale”, il vago ed incomprensibile “Punto Omega”, presunta sintesi e vertice del movimento evolutivo di ogni essere, di ogni pensiero-materia, di ogni istituzione[1].
Non è dato comprendere, come la persona divina di Cristo possa essere concepita e comparata ad un concetto sfuggente come quello di “punto”. Il “punto” è una idealizzazione euclidea, estranea alla realtà. Esso non appartiene allo spazio, perché è senza estensione e senza parti, mentre lo spazio è esteso e frazionabile. Peraltro, il Cristo nell’Apocalisse ha detto di essere l’alfa e l’omega, l’inizio e la fine, non solo la fine, l’omega (cfr Ap 22, 13), una sorta cioè di “buco nero” in grado di assorbire tutto l’universo.
Viene da chiedersi come un religioso possa essere giunto ad interpretare in modo così ambiguo la persona divina di Cristo, rendendola un’entità fondata su elucubrazioni soggettive e vacue. In un certo senso, è Teilhard stesso che in uno dei suoi scritti, Le cœur de la Matière, fornisce la risposta. Egli fin dall’infanzia si dice posseduto da un vivo desiderio di trovare qualcosa di solido, consistente: «Non avevo più di sei o sette anni quando mi sentii attratto dalla Materia – o più esattamente a qualche cosa che splendeva nel cuore della Materia».
Il giovane Pierre, come i presocratici, cercò l’essere delle cose, localizzandolo nel materiale duro. La compattezza della materia ispirava in lui appagamento. Amò quindi prima il ferro. Ma quando scoprì che si arrugginisce, confortò la delusione ricorrendo alla pietra, palese rappresentazione del “pieno”. Con la maturità venne anche l’evoluzione. Egli si convinse che l’assoluto, più che nella pietra, fosse nella dinamica che trasforma il cosmo. Intese così l’evoluzione come il fattore immutabile, l’eterno divenire.
Il “pieno” della giovinezza, si trasforma dialetticamente nel “vuoto” della maturità. Il “duro” si sublima nel suo opposto, la materia nello spirito, sulla scia del passo alchemico di Maria l’Ebrea, del 200 d. C.: «Se non rendi incorporei i corpi e non rendi corporee le cose prive di corpo, il risultato atteso non ci sarà». Teilhard pertanto “smaterializza” Cristo, per renderlo qualcosa che non esisterebbe, se non nella mente di chi così lo concepisce, dando corpo al suo opposto, a ciò che gli si oppone: lo spirito dell’Anticristo.
Nell’opuscolo del 1923, «La messa sul Mondo», sottotitolato, «Il Fuoco sul Mondo», scrive: «In principio era il Fuoco … Tu mio Dio sei l’essenza stessa e la stabilità dell’Ambiente eterno … Spirito ardente, Fuoco fondamentale e personale, Termine reale di una unione mille volte più bella e desiderabile della fusione distruttrice immaginata da qualsiasi panteismo, degnati di scendere, oggi ancora, sulla fragile pellicola di nuova materia in cui sta per avvolgersi il Mondo, per dargli un’anima».
Il Verbo (cfr. Gv 1, 1) viene qui equiparato ad un fuoco universale, invocato per divenire, in una sorta di ierogamia distruttrice, come l’anima mundi di una nuova materia, prossima ad avvolgere la Terra. Del resto, Teilhard si sente «figlio della Terra, molto più che un figlio del Cielo». E nella sua «messa mentale sul Mondo», continua la sua strana preghiera: «forte di un sacerdozio che tu solo, credo, mi hai conferito, su tutto quanto, nella Carne umana, si prepara a nascere o morire sotto il sole che sorge, invocherò il Fuoco». Invece dello Spirito Creatore, viene invocato l’accensione di un fuoco materiale divinizzato, segnato con la maiuscola, come la «Carne» umana.
Alla luce di queste rapide note, si comprende perché de Chardin sia molto apprezzato in ambiti non cattolici e pseudo cristiani. Non a caso, il suo nome risulta quello più citato, in un famoso sondaggio[2], circa l’autore che più ha influenzato nei soggetti intervistati la trasformazione interiore, in senso acquariano, evolutivo, in vista di una nuova religiosità.
D’altra parte, come dichiarando l’abbandono di ogni resistenza al peccato, egli scrisse: «Mi sono accorto di perdere contatto con me stesso. A ogni passo della discesa si manifestava dentro di me una persona nuova, della quale non ero più certo di conoscere il nome e che non mi obbediva più. E quando ho dovuto arrestare l’esplorazione perché il sentiero svaniva sotto i miei passi, ho scoperto ai miei piedi un abisso senza fondo, e di lì scaturisce, chissà da dove, la corrente che oso chiamare la mia vita»[3].
L’esoterista René Guénon, evidenzia che «l’idea di evoluzione costituisce per i teosofisti una vera ossessione»[4]. E per Teilhard il concetto di evoluzione fu davvero l’ossessione che lo porterà a concepire un evoluzionismo materialistico, che implicitamente nega la realtà del male e la trascendenza dell’ordine soprannaturale, alla luce di una “Materia” considerata eterna ed autosussistente, soggetta ad una continua evoluzione, culminante in una sua incomprensibile autocoscienza spirituale.
Scrive in modo altrettanto oscuro, la teosofa Alice Bailey, fondatrice nel 1923 della Scuola Arcana, nel Trattato di Magia bianca: «La Vita Unica, manifestandosi attraverso la materia, produce un terzo fattore che è la coscienza. Questa, risultato dell’unione dei due poli, spirito e materia, è l’anima di tutte le cose ... La Vita Unica diviene così un’entità determinata e cosciente per mezzo del sistema solare ed è quindi la totalità delle energie, di tutti gli stati di coscienza e di tutte le forme esistenti … Lo scopo per cui la Vita prende forma e il proposito dell’essere manifestato è lo sviluppo della coscienza o rivelazione dell’anima».
Stesso pseudo spiritualismo senza sostanza, stessa avversione verso il “senso comune” e la logica concreta del principio di non contraddizione. Stesso processo di dissoluzione della realtà percepita, per quella immaginata. L’idea nuova, tuttavia, per quanto astrusa, porta in sé una forza implicita, che si amplifica in misura della compartecipazione alla stessa, alimentata dalla “cospirazione” messa in atto da chi trae profitto, materiale e metafisico, dal suo imporsi nella collettività.
Insofferente verso la religione dogmatica, scriveva da Pechino, il 15 aprile 1929, parole molto gravi per un sacerdote di Cristo: «Durante lo scorso inverno, ho avuto una crisi abbastanza forte di antiecclesiasticismo, per non dire di anticristianesimo (sic!). Ma poi questo subbuglio si scioglie, adesso, in un sentimento più largo e più pacato. Dal momento che la mia unica regola di valutazione ed applicazione pratica tende a divenire sempre più questa: “Credere nello Spirito”». Sia chiaro, non nello Spirito Santo, ma nello Spirito evolutore della Materia.
A proposito di questo “Spirito”, egli scrive: «Mi è venuto in mente che si potrebbe scrivere un saggio dal titolo Il terzo Spirito, e cioè “lo Spirito di divinizzazione del Mondo”, in contrapposizione all’alternativa troppo semplicistica “Spirito di Dio” e “spirito del mondo”». È questo spirito metacristiano, del tutto estraneo alla terza Persona della Divinità, che lo spinge ad esaltare la materia, intaccando dall’interno il Corpo Mistico al quale egli stesso apparteneva.
Il 26 gennaio 1936, scriveva: «Ciò che sta dominando gradualmente i miei interessi e le mie preoccupazioni interiori è lo sforzo per stabilire in me e diffondere attorno a me una nuova religione (chiamiamola, se vogliamo, un cristianesimo più progredito), in cui il Dio personale non sia più il grande proprietario “neolitico” di una volta, ma l’Anima del Mondo che il nostro stadio culturale e religioso richiede … il Male (non più castigo per una colpa, ma “segno ed effetto” del progresso) e la Materia (non più elemento inferiore ma “stoffa dello Spirito”) assumono un significato diametralmente opposto a quello abitualmente considerato come cristiano». Ancora, l’evoluzione del Credo, ma in senso opposto a quello cristiano. Ancora, Materia, Male, Anima del Mondo, con la maiuscola, come si conviene alla divinità, paganamente intesa.
Nel suo pseudo “cristianesimo progredito”, o meglio: “anticristianesimo”, il confusionario gesuita, dopo aver considerato in modo offensivo Dio (“proprietario neolitico”), ed averlo degradato al livello dell’Anima mundi degli alchimisti, propone un’interpretazione del male e della materia diametralmente opposta a quella cristiana, dunque anticristiana. Come Nietzsche, in vista della realizzazione dell’orgoglioso “super Uomo”, egli prospetta il superamento del bene e del male. Anzi reputa il Male (con la maiuscola) come necessario al progresso del mondo e della società.
L’alto iniziato massonico, Albert Pike, in Morals and Dogma, attestava analogamente che: «Il male è l’ombra del bene e da esso è inseparabile … Dunque all’umanità è necessario il male … come è indispensabile la salsedine all’acqua del mare. Anche qui l’armonia può derivare soltanto dall’equilibrio dei contrari», alla luce della dialettica alla quale abbiamo già accennato. Anche, la Blavatsky, fondatrice nel 1875 della Società Teosofica, dichiarava che il male non è una mancanza del bene, dal quale chiediamo al Padre di essere liberati, ma addirittura: «il Male è una necessità ed è anche uno dei sostegni del Mondo Manifestato. È una necessità per il Progresso e l’Evoluzione, come la notte è necessaria per produrre il giorno e la morte per avere la vita, affinché l’uomo possa vivere eternamente»[5].
Tali strane assonanze, tra l’opera di un gesuita e quelle di autori esoterici, non possono che produrre ancora equivoci e confusione, nonché danni irrimediabili per la fede. Sono quindi comprensibili e sempre attuali le riserve dell’ex Santo Uffizio, il quale, il 6 dicembre 1957, due anni dopo la sua morte, preoccupato per i mali che tali pensieri confusi avrebbero potuto provocare alla fede, ordinò di rimuovere i libri di Teilhard dalle biblioteche, di non venderli nelle librerie cattoliche e di non tradurli in altre lingue.
Tutto il contrario di ciò che è stato fatto, a partire dal Concilio Vaticano II[6], dopo il quale gli scritti di questo falso profeta (cfr. At 20, 29) hanno trovato riconoscimento nella Chiesa, anche se «il suo nome non è uscito dalle labbra di alcun papa»[7]. Ma nell’enciclica di Francesco, Laudato si’, viene citato in nota, nel punto 83.







[1] Sul “Punto Omega”, ipotetico termine della convergenza cosmica, cfr. AA. VV., L’uomo e l’universo – Omaggio a Pierre Teilhard De Chardin, S. J., Specola Vaticana, Città del Vaticano 1987, p. 90 e sgg.
[2] M. Ferguson, La cospirazione dell’Acquario, Marco Tropea Editore, Milano 1999, pp. 54 e 550.
[3] Ivi, p. 118.
[4] R. Guénon, Il teosofismo, storia di una pseudo religione, Arktos, Torino 1987, vol. II, p. 276.
[5] H. Blavatsky, “La dottrina segreta” - Antropogenesi, ed. Bocca, Milano 1953, p. 634.
[6] Il pensiero di Teilhard è richiamato nella, Gaudium et Spes (n. 39), ove si pone in relazione la città terrena con quella divina, il progresso terreno con il Regno di Dio.
[7] H. Küng, L’inizio di tutte le cose, Rizzoli 2006, p. 121.

sabato 19 marzo 2016

La fine di Babilonia







È noto che Pio IX e don Bosco condannarono unanimemente i soprusi subiti dalla Chiesa da parte dei liberali che lottavano per la determinazione di un nuovo stato sociale a spese dei vecchi poteri, rappresentati dalla stessa Chiesa e dall’Impero asburgico. L’unità d’Italia si stava infatti effettuando sotto la direzione di ben altri poteri, le Logge internazionali, che prendevano possesso del nostro suolo, mascherando i loro interessi dietro una politica rivoluzionaria, indirizzata verso fini ignoti alle moltitudini.
Del resto, è risaputo che «la Massoneria rappresenta l’armata silenziosa che lavora nel mondo occulto, cioè nel sottosuolo della storia, per il progresso dell’Umanità … come la Massoneria, anche la Carboneria, riformati i suoi statuti nel Marzo 1945, opera oggi in Italia, proseguendo la sua missione per la libertà e per il bene dell’Umanità» (W. Anceschi, La Massoneria iniziatica, Ed. Rebis, Viareggio 2002, pp. 13-14).
Nonostante gli appelli, gli avvertimenti, gli oscuri presagi più volte manifestati dai Santi risorgimentali contro questa millantata missione, tesa all’imposizione di un regime statalista, ottenuto con la violenza di pochi più che per la convinzione dei molti, la storia proseguì il corso impostogli dalle Logge, lasciando sul campo quanti cercarono di opporsi alla sua realizzazione.
La condanna di don Bosco di fronte allo svolgersi dei proclami liberali fu assai netta. Nella sua Storia Ecclesiastica, scrive: «Per prima cosa quel governo impose tributi, spacciò un’immensità di carta monetata, si appropriò dei beni della Chiesa: campane, calici, pissidi, ostensori, turiboli, ogni oggetto d’oro o di argento che fosse nelle chiesa era involato per far denaro. Vari sacerdoti e religiosi furono trucidati, dodici in un solo giorno pugnalati. Monasteri e conventi violati e profanati, e non pochi sacerdoti e religiosi barbaramente sgozzati».
Questa barbarie avvenne grazie alle manovre di casa Savoia la quale, in controtendenza alla sua tradizionale fedeltà alla Chiesa Romana, divenne fautrice di una legislazione anticattolica e filo-protestante invadendo più volte lo Stato Pontificio, fino alla presa di Porta Pia, del 20 settembre 1870. Già nello stesso giorno di alcuni anni prima, venne versato sangue innocente come tributo della nuova Patria.
Il 20 settembre 1864, infatti, quando la capitale del nuovo regno venne trasferita da Torino, la popolazione torinese che manifestava contro questo atto deciso dall’imperatore di Francia, Napoleone III, venne rabbonita dal fuoco delle baionette della Guardia Nazionale. Rimasero a terra più di 50 morti «dei quali circa 40 erano piemontesi, quasi tutti sotto i trent’anni e molti provenienti da fuori Torino, quindi immigrati. E il lavoro che svolgevano non era di certo agevole; quei torinesi, o i loro figli, si batteranno parecchi anni dopo per ottenere un orario non superiore alle dodici ore quotidiane» (F. Ambrosini, Giornate di sangue a Torino, Ed. Il Punto, Torino 2014, p.165).
Il re Vittorio Emanuele II, che durante la protesta popolare pensò bene di lasciare Torino per la tenuta di Sommariva Perno, dovette abbandonare presto anche le sue particolari abitudini, per aderire al progetto di riconversione della Roma felix nella Roma babilonica. Il re “gentiluomo” era infatti molto attaccato alla “carne piemontese”.
Cacciatore “integrale”, attraversava intrepido valli e boscaglie, per giungere a Cogne ed in Valsavaranche, ove era atteso da ragazze che gli balzavano intorno, sperando nelle sue generose ricompense. I popolani sapevano che il “re cacciatore” prediligeva le giovani sempliciotte, specialmente quelle che sprigionavano dal corpo i sudori delle fatiche campagnole, l’odore del fieno e delle vacche appena munte. Nel corso di tali incontri, assai poco regali, Vittorio Emanuele II: «amava che le donne gli si presentassero nude, con scarpettine e calzette; e fumando sigari avana si divertiva a contemplarle, mentre gli ballavano intorno. Ma ad un tratto lo pigliava l’estro venereo e le sfondava tutte», (C. Dossi, in D. Ramella, Amori e selvaggina – Vita privata di Vittorio Emanuele II, Ananche, Torino 2010, p. 177).
A queste ragazze più o meno prezzolate, raccolte e abbandonate come fienagione senza valore, si aggiungevano le molteplici amanti di questo Re, di controversi natali, che tanto si adoperò in guerre e trame politiche. Amanti ufficiali e segrete, amanti passeggere, spesso adescate nella notte da servitori fidati lungo i viali. Ma la sua preferenza rimaneva la «Valsavaranche dove era seguito da un harem di donne. La conferma inequivocabile che tra la piccola corte al seguito di Vittorio nelle sortite alpine, la componente femminile aveva il suo, non trascurabile, peso. Oltre ovviamente alla “fauna locale”» (Ib.).
Anche per queste sue tendenze assai detestabili, prese piede una strana diceria, accreditata peraltro anche da Massimo D’Azeglio, “la lingua più affilata del regno”, riguardo alla sua nascita. La storia ufficiale narra che la notte del 16 settembre 1822, il figlio di Carlo Alberto, Vittorio Emanuele, di soli due anni, dormiva nella culla. Quando un’imprudenza della balia, avvicinatasi troppo alla culla ricoperta di veli, provocò l’incendio rapido della delicata velatura. La balia si lanciò sul bambino cercando di salvarlo dalle fiamme, ma nel far questo si ustionò gravemente ed in breve morì.
La versione inconfessata – accreditata come dicevamo anche dal D’Azeglio e da una prova che a molti sembrava, e sembra, lampante: la componente grossolana della persona e del carattere del futuro primo Re d’Italia – narra invece che in quella notte, la balia, pur rimettendoci la vita, non riuscì a salvare quella dell’illustre bambino. Di fronte a questa tragedia, il Casato, volendo evitare problemi di successione, prese una drastica e segreta decisione. Si sostituì, al bimbo deceduto, il figlio di un macellaio di Poggio Imperiale, un certo Tanaca, che aveva una decina di figli. L’ultimo di questi, della stessa età del figlio di Carlo Alberto. Il Tanaca avrebbe consegnato ai Savoia questo bambino, insieme al suo silenzio.
Le differenze rispetto ai suoi genitori, con la crescita si evidenziarono sempre di più. Carlo Alberto, suo padre, raggiungeva i due metri di altezza; alta era anche sua madre Maria Teresa. Entrambe i genitori, avevano tratti fini, delicati, lineamenti morbidi come gli altri Savoia, educazione affinata da una nobiltà rinsaldata nei secoli. Vittorio Emanuele era invece basso, tarchiato, grezzo nei lineamenti, nei gusti, sfrenato nelle manie carnali, nei lazzi. La regina madre, confidava al padre, Ferdinando III, granduca di Toscana, le sue perplessità di fronte a questo figlio così problematico: «Io non so veramente da dove sia uscito codesto ragazzo. Non assomiglia a nessuno di noi e si direbbe venuto per farci disperare tutti quanti» (in L. Del Boca, Maledetti Savoia, Piemme, Milano 2011, p. 24).
Innumerevoli ed irrefrenabili furono le debolezze di questo Savoia, che si affacciò con soddisfazione al balcone del Quirinale, al posto dell’esautorato ultimo Papa Re, proferendo il sospirato:«Finalment ai suma!», finalmente ci siamo. Espressione prontamente tradotta con più la adeguata locuzione: «Siamo arrivati a Roma e ci resteremo!».
Nasceva così la nostra Italia, al suono di reiterate scomuniche ed anatemi rivolti ai suoi fautori, nonostante il suo interno fosse lacerato. Nel regno delle due Sicilie, saldamente ancorato al Re, alla tradizione ed alla Chiesa, l’esercito piemontese in una guerra non dichiarata, dal 1861 al 1863, fucilò 1038 oppositori, altri 2413 di questi perirono in combattimento, 2768 furono fatti prigionieri, ventimila vennero trasferiti ed ammassati nei “lager” di Fenestrelle e di San Maurizio Canavese. Su questi "uccisi della terra" è caduto un silenzio assordante, come se non avessero alcun valore.
Le ricostruzioni storiche slacciate dalla vulgata di regime dichiarano che le vittorie di Garibaldi sull’esercito del Regno delle Due Sicilie derivavano dalle milionarie cifre investite dalla massoneria inglese per corrompere truppe e funzionari borbonici. Tre milioni convertiti in piastre turche, insieme a promesse di carriera e benessere, servirono a ricondurre i generali napoletani all’obbedienza massonica imposta dall’eroe dei due mondi.
Il generale, iniziato al “rito scozzese” da Mazzini, a sua volta membro onorario della loggia La Stella d’Italia di Genova e della loggia La Regione, dello stesso Oriente (Dictionnaire Universel de la Franc-Massonerie, II, 1974), proseguì la sua carriera conseguendo, dopo il 33° grado ricevuto a Torino nel 1862, la suprema carica di Gran Ierofante del rito egiziano del Memphis-Misraim nel 1881. Il Grande Oriente di Palermo gli conferì tutti i gradi, dal 4° al 33°.
Garibaldi, in nome della tolleranza religiosa massonica, definì Pio IX: «un metro cubo di letame … la più nociva di tutte le creature, perché egli, più di nessun altro, è un ostacolo al progresso umano, alla fratellanza degli uomini e dei popoli … se sorgesse una società del demonio, che combattesse dispotismo e preti, mi arruolerei nelle sue fila» (G. Garibaldi, Scritti e discorsi politici e militari, Ed. Cappelli 1935, II, p. 397). Ma oltre al generale nizzardo e Mazzini, anche Camillo Cavour, ministro e capo del Governo piemontese, secondo l’Acacia Massonica del febbraio-marzo 1949, era legato alla massoneria internazionale. Don Bosco, assai informato e bersagliato in proposito, nelle sue Memorie, affermò che: «qui, in Piemonte, Cavour fu uno dei capi della massoneria» (vol. IX, pag. 313).
Di questi grandi fautori della Patria, che combattevano la Chiesa sotto i labari della contro-chiesa internazionale, tanto esaltati dai libri della storia e dalla retorica di Stato, filtra un volto diverso. Il volto dell’affiliazione e di un’opera che ha condotto all’oppressione di quelle fasce popolari che essi dichiaravano di voler affrancare dal dominio e dalla presunta vessazione dei Preti e della Religione.
La ricaduta di questa crociata laicista è ben visibile ai nostri giorni, come effetto di una causa imposta e sbagliata. L’emancipazione ed il progresso tanto decantati hanno invece diffuso i germi irrefrenabili di una corruzione, violenza e depravazione estese a tutti i livelli. Dopo quelle di Porta Pia, sono le mura dell’intera società a vacillare, a dare continui segni di crolli individuali e collettivi. Da allora, è stato l’uomo stesso a franare, aprendo le porte alle forze infere che stagnano al suo interno e che solo l’autorità della Chiesa ha il potere di tenere a freno. L’anticristo presente in ogni persona è quindi pronto a manifestarsi in ogni occasione, essendo stato tolto di mezzo quasi del tutto quanto frenava la sua manifestazione. Ossia, le mura metafisiche di Roma, la forza spirituale del Sacro Impero, il ruolo divino della sacra Autorità.
Nell’ebbrezza di questa nuova Babilonia, la natura intima dell’uomo è divenuta vittima giorno per giorno di se stessa e del suo lato oscuro, che si manifesta nelle reazioni violente, inconcepibili, addirittura diaboliche che sistematicamente riempiono le cronache cittadine. Purtroppo, anche la città di Dio riflette nel suo interno l’azione della forza disgregante di Satana, che cerca di confondere il sacro con il profano e di contrapporre la tradizione con il rinnovamento, il “pre” con il “post” Vaticano II.
Fino a che punto e fino a quando questo processo di desacralizzazione avanzerà, non è dato saperlo. Ma di certo si sa che “Babilonia, covo di demoni, possente città, in un’ora sola vedrà la sua condanna, in un’ora sola sarà ridotta a un deserto e più non apparirà … perché in essa fu trovato il sangue dei profeti e dei santi e di tutti quelli che furono uccisi sulla terra” (cfr Ap 18).