mercoledì 21 novembre 2018

LE ORBITE DI KEPLERO (I parte)




Nel gennaio del 1600, il giovane e semisconosciuto Johannes Keplero giunse a Praga, per iniziare la sua collaborazione con il matematico imperiale e grande astronomo danese Tycho Brahe, in quel periodo a servizio di Rodolfo II d’Asburgo, Imperatore del Sacro Romano Impero, grande estimatore della cultura esoterica.
Tycho aveva raccolto migliaia di nuovi dati osservativi relativi ai moti planetari. La sua abilità osservativa lo aveva reso il massimo esperto nell’astronomia dell’epoca, oltre che un validissimo filosofo naturale. Infatti, in base ai dati raccolti, dopo aver dimostrato la non solidità delle sfere aristoteliche e confutato il sistema geocentrico tolemaico, elaborò un sistema geostazionario, detto appunto ticonico, in cui i pianeti ruotano intorno al Sole, il quale, allo stesso tempo ruota con essi, intorno alla Terra ferma.
Questo modello, nonostante sia stato frettolosamente abbandonato, perché ideologicamente poco rivoluzionario, aveva un vantaggio rispetto a quelli copernicano e tolemaico: quello di essere fedele ai dati dell’osservazione. Il movimento del cielo, da est ad ovest, la quiete della terra ed il moto dei pianeti si rispecchiavano infatti pienamente nel modello ticonico, tranne il movimento di Marte. La questione dell’orbita di Marte era alquanto complicata, addirittura inspiegabile, volendo rinunciare agli epicicli ed equanti di Tolomeo, per la sua imprevedibilità e per i suoi moti retrogradi. Tycho pensò bene di affidare la soluzione di questo enigma, in ordine al proprio sistema, al nuovo assistente, Keplero, considerando anche la sua inabilità ad osservare il cielo, poiché era debole di vista. Strano a dirsi, colui che elaborò le leggi che oggi descrivono il moto dei pianeti, lo fece da euclideo, guardando la terra più che il cielo.
Keplero, nel 1596, aveva presentato nel suo primo libro, Mysterium cosmographicum, un astruso modello del sistema solare, inteso come una struttura composta di sei sfere solide, associate rispettivamente ai sei pianeti, tra le quali erano inseriti i cinque solidi platonici. Tale modello, compilato a priori, secondo lo stile di Platone circa l’iperuranio, pur se centrato nel Sole, si accordava tuttavia malamente con quello copernicano. Johannes se la prese con Copernico, effettivamente colpevole di aver trascritto misure del passato, senza verificarle, preoccupandosi solo che dessero ragione al suo traballante modello eliocentrico. Inoltre, proprio lui, Keplero, che si ispirava alle forme platoniche per far rientrare in esse la realtà, accusò l’astronomo di Torun, di fare della geometria, invece della fisica. Keplero in effetti si occupò più della matematica che dell’osservazione celeste, peraltro a lui impedita, come detto, per difetto naturale.
Dopo aver stampato il Mysterium, con l’aiuto del suo precettore e amico Michael Maestlin, cercò di diffonderlo a quelli che contavano in Europa, inviandone due copie anche a Galileo. Il grande Brhae venne a sapere del lavoro dell’allora sconosciuto matematico ed astronomo, nato a Weil, settimino, il 27 dicembre, festa di S. Giovanni apostolo, nell’allora ducato di Württemberg, nel sud ovest della Germania, con capitale Praga. La madre, Katharina, allevata da una zia che poi venne bruciata sotto l’accusa di stregoneria, venne ella stessa in seguito accusata dello stesso delitto, ma riuscì a salvarsi a malapena, grazie all’intervento del figlio ormai famoso, Johannes, anch’egli in odore di eresia. Il padre, Heinrich, mezzo mercenario e vagabondo, era sparito da tempo, senza lasciare traccia, dopo aver malmenato durissimamente la moglie e forse anche i figli.
Brahe partecipò, cum grano salis, alcune delle sue preziose misure a questo suo collaboratore, con il quale diverse volte entrò in conflitto, per farle inquadrare nel suo sistema planetario. Keplero, invece, li valutò in senso eliocentrico. Egli infatti, come il suo mentore Maestlin, era un tenace assertore dell’eliocentrismo, essendo peraltro ben collegato al gruppo di studiosi antiaristotelici che circolavano nelle corti dell’aristocrazia europea, insieme ai grandi esponenti del pensiero magico. Tutti dediti ad una ricerca fondata sulla base del misticismo geometrico, delle armonie e delle sue aperture creative, facendo così prevalere l’immaginazione razionale sulla realtà. Stesso procedimento utilizzato dagli illusionisti e dai maghi, i quali presentano con forza le loro visioni, fino a farle credere reali.
L’insanabile difformità di concezione cosmologica, che opponeva Brahe a Keplero, dipendeva anche dalla differenza dei loro metodi di indagine. Secondo Tycho, l’astronomia è una scienza che si costruisce a posteriori, ricavando dai dati osservativi il modello che li raffiguri, come l’immagine dallo specchio. Keplero, invece, costruiva la sua indagine a priori, cercando di fare rientrare i dati dell’osservazione in modelli razionali precostituiti. Egli riuscì quindi a trovare la soluzione geometrica in chiave eliocentrica dei dati di Brahe, pubblicando nel 1609, nel testo Astronomia nova, le prime due famose leggi sulle orbite ellittiche dei pianeti e della Terra, rispetto ad un fuoco occupato dal Sole.
I risultati dell’osservazione costituiscono i fattori immutabili e certi, il firmamentum della scienza. La loro interpretazione tuttavia può variare a seconda della teoria adottata. Difatti, le osservazioni relative ai passaggi planetari rientravano analogamente nei tre modelli tolemaico, copernicano, tychonico. Ognuno di essi dava ragione secondo prospettive diverse al moto planetario: «Nonostante le importanti differenze concettuali, dal punto di vista predittivo è possibile dimostrare una loro sostanziale equivalenza; i risultati forniti utilizzando gli strumenti previsti dai tre astronomi differiscono, come scrive Keplero, “per meno di un capello”»[1].
È quanto sosteneva San Tommaso, secondo il quale gli stessi fenomeni naturali possono essere spiegati in modo diverso. La conoscenza assoluta infatti si determina solo quando un effetto si spiega con la sua causa o principio ad esso primo. Una spiegazione che faccia risalire la causa dagli effetti non è che ipotetica (Summa Theologica I, q. 32, art. 1 ad 2) e possibile di altra interpretazione. L’astronomia, la fisica, quindi, sono scienze ipotetiche, mentre la metafisica è la scienza della certezza ed inalterabilità, perché parte sui principi primi indubitabili, fondati sull’identità dell’Essere.
Questo per dire che le leggi di Keplero, con modifiche tecniche, potrebbero funzionare anche secondo la concezione di Tycho Brahe, nella quale la Terra è considerata in quiete, così come si manifesta ai sensi. Ma poiché questa concezione sensata è, dal punto di vista speculativo, affine alla cosmologia tomista, venne da subito combattuta ed accantonata. Al contrario dell’idea del movimento fisico della Terra. A tale idea, altrettanto plausibile, corrisponde tuttavia una forza sovversiva intrinseca, in grado di destabilizzare il senso comune e giungere persino ad intaccare la fede nel Dio che si manifesta nell’opera delle sue mani. Difatti, se quanto si percepisce è illusorio, perché dovrebbe essere reale e certo Colui dal quale il tutto deriva?
Del resto, Cristo fondò la sua Chiesa sulla Pietra, perché, come l’ elemento Terra, è segno e simbolo della stabilità, della fermezza, della quiete rispetto alle forze della natura. Cristo soffrì la sua passione in pace, imperturbabile, nell’ingiusta sofferenza che gli veniva inflitta dagli accusatori, dimostrando fino in fondo la certezza ed il valore delle sue promesse. Mettendo il moto la Pietra, rispetto al Sole, ribaltando cioè i dati della percezione, si relativizza e si ribalta tutto. Anche il mandato di chi interpreta e diffonde legittimamente la Parola, mediante l’autorità della Chiesa Romana, alla luce della Tradizione Apostolica. Come fece Lutero, influenzato dalla metafisica solare rinata nella corte medicea, che scelse come simbolo della sua riforma una croce nera nel cuore di una rosa bianca, con cinque petali, come la massonica stella fiammeggiante.
Probabilmente, per questo tipo di ragione, il gesuita Melchiorre Inchofer, nel Tractatus syllepticus, considerò l’opinione della mobilità della terra, come scrisse Galilei, «tanto orribile, perniciosa e scandalosa», che se anche si permettesse di mettere in dubbio i fondamentali articoli della fede, come «l’immortalità dell’anima, la creazione, l’Incarnazione, non si deve però permettere che si disputi o si argomenti contro la stabilità della terra», poiché solo questo principio sopra a tutti deve essere ritenuto talmente sicuro, da impedire «in alcun modo» che qualcuno gli argomenti contro, mettendolo in discussione[2].




[1] A. M. Lombardi, Keplero – una biografia scientifica, Codice Edizioni, Torino 2008, p. 8.
[2] A cura di I. Del Longo e A. Favaro, Galileo, Dal carteggio e dai documenti – pagine di vita, Sansoni, Firenze 1984, p. 382.

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