domenica 8 dicembre 2013

“ESOTERISMO” SAVOIARDO



Stretta fra il Po e la Dora, Torino rappresenta come un crogiuolo dal quale sembrano essere scaturite in varie forme nel tempo le credenze che caratterizzarono la religiosità idolatrica di indole solare delle popolazioni arcaiche che stazionavano ed interagivano nell’Europa nordica e centrale.
La storia è antica. Si dice che dalle lande del nord, gli antichi Taurisci, portando con loro la mitologia legata al sacro monte di Thor, discesero fermandosi alla confluenza dove Dora e Po formano una ipsilon Y, simbolo che richiama il bivio, la scelta fra la destra rivolta verso il cielo e la sinistra rivolta verso gli inferi.
I monti e la pietra venivano posti in relazione al sole. Poiché la roccia esposta ai raggi del sole conserva ancora il suo calore quando l’astro scompare, si pensava che il potere del sole fosse effettivamente presente all’interno della roccia. Del resto, gli antichi popoli ricavavano il fuoco dallo sfregamento delle pietre, quasi a comprova che il potere del sole fosse presente nelle rocce e nei “betili”, intesi come abitazioni della divinità solare.
In riferimento alla mitologia greca, la leggenda della nascita di Torino riporta ai sacrifici dei tori che il primo re di Atene, Cecrope, immolava a Giove, il quale si era unito alla divina Jo, che Ovidio assimila ad Iside. L’Italia si chiamava allora Appenninia, in riferimento al dio Api. La prima città dopo le Alpi venne così dedicata al toro solare, dal quale derivò il nome: Torino. Peraltro, il culto verso la gran madre egizia Iside, sembra si svolgesse su di un ninfeo collinare prossimo al luogo ove oggi sorge la chiesa della Gran Madre.
D’altra parte, Emanuele Filiberto Pingone (1525-1582) che scrisse una documentata storia dei Savoia presentò nella sua opera Augusta Taurinorum la leggenda della fondazione di questa città, rifacendosi all’opera del frate domenicano Annio da Viterbo (1432-1502). Secondo questo religioso, tutto sarebbe iniziato 1529 anni prima di Cristo, quando il figlio di Iside, Fetonte o Eridiano, sbarcò sulle nostre sponde per fondare alcune colonie sul confine tra Liguria e Piemonte.
Fetonte sarebbe caduto nel Po durante una corsa su un carro, che la leggenda trasformò in carro solare. Ove cadde, venne eretto un cippo, poi trasformato in tempio dedicato al dio Sole, disposto verso oriente, intorno al quale si formò la prima città chiamata Euridania o Fetontia, poi Torino, il cui emblema è appunto il toro-bue-Api, simbolo del vitalismo universale che attraverso il seme feconda la materia terrestre.
Questo tempio racchiudeva cerimonie segrete, iniziatiche e magiche, dedicate allo spirito solare, il quale a sua volta ricambiava le offerte con protezione e potere sulle popolazioni a lui soggette. Proprio per salvaguardare l’inviolabilità dei segreti custoditi in questo tempo, i sacerdoti stessi lo avrebbero distrutto prima che venisse profanato dagli invasori, ultimi i Romani. Tuttavia, le antiche e sacre reliquie insieme ad una grande ruota d’oro, simbolo solare, sarebbero state celate in un luogo segreto.
Si parla di un tempio sotterraneo localizzato sotto la pianta di Torino, il cui ingresso e passaggi sarebbero ancora ben custoditi e sconosciuti ai profani. In questo mitreo, si sarebbero svolte le antiche cerimonie ed i rituali delle popolazioni arcaiche, le quali si radunavano periodicamente nella piana racchiusa tra la Dora e il Po per onorare il dio solare.
Quanto narrato dal Pingone troverebbe riscontri pur vaghi in una iscrizione posta su una statua dedicata ad Iside, ritrovata nel 1567, tra le rovine dall’antica cittadella. Questo ritrovamento sembra alludere ad un tempio dedicato alla stessa dea egizia, sul quale sarebbe stata eretta una chiesa dedicata a san Solutore Maggiore, distrutta poi durante l’occupazione francese della città (1536-1563).
La leggenda del tempio di Iside si rinnova nel tempo. L’azione spirituale di questa divinità sarebbe legata al culto segreto ad essa ancora rivolto da parte di oscure confraternite. Voci dicono che alcuni Savoia fossero attratti da questa dea, dalla religiosità e dai reperti egizi, riportando a questo interesse la costruzione dell’attuale museo egizio.
Thomas Paine (1737-1809) afferma che furono i sacerdoti druidi a “traghettare” i rituali segreti egizi all’interno della massoneria, preservandoli dalla “persecuzione” che i cristiani riservavano ai culti pagani. Una volta divenuto cittadino francese e membro della Convenzione, Paine scrisse sulla Natura – Iside – Osiride – Nave – Fuoco  identificando la religione degli egizi con quella della stirpe celtica che si fondò Parigi, ossia quella dei Parisii.
Il culto di Iside venne ripristinato quando questa divinità venne “intronizzata” , dallo stesso Napoleone, come patrona di Parigi in seguito alla rivoluzione francese, dal 1811 al 1814. La figura di Iside posta sulla prua della nave dell’imperatore come emblema della città di Parigi, venne ricavata dall’archeologo Louis Radel da quella della Mensa Isiaca appartenente al Museo Egizio di Torino. Questa raffigurazione ed il culto pubblico di Iside decadde tuttavia il 14 aprile 1814, quando il Governo provvisorio decretò la soppressione di tutti gli emblemi e simboli introdotti nell’era napoleonica.
I manufatti egizi presenti in Torino, tra i quali quelli relativi al culto di Iside ellenistica, sono dovuti come dicevamo all’interesse ed alla raccolta propiziata dai Savoia, e sembrano comprovare la leggendaria filiazione egizia di questa città. Forse questa credenza è alla base della singolare apertura che alcuni esponenti della casa Savoia adottarono nei riguardi della cultura magica ed iniziatica, nonché spiritistica.
Afferma Baima Bollone che “Vittorio Emanuele II, in sintonia con la fama di appartenere ad una famiglia compromessa con pratiche esoteriche, non contrasta il dilagante medianismo”, che si diffuse nella sua epoca (La scienza nel mondo degli spiriti, SEI, Torino 1994, p. 217 e sgg). Introvigne, nel suo libro Indagine sul satanismo, Milano 1994, conferma questo aspetto affermando che: “il governo piemontese in un periodo che va dal 1850 alla presa di Roma nel 1870, si era mostrato straordinariamente tollerante con gli spiritisti, i maghi e i gruppi religiosi o parareligiosi più singolari e bizzarri”.
Anche del figlio di Vittorio Emanuele II, Umberto e della futura regina Margherita, si dice fossero in contatto “con gli ambienti spiritici partenopei e partecipano a sedute medianiche come già avevano fatto alcuni appartenenti della casa dei Borboni, tra cui il Principe Luigi” (ib.).
In ogni caso, Torino segnò anche la nascita nel 1863 della “Società torinese di Studi Spiritici” che dall’anno successivo iniziò la pubblicazione della rivista “Annali dello spiritismo in Italia”. Ne fu animatore ed editore Enrico Dalmazzo, un tipografo convertitosi allo spiritismo, che chiamò alla direzione della rivista Vincenzo Scarpa, segretario di Cavour e del Principe di Carignano, decorato dallo stesso Re. Scarpa, sotto lo pseudonimo di Niceforo Filatete, rimase alla direzione della rivista dal 1865 fino al 1898. A tale società apparteneva anche Gaetano De Marchi, vice presidente della Camera dei Deputati. Presidente di questa associazione venne eletto addirittura lo “spirito guida” che trasmetteva durante le sedute medianiche comunicazioni dall’al di là.
Nella rivista della società spiritistica, vennero pubblicati articoli pseudoscientifici e divulgativi, nonché cronache di presunte apparizioni e interazione con gli spiriti. Apparvero i resoconti di pseudo “contatti” non solo con spiriti profani, come quello di Garibaldi, Cavour, Mazzini, ma anche quelli di san Francesco, sant’Agostino, san Luigi. Si dice che lo spirito di Cavour, che in vita protesse gli spiritisti, si manifestò come fantasma a Massimo D’Azeglio, costringendolo ad impegnativi esercizi.
Anche un altro padre fondatore dell’unità d’Italia, Giuseppe Mazzini, era un seguace dello spiritismo. In contatto con la Blavatskj e con John Yarker “Gran Jerofante” di Menphis e Misraim, rito massonico esoterico al quale apparteneva anche Giuseppe Garibaldi, Mazzini “interpretava lo spiritismo come elemento di riscontro della necessità di una serie di esistenze successive e di reincarnazioni. Riteneva possibili sia le infestazioni che l’ispirazione, forme classiche della medianità” (C. Gatto Trocchi, Storia esoterica d’Italia, Piemme, Casale Monferrato 2001, p. 30).
Forse in questa prospettiva, Mazzini  si sentiva obbligato “alla logica di un suo piano preciso che gli imponeva, per mantenere alta la tensione, e lo diceva anche, di dover spargere sangue sacrificale. Sangue a suo parere, indispensabile per nutrire e mantenere viva la fiamma dell’eversione che prima o poi avrebbe saputo dare i suoi frutti e condurre alla vittoria. Dunque, gli occorrevano martiri … e gli tornava d’obbligo continuare imperterrito a percorrere la sua strada, cercando sempre neofiti da convincere e da mandare al sacrificio” (D. Liguori, Quell’”amara” unità d’Italia, Sibylla Editrice, Roma 2010, p. 140-141).
Nel senso d’offerta sacrificale, possono essere interpretate molte guerre sollevate da Re tendenzialmente crudeli, spesso senza cercare mediazioni ragionevoli o soluzioni pacifiche. Ad esempio, quella voluta da Vittorio Emanuele III nel 1915-18. Di questo tragico evento, “la realtà che viene fuori ci racconta di quanto inutile e di facciata sia stata questa guerra poiché, solo oggi, è dato apprendere, da ultimi e inoppugnabili documenti ritrovati, che Francesco Giuseppe, imperatore d’Austria, pur di evitare l’apertura di un fronte di guerra anche italiano, dichiarò, da subito, la sua disponibilità a cedere Trento e Trieste” (Ib. p. 11).






lunedì 4 novembre 2013

Terra "cava” e Cristocentrismo



 L’idea della terra cava fu proposta dall’astronomo Edmund Halley (1656-1724), lo scopritore della famosa cometa, in seguito ad alcune discrepanze magnetiche rilevate dalla bussola. Ricorrendo ad un modello collegato alle mitologie primordiali sorte qui e là nel mondo antico, così come Newton ripescò cognizioni cosmologiche pitagoriche per spiegare il fenomeno della gravità, Halley immaginò che la spiegazione  delle anomalie del campo magnetico rilevate strumentalmente fosse una terra formata da gusci concentrici con velocità di rotazione differente. L’astronomo, pur affidabile ed autorevole per quanto riguarda il campo dell’osservazione sperimentale, lasciò presto cadere quest’idea singolare, ripresa poi da altri, secondo varie interpretazioni.
Tra queste, non mancano quelle esoteriche. La teosofa Blavatzky sosteneva l’esistenza di una razza eletta rifugiatasi sotto terra tra il Tibet ed il Nepal. Il mito di Agarthi, la cui entrata sarebbe localizzata proprio nell’Asia centrale, venne sostenuto anche da René Guenon, nel libro “Il re del mondo”.
Al di là dei miti e dei rilanci esoterici, tra i diversi autori che nel tempo hanno ripreso questa teoria da varie angolature, cercando di darle un aspetto razionale, si evidenzia Paolo Emilio Amico-Roxas, il quale nel 1990 pubblicò il testo «La suprema armonia dell’universo – La teoria endosferica del Campo» (Editrice Kemi – Milano), contenente la sintesi dei suoi lunghi ed incompresi studi.
Amico-Roxas cita un’esile ed incerta prova sperimentale a favore della teoria della terra cava, fornita da Johannes Lang il quale, nel suo volume «Die Hohlwelttheorie», scrive che: «Nella miniera di Tamarack a Calumet (USA) furono fatti scendere dei fili a piombo fino a 1300 m. di profondità. Secondo le misure effettuate dagli operatori, siffatti fili a piombo in profondità, invece di convergere ed avvicinarsi l’uno all’altro, come doveva attendersi in una terra convessa, divergevano risultando così concava la superficie terrestre».
Deriva da questa esperienza, peraltro non confermata da altre fonti, né considerata dalla scienza ufficiale, la base per fornire un modello dell’universo completamente diverso a quello finora esaminato non solo dalla scienza, ma anche dalla filosofia naturale, la quale ha considerato la terra o il sole come rispettivi centri dell’universo esosferico.
Invece, secondo l’ipotesi endosferica, tutto l’universo sarebbe contenuto all’interno della terra, che quindi costituirebbe l’involucro più esterno, il limite della dimensione percepibile. Come il guscio dell’uovo contiene l’albume ed il tuorlo, così la terra conterrebbe al suo interno cielo, nuvole, sole, pianeti, stelle eccetera. Ovviamente, lo spazio in questo caso non sarebbe quello omogeneo ed isotropo euclideo, ma quello curvilineo ed anisotropo. Le distanze fra i corpi celesti inoltre non corrisponderebbero a quelle stimate teoricamente attraverso il metro mentale “anno luce”.
È possibile considerare tutto questo in una prospettiva razionale “capovolta”, dopo che il pensiero razionale e scientifico per interi millenni ha insegnato a leggere il mondo dei fenomeni in chiave esosferica? È possibile che tutto quanto noi vediamo sia contenuto all’interno del circolo chiuso e limitato della crosta terrestre? Quando vediamo un aeroplano alzarsi in volo, un missile innalzarsi verso lo spazio celeste, le fotografie che ci arrivano dai satelliti spaziali, ecc., come possiamo pensare ad una realtà contenuta all’interno anziché all’esterno della terra?
Le risposte non sono solo psicologiche e relative ai fenomeni della percezione, delle illusioni ottiche, delle proiezioni esterne delle convinzioni interne. Dal punto di vista matematico infatti si può esprimere in modo formalmente analogo il movimento che avviene all’esterno di una sfera, come quello che avviene o che si proietta al suo interno. Come si vede innalzare verso il cielo un missile, così è possibile descrivere questo moto dalla superficie della terra verso il suo invisibile centro interno. Il metodo è conosciuto nella fisica teorica.
Si tratta della cosiddetta “inversione geometrica per raggi vettori reciproci”. Questa è una trasformazione quadratica cremoniana, che gode di alcune proprietà assai importanti. Rispetto ad un cerchio, trasforma archi in archi, rette in cerchi passanti per il centro di inversione O. L’inversa di una retta è un cerchio.
Questa trasformazione è biunivoca, isogonale, in quanto conserva gli angoli, ma ne muta il verso e conforma tra due piani sovrapposti. Pertanto, le sfere concave si trasformano in altrettante sfere convesse, i piani si trasformano in sfere che passano per il centro di inversione. In altri termini, all’infinito considerato come un piano, corrisponde il centro della sfera rispetto alla quale si applica l’inversione.
Quello che noi vediamo all’esterno della terra può essere quindi proiettato geometricamente verso il suo centro. Ad un generico punto esterno a corrisponde il punto interno 1/A e viceversa. All’infinito esterno, corrisponderà il centro della sfera. Infatti l’inversa di una retta è un cerchio. E l’inversa di un cerchio è una retta.
Afferma in proposito Amico-Roxas: «L’inversione è una proiettività (o prodotto di proiettività) che consente di risalire dallo spazio esterno a quello interno a un cerchio (o sfera). Diremo cosmica questa proiettività che, similmente allo specchio, consente di interpretare lo spazio esterno come spazio apparente euclideo o lo spazio interno come spazio reale … Assimilando le ellissi (orbite) a cerchi, la figura dell’universo cosmocentrico non è che il risultato della trasformazione dell’Universo Eliocentrico apparente, euclideo, nell’universo reale fermi restando i dati di osservazione» (cit. p. 32).
Questo significa che la trasformazione per raggi vettori reciproci consente di giungere ad una visione della realtà capovolta rispetto a quella definita dalla fisica classica e dal comune intendere. Noi vedremmo convesso ciò che invece è concavo, perché abbiamo imparato a definire mentalmente un’immagine predefinita che è appunto convessa. Non riusciremmo a vedere il vero volto della realtà, perché fortemente influenzati da questa condizione a priori, da questa geometria immaginata sulla base di uno spazio convesso, afferma Amico-Roxas. Il quale tuttavia identifica in modo alquanto approssimativo il centro del mondo con una sorta di polo magnetico.
Al di là delle spiegazioni che lo studioso apporta per giustificare il modello dell’universo contenuto all’interno della terra, ed immaginato all’esterno dalla scienza classica, resta da dire che tale teoria, pur se appena abbozzata, non si distacca dalle cosmogonie primordiali, come quella del circolo magico all’interno del quale sarebbe contenuta tutta l’energia e le forze invisibili e magiche circolanti nell’universo. La quale energia effettivamente così non si crea, non si distrugge, ma si trasforma, secondo il tipico principio della filosofia materialistica, propugnata dai filosofi ionici ed utilizzata in ambito magico per “condensare” eventi.

Questo modello si presta invece benissimo ad un’interpretazione cristiana. Tutto il mondo centrato in Dio, il tempio universale al quale fanno riferimento i profeti. L’alto ed il basso assoluti rispetto a questo Centro, dal quale prende avvio e nel quale converge tutta la realtà ordinaria e straordinaria, le tre dimensioni reali e spirituali: infera, terrena, divina.
Il “cosmo angelico” sul quale abbiamo riferito si rifà al modello endosferico dell’universo, universo cioè metafisicamente contenuto all’interno del guscio terrestre piuttosto che a quello esosferico proposto dalla scienza classica. Per i cristiani, è Gesù Cristo il Re dell’Universo, e come tale tutto è centrato e rivolto a Lui. In tal senso, si adattano benissimo le parole entusiastiche che il cardinale P. de Bérulle scrisse nel 1622 per interpretare (erroneamente) in senso cristiano il modello copernicano. Infatti, nel suo Discours de l’Estat ed de Grandeurs de Jesus, si legge che:
Questa nuova opinione, poco seguita nella scienza degli astri, è utile, e deve essere seguita nella scienza della salvezza. Perché Gesù è il Sole immobile nella sua grandezza, e movente tutte le cose. Gesù è simile a suo Padre e, stando seduto alla sua destra, come lui è immobile e dà movimento a tutto. Gesù è il vero Centro del Mondo, e il Mondo deve essere in movimento continuo verso di lui. Gesù è il Sole delle nostre Anime, dal quale esse ricevono tutte le grazie, le luci e le influenze. E la Terra dei nostri cuori deve essere in continuo movimento verso di lui, per ricevere in tutte le sue potenze e parti gli aspetti favorevoli, e benigne influenze da quel grande Astro”.
In effetti, Gesù Cristo, centro dell’universo, è la chiave ultima per interpretare la realtà in senso metafisico autenticamente cristiano. Solo così lo studio della scienza non si estranea alla sapienza dell’anima ed alla trascendenza. Il mistero da Cristo affermato nell’Apocalisse: “Io sono il Primo e l’Ultimo e il vivente” (1, 17-18), implica una visione della realtà che individua nell’umanità di Cristo il centro ontologico della realtà creata a partire da Lui, per Lui e in Lui. L’Alfa e l’Omega infatti segnano il percorso chiuso ed obbligato che si determina da, e sfocia in, Gesù, Centro di ogni cuore, Centro dell’universo: Cielo nuovo e Terra nuova.
Come affermava sant’Ambrogio: “semen omnium Christus”, Cristo è il seme di tutto, tutte le creature debbono tornare a Lui; il quale, come è di tutto il principio, così deve essere pure l’ultimo fine, proprio perché Egli è “Alpha et Omega, principium et finis” (Ap. XXII, 13). Intorno a Gesù Cristo si piega e curva l’universo, ruotando come intorno al Centro assoluto, nel quale tutta la realtà ritorna dopo aver compiuto il suo ciclo, la sua essenza vitale.
Il Motore Immobile, l’Essere Trascendente, il Cuore Divino trasmette e partecipa la sua Essenza soprannaturale a tutte le creature, le quali così sviluppano autonomamente il loro unico ciclo vitale in questo tempo, nel quale si svolge la loro più o meno inconsapevole, ma sempre libera risalita verso la stessa Fonte dalla quale sono discese, per entrarvi o per esserne escluse, attraverso la Porta, o Chiesa Romana, che è Gesù stesso (Gv 10, 9), al quale rendiamo sempre incondizionatamente ogni onore e gloria.






giovedì 3 ottobre 2013

CONGIUNZIONI ASTRALI



Uno strano personaggio vestito di nero entrò in Roma, l’11 aprile 1484, domenica delle palme. A cavallo di un irrequieto cavallo scuro, con una corona di spine intorno al capo, ai piedi dei calzari alati, quest’uomo era seguito da moglie, figli ed altri ammiratori. Sulla corona spiccava una mezza luna, sulla quale era scritto: “Questo è mio figlio Poimandres, nella più sublime manifestazione del signore Gesù Cristo”.
Giovanni Mercurio da Correggio, questo era il suo nome, si fermò lungo le sponde del Tevere, prima di recarsi in Vaticano per un colloquio con il Papa ed altri prelati. Egli si presentava come nuovo messia. A quanti lo ascoltavano attoniti lungo la via, ed ai quali i suoi sostenitori distribuivano fogli contenenti il suo proclama, predicava di essere disceso dal cielo per portare la rinascita, la rigenerazione dell’uomo e del mondo. Egli compì inoltre una serie di gesti rituali, di valenza magica, prima di proseguire fino in Vaticano, per completare la sua missione misteriosa deponendo alcuni oggetti simbolici sul soglio di Pietro.
Forse egli si il predestinato della attesa di stampo apocalittico che gli astrologi da lungo tempo riservavano per quell'anno, in vista della prevista grande congiunzione celeste alla quale veniva collegata il manifestarsi di una nuova guida religiosa.
L’astrologia araba che in quel tempo si era diffusa prevedeva infatti tre tipi di congiunzioni planetarie, la piccola che avveniva ogni vent’anni, la media, ogni duecentoquaranta anni e la “magna”, la più importante dal punto di vista etico e religioso, che si ripeteva ogni novecento sessanta anni. Quest’ultima derivava dal lento moto dei pianeti superiori, Giove e Saturno.
Quell’anno, il 1484, doveva avvenire la grande congiunzione di questi due pianeti, nella costellazione dello Scorpione. Per tale ragione, gli scrutatori ed interpreti dei segni celesti erano in fermento. Ad esempio, Johannes de Clara Monte, scriveva in quello stesso anno, che: “Questa importante costellazione e concordanza con gli astri indica che deve nascere un piccolo profeta il quale interpreterà in maniera eccellente le Scritture e fornirà alcune risposte con un grande rispetto per la divinità, alla quale ricondurrà le anime umane … Si vede un monaco in tonaca bianca con il diavolo in piedi sulle spalle. Porta un grande mantello che pende fino a terra e che ha maniche larghe, e un giovane monaco lo segue …” (in I. P. Culianu, Eros e magia nel rinascimento, Boringhieri, Torino 2006, p. 276).
Le cronache non registrano nessun fatto mirabolante avvenuto in quell’anno, oltre la morte del mitico Christian Rosencreutz, il presunto fondatore dei Rosacroce. L’anno precedente era nato Martin Lutero, anche se Melantone riportava come anno di nascita quello successivo, il 1484, forse per ricondurre il personaggio alle dinamiche divine ed alle attese astrologiche previste per quell’anno. Dunque, tutto sembrava tranquillo, almeno in superficie.
Tuttavia, l’evento di per sé pittoresco ed apparentemente innocuo che abbiamo segnalato all’inizio, portava in sé una grande valenza magica e rivoluzionaria. Infatti con Giovanni Mercurio da Correggio, la dottrina ermetica che egli praticava e predicava avrebbe convinto e convertito numerose persone di tutti i livelli, scardinando le rigide mura che la ragione guidata dalla fede aveva eretto in ordine alla metafisica tomista. La teologia scolastica collegata alle intelligenze angeliche ed alle sfere omocentriche che sfociavano nell’Empireo divino, veniva infatti adombrata da pretese di carattere gnostico ed esoterico, dalle credenze magiche e dalle pratiche superstiziose proprie della dottrina ermetica che davano spazio alle interazioni con gli arconti e con i demoni planetari.
Giovanni Mercurio annunziava ai suoi seguaci l'identità di Gesù con Hermes, sulla base della manifestazione di un suo potere personale, di carattere magico. Non solo parole, ma piccoli prodigi liberatori facevano effetto sugli ascoltatori sempre attratti dalle manifestazioni delle forze invisibili, più che dalle enunciazioni teologiche e dalle attese escatologiche cristiane.
Nonostante il suo pressapochismo, l’ingenuità, la tendenza all’esibizionismo, la sua mancanza di istruzione convenzionale, Giovanni Mercurio da Coreggio “sconvolse” la vita di un intellettuale dell’epoca, Ludovico Lazzarelli, umanista e poeta, prima di conoscerlo profano, dopo l’incontro, poeta ermetico. Il Lazzarelli difatti fu talmente impressionato da Giovanni Mercurio e dai suoi “poteri” magici, da affidarsi a lui completamente, definendolo suo padre spirituale, come narra egli stesso nell’Epistola di Enoch, ove tra l’altro registra l’episodio che abbiamo riportato all’inizio.
In genere, avviene che sia il sapiente ad illuminare il semplice. In questo caso è avvenuto il contrario. Un po’ come per Rasputin che in virtù delle sue capacità taumaturgiche si insidiò alla corte dello zar Nicola II. L’audace e semplice Mercurius de Corigio “iniziò” il Lazzarelli alla “nuova” rivelazione divina, identificando la Mente (Poimandres) con il Cristo gnostico. Tale identità avrebbe dovuto illuminare e guidare quanti si disponevano alla rinascita etica e religiosa, che comportava la confusione tra sacro e profano, tra teologia e magia.
Il Lazzarelli, iniziato dal Coreggio alla dottrina ermetica, ne diventò un illustre interprete. Fu proprio lui che tradusse dal latino il libro XVI del Primander,. Questo capitolo, L’Epistola di Asclepio al re Ammon, tuttora depositato nella biblioteca comunale di Viterbo, descrive l’aspetto magico del sole, la sua presunta natura divina, la sua centralità nel sistema celeste, la corte di spiriti che gli sono asserviti. Insomma, tutta la liturgia solare ermetica collegata al modello eliocentrico è contenuta nel capitolo XVI.
Il Libellus XVI, tradotto dal Lazzarelli, ha infatti rafforzato la credenza che l’astro fosse la chiave per interpretare il sistema planetario in senso antiaristotelico, in base alla concezione di Platone, il quale concepiva il sole come immagine principale del mondo delle idee, le quali dall’iperuranio proiettano la loro essenza nel mondo, perdendo la loro essenza preminentemente spirituale. Immagine questa ripresa dal Dionisio l’Aeropagita, nelle Divine Gerarchie, testo nel quale al sole è attribuita l’origine innanzitutto della luce spirituale.
Copernico presentando la nuova immagine eliocentrica del mondo, citò esplicitamente Ermete, per il quale il sole è un “secondo Dio” e dunque degno di essere venerato come parte centrale di un sistema cosmico divino. Copernico sembra quindi confermare l’identificazione fra il sole, il demiurgo e la “mente creatrice” che unisce cielo e terra, inviando dall’alto autentica essenza ed innalzando la materia dal basso. Implicitamente, egli cercò di dare consistenza scientifica al capitolo tradotto dal Lazzarelli, inserendo così nel “senso interno” dell’uomo, l’intermediario fra materia e spirito, un “nuovo fantasma” non corrispondente alla realtà percepita. Egli forzò, come disse poi Galilei, la realtà con l’immaginazione sostituendo la seconda alla prima. Operazione questa di carattere prettamente magico, prima ancora che scientifica.
Del resto, Copernico come Ermete credeva che mentre è impossibile per l’uomo vedere Dio, ed è impossibile comprenderlo se non per mezzo di congetture e duro sforzo intellettivo, “non per congettura contempliamo il sole; lo vediamo con i nostri veri occhi … perché egli è posto nelle nebbie ed indossa il kosmos come una ghirlanda intorno a sé … Dio allora è il Padre di tutto; il Sole il demiurgo; ed il kosmos lo strumento attraverso il quale il Demiurgo opera”.
Questi concetti ermetici di antica radice pagana vennero proferiti con tutta solennità da Giovanni da Correggio nella fatidica Domenica delle Palme del 1484 agli astanti sbalorditi, colpendo profondamente quelle persone dalla fede stanca, che preferivano al dogmatismo religioso esperimentare stati d’animo nuovi, sondare dimensioni proibite, entrare in contatto con quegli spiriti ingannevoli in grado di operare sul senso interiore, sull’immaginazione umana.
Per tale ragione, il modello eliocentrico, con tutta la pletora di credenze irrazionali ad esso associata, ha comportato una rivoluzione innanzitutto mentale all’interno dell’individuo. L’immaginazione razionale, con l’imporsi di tale immagine, fu come costretta a creare una realtà parallela, non in linea con quella percepita, costruita sulla base esclusiva di una logica matematica, non fisica, non in accordo con i dati dell’osservazione, se non dopo una lunga serie di successive elaborazioni ed “inversioni” teoriche. 
L’immagine fantastica costruita dalla ragione ermetica ha così gradualmente sostituito l’immagine teologica e metafisica della realtà. La quale prende inizio dal mondo percepito, ed in questo ritorna per condurre la mente e la ragione dalla terra verso l’empireo divino. Ove regna indisturbata la Santissima Trinità, la sterminata milizia celeste, i beati spiriti angelici che continuamente godono della presenza dell’ineffabile Dio e del suo glorioso Figlio unigenito, Gesù Cristo, nell'unione d’amore indissolubile generata dallo Spirito Santo.


domenica 1 settembre 2013

GEOMETRIA “SACRA”





L’elemento fondamentale della geometria ordinaria, euclidea o non euclidea, è il concetto di distanza. Due punti distinti tra loro sono separati dalla differenza delle loro coordinate, come intervallo che separa posizioni non coincidenti. Del resto, noi verifichiamo ad ogni istante la “distanza” rispetto agli oggetti che ci circondano. Nessun dubbio in proposito, nonostante gli sviluppi che Einstein elaborò sul concetto di intervallo spazio-temporale e della sua relazione con i sistemi di riferimento in moto relativo.
Occorre anche rilevare un piccolo paradosso in proposito. Infatti, le regole della geometria che consentono di elaborare strutture architettoniche semplici o complesse, nel caso in cui si riferiscano a luoghi sacri di culto, chiese e santuari, sembrano essere superate da relazioni più ampie. Questo perché nello spazio interno ad una chiesa si determinano relazioni con la dimensione trascendente, anche dal punto di vista geometrico.
È ovvio che il processo di costruzione di un tempio dedicato al culto di Dio segue le stesse regole della costruzione di case e palazzi. Ma all’interno di un tempio consacrato gli intervalli spazio-temporali vengono come assorbiti nell’unità dello Spirito Santo, per il quale non vale la logica della separazione e della distanza, ma quella dell’amore e dell’unità.
La geometria utilizzata per realizzare la struttura materiale del tempio sacro in tutte le sue parti, in un certo senso, viene integrata e superata da altre relazioni, terminando di valere al suo interno, nel momento in cui l’edificio viene consacrato e reso spazio “non ordinario”, luogo di culto ove Dio manifesta più che altrove la sua viva Presenza celebrata attraverso le fasi del tempo liturgico.
Dopo la consacrazione del luogo di culto, infatti, la struttura sacra non appartiene più al solo ambito profano dal quale è scaturito. Il rapporto terra-cielo, umano-divino, che in esso si determina trasferisce alla terra aperture e proprietà celesti o spirituali. Lo spazio sacralizzato diviene gerarchico, strutturato in altezze, gradi o livelli che culminano nel luogo ove è posto il Santissimo.
Lo spazio interno ad una chiesa si differenzia da quello esterno, perché lo spazio sacro non è omogeneo ed isotropo come quello ordinario, ma gerarchico e graduale. Insomma, come dicevamo se nello spazio ordinario vale il concetto di distanza, in quello sacro no.
Non appena si entra in una chiesa, in quel momento si entra in uno spazio a “distanza nulla”, nel quale vale il concetto di unità e di gerarchia, prima ancora di separazione e distinzione. Ad una geometria sacra corrisponde peraltro un tempo sacro e liturgico, il cui carattere e la contemporaneità e compresenza essendo esso di natura trascendente ed eterna.
La “non validità” del concetto di intervallo spazio-temporale, o di distanza all’interno di una chiesa, significa ad esempio che stare nell’ultimo posto o sedersi nel primo banco davanti all’altare, è equivalente. È fin ovvio constatare che l’azione di grazia si manifesta in modo analogo per chi è seduto in prima fila come per chi è seduto al fondo o in piedi ad un passo dalla porta d’uscita. Una preghiera non acquista valore per il fatto che sia recitata sotto l’altare o dall’ultimo posto della chiesa. Il “fattore di qualità” che rende efficace una preghiera o una visita eucaristica è extra-geometrico, non dipende dal punto in cui si effettua.
Ogni punto della chiesa sotto l’Altare e sotto il Tabernacolo, lo spazio riservato ai fedeli, è equivalente, perché come dicevamo in questo luogo lo spazio non è più omogeneo. In esso tutto è compresente. Il punto A non è diverso dal punto B. A è coincidente a B. L’ultimo posto coincide con il primo, il primo con l’ultimo, come se fossero su una stessa linea ideale più che su di un piano reale.
Sono tre i livelli di spazio, tre i “gradini gerarchici”, tre le “altezze” che caratterizzano ogni chiesa, santuario, cattedrale. Il primo è lo spazio riservato ai fedeli, nel quale questi recitano le loro preghiere o partecipano alle funzioni sacre.
Il secondo è lo spazio dell’altare, ove i presbiteri, accoliti, lettori svolgono il loro ruolo durante le sacre funzioni. Esso rappresenta l’altezza, il grado successivo e riservato della chiesa, distinto da pochi simbolici gradini, una volta effettivamente delimitato e non accessibile a tutti. In esso si celebra il Sacrificio di Cristo, secondo le fasi liturgiche che richiamano in essere i momenti sacri della sua vita di Cristo.
Il terso luogo sacro, quello che per sua natura trascendente sacralizza ed “incurva” intorno a sé tutto l’ambito in cui si trova è il Santissimo Sacramento, riposto nel Tabernacolo, ove risiede la presenza reale di Cristo. È intorno alla presenza reale di Cristo, per la quale e dalla quale prende inizio, svolgimento e conclusione ogni azione del tempo liturgico.
Questi tre gradi dello spazio sacro sono fra essi intimamente connessi, ma distinti e separati da “altezze” diverse, dal basso verso l’alto. Il passaggio da uno all’altro non avviene per continuità, ma per gradi qualitativi, come dei “salti quantici” sacri.
Nel loro interno, fra punti diversi non c’è distanza, essi sono però distinti l’uno dall’altro attraverso “gradini mistici”. Tutti i punti della Chiesa costituiscono cioè un unico spazio strutturato in tre livelli, piani o gradi. In ognuno di questi sottolivelli non c’è distanza, ma unità, compresenza, rispetto al Centro determinato dalla Presenza reale del Signore Gesù nel Santissimo Sacramento. Dal “basso”, riservato al Popolo di Dio, all’altare, centro nel quale si svolgono i riti sacri, all’Altissimo, dal quale prendono avvio e significato secondo i vari tempi liturgici. Una struttura piramidale.

Prima di iniziare le preghiere ci si fa il segno di croce, così quando si terminano. Il segno di croce come un recinto ideale separa i pensieri comuni dalle preghiere rivolte a Dio, il profano dal sacro. Così la porta di una chiesa separa due spazi, uno omogeneo e profano, l’altro gerarchico e sacro.
Il luogo sacro, che si distingue da quello profano ove valgono le regole geometriche fondate sul concetto di separazione e di distanza fra due punti diversi, corrisponde ad una stessa immagine metafisica, qualunque sia la forma effettiva della chiesa, cattedrale, santuario.
Consideriamo infatti che tutti i punti dello spazio riservato ai fedeli sono equidistanti rispetto al centro dell’altare, il quale a sua volta è equidistante rispetto al Tabernacolo.
Nella geometria euclidea, il luogo nel quale tutti i punti sono equidistanti rispetto ad un altro corrisponde alla circonferenza o cerchio che si costruisce appunto intorno ad un centro geometrico.
Nello spazio sacro di una chiesa si hanno così due “circonferenze”, separate in altezza, entrambe centrate intorno al Tabernacolo. Una “corona circolare” centrata nella presenza reale e centrale di Gesù Cristo.
Ogni chiesa a prescindere dalla forma e dall’architettura con la quale è costruita e con la quale si presenta in modo sensibile, può essere riportata nella geometria sacra ad un modello composto da due cerchi di diversa altezza centrati intorno all’Altissimo riposto nel Tabernacolo. Al centro il Tabernacolo, intorno lo spazio dell’altare, intorno a questi lo spazio dei fedeli.
Una chiesa è come una città tutta definita e perfetta, non più in fase di costruzione. In questa città messianica, la Gerusalemme celeste, ove tutto è definito stabilmente, le persone sono attraversate dal tempo, avvicinandosi e conformandosi sempre più per quanto possibile, alla persona divina di Gesù Cristo, vivo e presente nelle specie eucaristiche.
È il rapporto con Cristo che determina le diverse “altezze”, le “parti di cielo” occupate dalle persone all’interno della Chiesa. Tutto in senso assoluto. Nel “sacro” infatti il relativo non esiste, poiché ogni ente è relazionato con lo spirito d’amore che scaturisce come un fiume dal seno della Santissima Trinità.






giovedì 11 luglio 2013

FRANCESCANESIMO E MASSONERIA






Tra i santi apprezzati dalla massoneria, oltre a S. Giovanni Battista e S. Giovanni Evangelista, festeggiati dalla liturgia cattolica in prossimità dei solstizi estivo ed invernale, segue san Francesco, il poverello di Assisi, il santo che arso dall’amore di Cristo ricevette le stimmate della Passione, la cui festa è celebrata il 4 ottobre. Illustri massoni affermano addirittura l’esistenza di una certa affinità nelle opere e nelle intenzioni di questo Santo con i principi e le finalità perseguite dalla variegata e sfuggente corporazione, fondata come è noto sui principi di libertà, uguaglianza, fraternità. Corporazione iniziatica che postula la formazione dell’individuo su linee laiche, estranee a quelle dogmatiche e gerarchiche proprie del cattolicesimo, utilizza giuramenti di segretezza e che si è posta su posizioni decisamente anticlericali, fin dal suo esordio ufficiale, nel 1717, a Londra. Con il passare del tempo, la massoneria ha tuttavia cambiato atteggiamento nei confronti della Chiesa Romana. Non più scontri diretti e polemiche controproducenti, ma ricerca di eventuali zone di contatto all’interno delle quali elaborare possibili interazioni. Una di queste riguarda il rapporto della Libera Muratoria con il Francescanesimo: «Ordine che non si limitò a predicare ma concretamente visse i principi della fratellanza, della solidarietà, della Libertà nella ricerca … e concretamente visse altresì l’esperienza, audace e storicamente mancata, della ordinazione non canonica dei laici, cioè di una “iniziazione” non filtrata dai poteri della Curia Romana»[1].

SAN FRANCESCO, PERFETTO MURATORE?
La stima che la Framassoneria nutre per il Santo d’Assisi si è riversata, come di riflesso, anche su Papa Francesco, al quale il Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, in occasione della sua elezione al soglio Pontificio, ha rivolto un positivo augurio pubblicato sul sito ufficiale del GOI. Infatti, senza esimersi dall’indicare la via che il Santo Padre avrebbe dovuto seguire, per non deludere le aspettative delle maestranze massoniche, Gustavo Raffi auspicava che: «il pontificato di Francesco, il Papa che “viene dalla fine del mondo” possa segnare il ritorno della Chiesa-Parola rispetto alla Chiesa-istituzione, promuovendo un confronto aperto con il mondo contemporaneo, con credenti e non, secondo la primavera del Vaticano II».
Il G. M. Raffi dà per scontato che vi siano due chiese (istituzionale e carismatica) in opposizione tra loro all’interno della Chiesa Cattolica, la quale invece è sempre Una, Apostolica e Romana. Come se fosse possibile all’apostolo San Giovanni opporsi a San Pietro, determinando così la divisione e la rovina interna del Regno di Cristo, peraltro tanto auspicata dalle consorterie iniziatiche.
Sulla scia di questo equivoco di antica data, un’analisi «innovativa e progressista» della figura di S. Francesco, è stata sviluppata dalla Loggia dell’Antico Rito di Memphis e Misram (GOI), in due convegni svoltisi ad Assisi, nel 1986 e nel 1998, su «Francescanesimo e Libera Muratoria». In tale occasione il gran maestro di Loggia, Giancarlo Seri, nella seconda presentazione degli Atti, ha ribadito una sua opinione, forte e senza fondamento, riguardo al Santo di Assisi. Ossia, che: «Francesco, sia sul piano simbolico sia sul piano operativo, fu, indiscutibilmente, un vero e perfetto Libero Muratore (sic!)».
Quest’assurdità troverebbe ragione nel fatto che S. Francesco nel riedificare chiese abbandonate, avrebbe perseguito le stesse finalità, avrebbe utilizzato regole e strumenti operativi (squadra, compasso, ecc.) tipici dei maestri comacini, precursori dei Liberi Muratori. Secondo il Gran Maestro, infatti, S. Francesco: «poté conquistare le più sublimi vette dell'iniziazione e della reintegrazione spirituale nell'unità divina primigenia. Mai vi fu al mondo un più fulgido esempio di santità e perfezione laica»[2].
Per trovare improbabili punti di incontro tra il Poverello e l’istituzione massonica, il gran Maestro – tralasciando il fatto che Giovanni di Bernardone non fosse un laico, avendo emesso i tre voti religiosi, vivendo in comunità religiosa ed essendo diacono –, prosegue la sua esposizione analizzando in chiave esoterica il simbolo francescano del «Tau». 

NUMEROLOGIA
È nota infatti l'affezione di san Francesco per questa lettera, comune all'antica lingua ebraica ed a quella greca e che in ambito spirituale assume il significato di salvezza e salute dell'anima. Tommaso Celano nel «Trattato dei miracoli», del 1225, scrive che: «fra le tante lettere, gli era familiare la lettera Tau, con la quale firmava i biglietti e decorava le pareti delle celle ... con lo stesso sigillo san Francesco firmava le sue lettere, tutte le volte che per necessità o per spirito di carità, spediva qualche suo scritto»[3].
Anche san Bonaventura conferma che «Francesco venerava questo segno e gli era molto affezionato, lo raccomandava spesso nel parlare, con esso dava inizio alle sue azioni». Tali asserzioni sono comprovate in modo diretto dallo stesso Santo, il quale nella cosiddetta «Chartula di Francesco», conservata nel Sacro Convento di Assisi, impartisce la sua benedizione a frate Leone, per sollevarlo da una profonda crisi spirituale.
Il Santo scrisse la Chartula due anni prima della sua morte, dopo il ritiro sul sacro monte della Verna, sul quale si trattenne nel 1224, dalla festa dell'Assunzione a quella di S. Michele Arcangelo, ed in occasione del quale venne insignito delle «stimmate» da parte di un serafino con sei ali, «tanto luminose quanto infocate». Spiega S. Bonaventura che: «Il verace amore di Cristo aveva trasformato l’amante nell’immagine stessa dell’amato»[4].
Ebbene, il gran maestro di Loggia esperto di simbologia e di esoterismo ricama riflessioni di stampo iniziatico circa questa "dedica", prendendo spunto dal fatto che, il Tau segnato da S. Francesco, sembra fuoriuscire dalla bocca di un viso d'uomo stilizzato. Questo segno attraversa poi il nome di frate Leone dividendolo in due parti. La prima con la parola frate più due lettere del nome Leone, cioè «frateLe». la seconda a destra contiene le rimanenti tre lettere «one».
Dal punto di vista numerologico, rileva il G. M., la parola “frate” contiene 5 lettere. La parte del nome “Le”, 2. In tutto 7 lettere. Invece le ultime lettere del nome “one" sono 3. Sommando tutti questi valori si ottiene il 10.
Nell'arte regia, che secondo Giancarlo Seri il Poverello avrebbe conosciuto ed applicato, questi numeri trovano i seguenti significati: il 5 rappresenta il pentalfa o stella fiammeggiante. Il 2 la binarietà del mondo visibile. Il 7 la realizzazione della cosiddetta grande opera. Il 10 l'irreversibile "salto nell'abisso" dell'adepto che ha conseguito la «grande opera». Inoltre, il segno di separazione in due parti del nome, significa esotericamente la separazione fra il denso e il sottile, l'ordine dal caos, il bianco dal nero. Senza questa fase non sarebbe possibile avviare alcuna trasmutazione spirituale iniziatica[5].

TRECENTO CUBITI DI ALTEZZA
A questo punto, ci permettiamo di osservare che S. Francesco d’Assisi, del tutto rapito dall’amore in Cristo, avrà certamente sperimentato che «lo Spirito scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio» (1 Cor 2, 10). Pertanto, la sua conoscenza derivava dalla scienza infusa dall’alto grado di grazia perseguita, non certo da discutibili e sotterranee nozioni esoteriche scovate chissà dove. Il Poverello, attento scrutatore e conoscitore della Parola di Dio, non poteva ignorare il valore soteriologico che la Bibbia ascrive alla lettera «Tau».
È il profeta Ezechiele ad attestare, dopo aver visto l’abominio nel Tempio, che «circa venticinque uomini, con le spalle voltate al tempio e la faccia a oriente che, prostrati, adoravano il sole» (Ez 8, 16), il Signore disse: «Passa in mezzo alla città, in mezzo a Gerusalemme e segna con un tau sulla fronte degli uomini che sospirano e piangono per tutti gli abomini che vi si compiono» (9, 4). Questo brano biblico segnerà la tradizione, consentendo il passaggio dal Tau-croce al 300-croce, poiché Tau=300.
San Girolamo (+420) affermava che presso gli antichi ebrei, Tau, ultima lettera dell’alfabeto, ha la forma di quel segno di croce che i cristiani tracciano sulla loro fronte ed utilizzano come firma manuale. Questo segno veniva interpretato anche come conclusione e compimento della Parola rivelata.
Origene riteneva che l’antico modo di scrivere il Tau accentuava la sua forma di croce e che una profezia risiedeva in questo segno, il quale sarebbe stato perciò impresso dopo sulla fronte dei cristiani. “Portare la propria croce” secondo le indicazioni di Gesù, veniva così interpretato anche letteralmente, come il portare esternamente il carattere interno della Croce[6].
Come dicevamo, dal punto di vista numerologico, il Tau viene posto in corrispondenza con il numero 300, ed è inteso come segno di salvezza. Questo numero infatti compare già nella Genesi (6, 14-15), quando Dio disse a Noè: «Fatti un’arca di legno di cipresso … Ecco come devi farla: l’arca avrà trecento cubiti di lunghezza».
Origene spiega ancora che l’arca raffigura la croce redentrice, poiché 300 corrisponde alla lettera Tau, all’albero della nave col suo pennone, alla croce (Homelia in Genesin 2, 5). Questa corrispondenza era celebrata liturgicamente nell’Analecta Hymnica, ove è contenuto l’antico inno cantato anche da S. Francesco: «Ligno crucis fabricatur / Arca Noe qua salvatur / Mundus a miseria» (Con il legno della croce venne fabbricata l’arca di Noè che salvò il mondo dalla miseria).

INTRANSIGENZA FRANCESCANA
Al di là di queste brevi osservazioni, ci sembra giusto sottolineare che San Francesco, essendo una persona carismatica, come tutti i fondatori ha vissuto il rapporto carisma-istituzione non senza problemi e fraintendimenti. Ma come tutti i santi fondatori si è indirizzato lungo la linea ecclesiale indicata da San Paolo, il quale esorta i Corinzi ad amministrare i doni dello Spirito Santo per l’edificazione della Chiesa, senza lasciar spazio a nessuna autonomia. San Giovanni si ferma davanti al sepolcro vuoto, per fare entrare per primo Pietro, il capo degli Apostoli.
È comunque certo che il Santo serafico, che ripristinò la stretta osservanza religiosa, che si spogliò di tutto per amore di Cristo crocifisso, che indicò la via della penitenza per conseguire la vera pace, esercita ancora oggi un grande fascino su credenti e non credenti. Sono quindi comprensibili i tentativi di interpretazione ed “affiliazione” della sua figura che si sollevano anche da parti estranee alla sua cultura, alla sua religiosità. È però anche probabile che egli si sarebbe svincolato da molti di questi. Egli infatti era intransigente circa l’osservanza e la totale sottomissione alla Curia Romana. Egli non puntò il dito sulla corruzione esistente nel Clero, ma cercò di ripararla innanzitutto nella sua persona, attraverso la via della penitenza e della continua conversione a Cristo.
Nella Lettera al Capitolo generale e a tutti i frati, ad esempio, egli dichiara di non volere ritenere come cattolici coloro che non dicono l’ufficio divino o vogliono mutarlo, e perciò rifiuta anche di vederli e di parlare con loro[7]; così pure di quelli che vanno vagando incuranti della disciplina della Regola. E nel suo Testamento ribadisce e chiarisce ancora questa sua netta disposizione[8].
Il “grande Santo” quindi non si sarebbe affatto sentito «in stretta comunione spirituale con molti di coloro che praticano la Libera Muratoria Universale», come invece sostiene il G. M. Giancarlo Seri. Francesco infatti non aveva «come suo unico bagaglio, una sacca contenente gli strumenti dell’Arte Regia: la squadra, il compasso, la cazzuola, il filo a piombo, il mazzuolo, la riga e lo scalpello»[9], ma semplicemente il Vangelo e Cristo crocifisso nel suo corpo.

RESTAURAZIONE DELLA ROMANITÀ
Quando restaurò con le proprie mani la Chiesa di S. Damiano, fra il 1206 ed il 1208, se anche utilizzò per necessità strumenti tipici dei muratori, lo fece con tutt’altro scopo da quello perseguito dai Liberi Muratori. Egli non si atteggiò mai a capomastro o a direttore dei lavori materiali o spirituali, ma si considerò sino alla fine un «uomo inutile e indegna creatura del Signore Iddio»[10].
Alla misteriosa voce che gli disse: «“Francesco, va, ripara la mia casa, che, come vedi, va tutta in rovina” … dapprima rimase atterrito; poi, colmo di gioia e ammirazione, prontamente si alzò, e si impegnò totalmente a compiere l’incarico di riparare l’edificio esterno della chiesa: ma l’intenzione principale della Voce era diretta alla Chiesa, che Cristo acquistò con lo scambio prezioso del suo sangue, come lo Spirito Santo gli avrebbe insegnato ed egli stesso in seguito avrebbe raccontato ai suoi intimi»[11].
La missione e l’intenzione che i veri seguaci di San Francesco perseguono è quella di mantenere viva la sua opera di pacificazione e restaurazione della Romanità, dai sempre altrettanto vivi tentativi di corruzione provenienti dall’interno e dall’esterno, proprio ad opera delle consorterie iniziatiche che tanto bramano di instaurare un dialogo con la Chiesa di Roma. Per realizzare questa missione ecclesiale, non occorrono strumenti particolari o segreti simbolismi, ma la grazia che santifica la vita quotidiana e lega sempre più l’anima a Cristo povero e sofferente. Proprio questa pacificazione dell’anima è espressa come sintesi e lascito della dottrina spirituale di Francesco d’Assisi al termine della sua Lettera al Capitolo generale e a tutti i frati, che riportiamo in conclusione. Se i Liberi Muratori, non essendo più tali, potessero davvero condividere pienamente questa lode al Dio Trinitario, senza fini occulti ed interpretazioni raffinate ed originali ordinate ad improbabili accezioni esoteriche del pensiero e dell’opera del Poverello, allora forse sarebbe possibile un costruttivo confronto con essi, sempre in vista della comune, totale conversione e sottomissione di ogni persona, istituzione e dell’intero mondo al Signore Gesù Cristo:
«Onnipotente, eterno, giusto e misericordioso Iddio, concedi a noi miseri di fare, per la forza del tuo amore, ciò che sappiamo che tu vuoi, e di volere sempre ciò che a te piace, affinché, interiormente purificati, interiormente illuminati e accesi dal fuoco dello Spirito Santo, possiamo seguire le orme del tuo Figlio diletto, il Signore nostro Gesù Cristo, e, con l’aiuto della tua sola grazia, giungere a te, o Altissimo, che nella Trinità perfetta e nella Unità semplice vivi e regni glorioso, Dio onnipotente per tutti i secoli dei secoli. Amen»[12].




[1] A. A. Mola, I Francescani in Massoneria e per la Massoneria, in, a cura di G. Seri, Francescanesimo e Libera Muratoria, Arktos, Carmagnola 1998, p.76.
[2] Ibid. p. 7.
[3] In Fonti Francescane, Ed. Messaggero Padova, 1990, Sez. Seconda, Cap. II, 827, p. 740.
[4] Ivi, Leggenda maggiore di S. Bonaventura di Bagnoregio, n. 1228, p. 948.
[5] G. Seri, a cura di, Francescanesimo e Libera Muratoria, cit., pp. 9-12.
[6] Cfr. D. Vorreux, Tau simbolo francescano, EMP, Padova 1994.

[7] «Quei frati poi che non vorranno osservare fedelmente queste cose, non li ritengo cattolici, né miei frati: io non li voglio vedere, non ci voglio parlare finché non abbiano fatto penitenza», F. F., cit., VI, 229, p. 166.
[8] «E se si trovassero dei frati che non recitano l’Ufficio secondo la Regola o volessero comunque variarlo, o non fossero cattolici, tutti i frati, ovunque sono, siano tenuti per obbedienza, appena trovato uno di essi, a consegnarlo al custode più vicino al luogo dove l’avessero trovato. E il custode sia tenuto fermamente per obbedienza, a custodirlo severamente come un uomo in prigione, giorno e notte, così che non possa essergli tolto di mano, finché personalmente lo consegni nelle mani del suo ministro», F. F., cit., 126, p. 133.
[9] G. Seri, cit., pp. 94 e 14.
[10] F. F., cit., VI, 229, p. 166.
[11] F. F., cit., L. V, 1334, p. 1022.
[12] F. F., cit.,  VI, 229, p. 167.