venerdì 29 dicembre 2017

L’EREMO SULLA COLLINA



Il treno correva verso il Monregalese, lasciando indietro periferie e case sparse. Di fronte, l’arco delle montagne, sempre più vicino. Paesaggio in movimento, eppure stabile. Tempo che passa, restando impresso, oltre il cielo. Il ragazzo balzò giù, alla stazione di Pogliola. Mancava poco a mezzogiorno. Il sole splendeva, sulla campagna, sui calanchi lontani. E la sacca, coi libri, pesava. Pensava che una settimana di studio nell’eremo sarebbe bastata, per superare l’ammissione al concorso. Quello era il suo piano, la piega che voleva dare alla vita. Egli non sapeva che gli era riservato qualcosa di ben più importante.

Tornava ogni anno nell’eremo di San Biagio, appena libero dalle supplenze, coniugando, come possibile, la lotta di classe al mistero di Dio. Procedendo a piedi in quella stradina, vedeva le creste della terra che iniziava a ondeggiare, nell’infittirsi della vegetazione, sopra il Pesio. Riconoscendo luoghi noti, riaffiorano momenti obliati. Infatti, d’improvviso, gli apparve l’eremita, nell’orto, chino a raccogliere l’insalata per la cena. Il sole calava, dietro la fila dei pioppi e un’aria tiepida saliva dalla terra smossa, insieme ai muggiti delle frisone, che trotterellavano verso la stalla. Il ragazzo con barba e capelli lunghi quella sera gli chiese che cosa fosse l’anima. Raddrizzatosi a fatica, infilando, fra scapolare e cinghia di cuoio, foglie tenere di cappuccina, il trappista cercò di spiegare il problema dei problemi: «L’anima è immortale, ma questo corpo non ancora. Il corpo eterno corrisponderà alla perfezione raggiunta dall’anima in questa vita, che è unica e decisiva per la nostra salvezza».

Il giovane non riusciva ad afferrare quei concetti così naturali per il monaco. Lo seguiva a fatica, più di tutto attratto dal suo sguardo chiaro, che oscillava nel cielo, dietro al volo delle rondini, in cerchio su di essi. Egli non aveva alcuna concezione di Dio. Credeva in un vago spirito presente nella natura, ma niente di più. Nemmeno immaginava che Dio potesse essere persona reale, e avere un corpo identico al nostro, benché infinitamente perfetto. Lo imparò in seguito, conquistato dal Cristo.

Quando giunse nell’eremo, Padre Filiberto gli rivelò subito la sua idea di tracciare un sentiero, che dal Pesio salisse la collina. Voleva mettere dei sedili su per la riva: tronchi poggiati per terra, sufficienti, per chi volesse rimontare il bosco e raccogliersi, nel silenzio, sull’altura. Alle prime luci dell’alba, i due erano già sulla riva del torrente, cercando l’itinerario migliore per risalire. I fiumi, per scendere a valle, applicano la legge del gradiente, scegliendo la via più ripida e breve. Loro, per risalire, avrebbero dovuto fare il contrario.

Camminavano sotto l’erto calanco, studiando un tracciato possibile. A un tratto, il monaco si fermò, indicando uno slargo naturale tra i frassini. Con voce energica, fece segno: «Partiremo da qui». Lo disse, passandosi l’altra mano sulla testa rasata. Gli mancava la falangetta dell’indice. Il ragazzo stava per chiedere: «Com’è successo?». Ma non osò. Tuttavia, pensava fosse più semplice tracciare un sentiero in un bosco, su una collina. Credeva bastasse salire da una parte qualsiasi. Capì, invece, com’è difficile, e pieno di responsabilità, ogni inizio, la nascita di qualunque cosa, il primo passo.

Quel sentiero nel bosco, delineato anni prima con l’eremita, corrispondeva ad un percorso interno alla coscienza, tracciato in un tempo precedente al tempo, che il giovane avrebbe scoperto in se stesso. Quel tragitto, già definito in lui, lo avrebbe infatti condotto verso la cima, a contatto col cielo, ove una sua parte, inconsapevolmente, già riposava. Per scoprirla, e vivificarla alla luce della coscienza rinata, avrebbe dovuto spezzare il tempo, sfuggire dagli anni irresponsabili nei quali, sballottato dagli eventi, non riusciva ad opporre nessuna resistenza, alcun freno al piacere.

L’eremita lo aiutò gradualmente a definire questa scoperta, a concepire il gusto della purezza. Senza troppe parole. Quando a sera, sfiniti, si sedevano sul gradino, a lato del pronao. Guardavano, allora, la strada sterrata che porta alla frazione. I contadini che riconducevano le frisone nella stalla. I cani in corsa, pronti ad abbaiare alle mucche più lente. Mentre, sopra tutto, nel crepuscolo, tremavano le prime stelle.

Padre Filiberto ora è nella Gloria. Dopo avere tracciato il sentiero per risalire la collina, progressive croci l’han definitivamente inchiodato a quel cielo pieno di rondini, contemplato, in silenzio, sul gradino, nei tramonti arrossati. Ma l’Eremo c’è ancora. Ci batte il sole. Ci cade la neve. Le rondini fanno ancora i nidi, sotto i tetti tondi delle absidi. Anche intorno, la campagna è la stessa, i corvi, i pioppeti, la cascina coi contadini che urlano alle mucche, mentre il sole compie il suo corso. Soltanto lui manca, l’amico eremita.

Però, a volte, compare. Nei momenti inattesi. È come se una voce dicesse qualcosa, senza farsi sentire. Come se qualcuno stesse chiamando, da un luogo indefinibile. Quando capita, è meglio lasciar perdere tutto. E tornare su quella collina, a un palmo dal cielo, rifacendo a ritroso il sentiero tracciato a fatica in quegli anni lontani. Quando il trappista guardava, sorridendo paziente, senza pretendere in alcun modo che quel giovane capisse tutto e subito. Senza mai chiedergli di recitare formule in cui non credeva, o tentare di convertirlo, atto che l’orgoglio giovanile avrebbe rifiutato senz’altro.  

Il Padre invece accettò volentieri lo schietto rifiuto di Dio, che il giovane entrasse ed uscisse dall’Eremo a piacimento, disertando Messe e liturgie. Egli fece in modo che non si sentisse obbligato a rispondere a quegli impliciti inviti, perché proprio quell’obbligo avrebbe oscurato l’azione della Grazia, complicato il processo di guarigione. Così, il ragazzo lo sentiva salmodiare da solo, mentre scendeva le scale per andare nei boschi, o a stendersi sulla chiappa di qualche collina, credendosi estraneo ai progetti di Dio.

Solo adesso, si capisce perché l’eremita sorridesse a tutti i suoi ospiti, con quegli occhi stretti e pungenti. Si capisce tutta la delicatezza usata, per non urtare la scorza agnostica, per non dare pretesti alla resistenza dell’anima, che si crede libera. Proprio quel sorriso benevolo, lo sguardo bonario, quella inattesa complicità e comprensione, legarono infatti le nostre vite alla sua, il nostro caos al suo cosmo, l’ignoranza alla Verità. Senza mai dirlo, innestandoci alle sue preghiere, unendoci alla sua riparazione, trasferendo in silenzio nelle nostre anime la Grazia che agiva nella sua, ottenne il pentimento, la capitolazione, la caduta di Gerico.
Ognuno ha un suo tempo, un modo diverso per risalire, per colmare la sua pena nascosta. Lo insegnano gli alberi, le nuvole, i corvi. Il tempo infatti non si distingue dall’io. Il passare degli attimi unifica mente e realtà, nello stesso modo con cui l’ago conduce il filo in punti determinati di una stoffa, e non in altri, formando un ricamo particolare e indelebile. Così, una mano invisibile lega la nostra anima al mondo, giorno dopo giorno, caduta dopo caduta, secondo un preciso disegno che, a volte, in qualche momento, ci sembra di intravedere. Tra i fumi delle lontane praterie.








* Dedicato a Filiberto Guala, manager torinese, che abbandonò la sua brillante carriera, per ritirarsi nel monastero trappista delle Frattocchie. A metà degli anni settanta, avviò nell’eremo di San Biagio, nei pressi di Mondovì, un’esperienza eremitica, aperta a chi volesse condividere con lui il silenzio e la ricerca di Dio nella vita essenziale della trappa.