venerdì 29 dicembre 2017

L’EREMO SULLA COLLINA



Il treno correva verso il Monregalese, lasciando indietro periferie e case sparse. Di fronte, l’arco delle montagne, sempre più vicino. Paesaggio in movimento, eppure stabile. Tempo che passa, restando impresso, oltre il cielo. Il ragazzo balzò giù, alla stazione di Pogliola. Mancava poco a mezzogiorno. Il sole splendeva, sulla campagna, sui calanchi lontani. E la sacca, coi libri, pesava. Pensava che una settimana di studio nell’eremo sarebbe bastata, per superare l’ammissione al concorso. Quello era il suo piano, la piega che voleva dare alla vita. Egli non sapeva che gli era riservato qualcosa di ben più importante.

Tornava ogni anno nell’eremo di San Biagio, appena libero dalle supplenze, coniugando, come possibile, la lotta di classe al mistero di Dio. Procedendo a piedi in quella stradina, vedeva le creste della terra che iniziava a ondeggiare, nell’infittirsi della vegetazione, sopra il Pesio. Riconoscendo luoghi noti, riaffiorano momenti obliati. Infatti, d’improvviso, gli apparve l’eremita, nell’orto, chino a raccogliere l’insalata per la cena. Il sole calava, dietro la fila dei pioppi e un’aria tiepida saliva dalla terra smossa, insieme ai muggiti delle frisone, che trotterellavano verso la stalla. Il ragazzo con barba e capelli lunghi quella sera gli chiese che cosa fosse l’anima. Raddrizzatosi a fatica, infilando, fra scapolare e cinghia di cuoio, foglie tenere di cappuccina, il trappista cercò di spiegare il problema dei problemi: «L’anima è immortale, ma questo corpo non ancora. Il corpo eterno corrisponderà alla perfezione raggiunta dall’anima in questa vita, che è unica e decisiva per la nostra salvezza».

Il giovane non riusciva ad afferrare quei concetti così naturali per il monaco. Lo seguiva a fatica, più di tutto attratto dal suo sguardo chiaro, che oscillava nel cielo, dietro al volo delle rondini, in cerchio su di essi. Egli non aveva alcuna concezione di Dio. Credeva in un vago spirito presente nella natura, ma niente di più. Nemmeno immaginava che Dio potesse essere persona reale, e avere un corpo identico al nostro, benché infinitamente perfetto. Lo imparò in seguito, conquistato dal Cristo.

Quando giunse nell’eremo, Padre Filiberto gli rivelò subito la sua idea di tracciare un sentiero, che dal Pesio salisse la collina. Voleva mettere dei sedili su per la riva: tronchi poggiati per terra, sufficienti, per chi volesse rimontare il bosco e raccogliersi, nel silenzio, sull’altura. Alle prime luci dell’alba, i due erano già sulla riva del torrente, cercando l’itinerario migliore per risalire. I fiumi, per scendere a valle, applicano la legge del gradiente, scegliendo la via più ripida e breve. Loro, per risalire, avrebbero dovuto fare il contrario.

Camminavano sotto l’erto calanco, studiando un tracciato possibile. A un tratto, il monaco si fermò, indicando uno slargo naturale tra i frassini. Con voce energica, fece segno: «Partiremo da qui». Lo disse, passandosi l’altra mano sulla testa rasata. Gli mancava la falangetta dell’indice. Il ragazzo stava per chiedere: «Com’è successo?». Ma non osò. Tuttavia, pensava fosse più semplice tracciare un sentiero in un bosco, su una collina. Credeva bastasse salire da una parte qualsiasi. Capì, invece, com’è difficile, e pieno di responsabilità, ogni inizio, la nascita di qualunque cosa, il primo passo.

Quel sentiero nel bosco, delineato anni prima con l’eremita, corrispondeva ad un percorso interno alla coscienza, tracciato in un tempo precedente al tempo, che il giovane avrebbe scoperto in se stesso. Quel tragitto, già definito in lui, lo avrebbe infatti condotto verso la cima, a contatto col cielo, ove una sua parte, inconsapevolmente, già riposava. Per scoprirla, e vivificarla alla luce della coscienza rinata, avrebbe dovuto spezzare il tempo, sfuggire dagli anni irresponsabili nei quali, sballottato dagli eventi, non riusciva ad opporre nessuna resistenza, alcun freno al piacere.

L’eremita lo aiutò gradualmente a definire questa scoperta, a concepire il gusto della purezza. Senza troppe parole. Quando a sera, sfiniti, si sedevano sul gradino, a lato del pronao. Guardavano, allora, la strada sterrata che porta alla frazione. I contadini che riconducevano le frisone nella stalla. I cani in corsa, pronti ad abbaiare alle mucche più lente. Mentre, sopra tutto, nel crepuscolo, tremavano le prime stelle.

Padre Filiberto ora è nella Gloria. Dopo avere tracciato il sentiero per risalire la collina, progressive croci l’han definitivamente inchiodato a quel cielo pieno di rondini, contemplato, in silenzio, sul gradino, nei tramonti arrossati. Ma l’Eremo c’è ancora. Ci batte il sole. Ci cade la neve. Le rondini fanno ancora i nidi, sotto i tetti tondi delle absidi. Anche intorno, la campagna è la stessa, i corvi, i pioppeti, la cascina coi contadini che urlano alle mucche, mentre il sole compie il suo corso. Soltanto lui manca, l’amico eremita.

Però, a volte, compare. Nei momenti inattesi. È come se una voce dicesse qualcosa, senza farsi sentire. Come se qualcuno stesse chiamando, da un luogo indefinibile. Quando capita, è meglio lasciar perdere tutto. E tornare su quella collina, a un palmo dal cielo, rifacendo a ritroso il sentiero tracciato a fatica in quegli anni lontani. Quando il trappista guardava, sorridendo paziente, senza pretendere in alcun modo che quel giovane capisse tutto e subito. Senza mai chiedergli di recitare formule in cui non credeva, o tentare di convertirlo, atto che l’orgoglio giovanile avrebbe rifiutato senz’altro.  

Il Padre invece accettò volentieri lo schietto rifiuto di Dio, che il giovane entrasse ed uscisse dall’Eremo a piacimento, disertando Messe e liturgie. Egli fece in modo che non si sentisse obbligato a rispondere a quegli impliciti inviti, perché proprio quell’obbligo avrebbe oscurato l’azione della Grazia, complicato il processo di guarigione. Così, il ragazzo lo sentiva salmodiare da solo, mentre scendeva le scale per andare nei boschi, o a stendersi sulla chiappa di qualche collina, credendosi estraneo ai progetti di Dio.

Solo adesso, si capisce perché l’eremita sorridesse a tutti i suoi ospiti, con quegli occhi stretti e pungenti. Si capisce tutta la delicatezza usata, per non urtare la scorza agnostica, per non dare pretesti alla resistenza dell’anima, che si crede libera. Proprio quel sorriso benevolo, lo sguardo bonario, quella inattesa complicità e comprensione, legarono infatti le nostre vite alla sua, il nostro caos al suo cosmo, l’ignoranza alla Verità. Senza mai dirlo, innestandoci alle sue preghiere, unendoci alla sua riparazione, trasferendo in silenzio nelle nostre anime la Grazia che agiva nella sua, ottenne il pentimento, la capitolazione, la caduta di Gerico.
Ognuno ha un suo tempo, un modo diverso per risalire, per colmare la sua pena nascosta. Lo insegnano gli alberi, le nuvole, i corvi. Il tempo infatti non si distingue dall’io. Il passare degli attimi unifica mente e realtà, nello stesso modo con cui l’ago conduce il filo in punti determinati di una stoffa, e non in altri, formando un ricamo particolare e indelebile. Così, una mano invisibile lega la nostra anima al mondo, giorno dopo giorno, caduta dopo caduta, secondo un preciso disegno che, a volte, in qualche momento, ci sembra di intravedere. Tra i fumi delle lontane praterie.








* Dedicato a Filiberto Guala, manager torinese, che abbandonò la sua brillante carriera, per ritirarsi nel monastero trappista delle Frattocchie. A metà degli anni settanta, avviò nell’eremo di San Biagio, nei pressi di Mondovì, un’esperienza eremitica, aperta a chi volesse condividere con lui il silenzio e la ricerca di Dio nella vita essenziale della trappa. 

giovedì 14 settembre 2017

L’OBELISCO ELIOCENTRICO



Nell’imminenza della sua passione, Cristo citò un’antica profezia, come per ribadirne l’ineluttabile validità: «Quando vedrete l’abominio della desolazione, di cui parlò il profeta Daniele, stare nel luogo santo – chi legge comprenda - … vi sarà una tribolazione grande, quale mai avvenne dall’inizio del mondo fino a ora, né mai più ci sarà» (Mt 24, 15-22).
Queste parole sembrano assumere un significato particolare, se interpretate nella prospettiva che da tempo stiamo tracciando, in modo anticonvenzionale, circa la dottrina eliocentrica, a nostro avviso solo apparentemente astronomica. Infatti, il “luogo santo” cristiano per eccellenza, non può che essere la sua sede suprema, il Vaticano, la dimora di Pietro, cuore e centro di irradiazione in tutto il mondo della Cristianità. Lo “stare” dell’abominio nel luogo santo, suggerisce peraltro una posizione, una sorte di posto solenne, o trono, preparato nel tempo, per dare spazio fisico al misterium iniquitatis, affinché possa attuarsi. Sia che l’abominio fosse una persona, una dottrina o una mentalità, in ogni caso, esso dovrà in qualche modo posizionarsi in uno luogo fisico o mentale.
Come abbiamo scritto in questi anni, una mentalità sottilmente eretica iniziò a farsi spazio al termine del Millennio medievale, quando autorevoli esponenti ecclesiastici si lasciarono sedurre dalle concezioni che giungevano dall’Oriente, circa la dottrina pagana del Sole-Lucifero, inconsapevoli, si spera, di tutti i suoi risvolti oscuri.  
Vennero pertanto posizionati, nel corso del 1480, certamente con nobili intenzioni, sul pavimento del duomo di Siena, i mosaici di Ermete e delle Sibille, legittimando così in modo sotterraneo l’ingresso dell’ermetismo magico all’interno della dottrina cristiana. Ma un segno plastico ancora più evidente e diffuso di questa penetrazione surrettizia, è dato dagli obelischi egizi. In particolare, quello del Vaticano, fatto rizzare dal papa Sisto V, nel 1586, di fronte alla basilica di san Pietro, ove ancora oggi possiamo contemplare la sua silenziosa e forse inopportuna presenza.  
Lo stesso grande Papa che il 5 gennaio dello stesso anno aveva condannato, con la bolla Coeli et terrae, l’astrologia e la magia rinascimentale, affidando agli inquisitori l’incarico di giudicare anche le pratiche più semplici di magia, dispose che si erigesse di fronte alla Chiesa Petrina l’enorme cippo solare di matrice egizia, ignorandone la recondita valenza magico-erotica, probabilmente istigato da qualche suo fin troppo zelante consigliere. La parabola della pagliuzza risuona beffardo in questo atto, anche se, come per annullare possibili influssi negativi, venne posto su questo membro di pietra una Croce, e nel basamento l’incisione del breve esorcismo: Ecce Crux Domini, fugite parte adversae: vicit Leo de tribu Iuda, con la concessione di un’indulgenza perpetua di dieci anni e quarantene a chi avesse venerato la croce di Cristo posta sull’obelisco, recitando un Pater e un Ave.

Abbiamo già menzionato il singolare episodio della processione, svoltasi in Roma, nella lontana domenica delle Palme del 1484, 33 anni prima della riforma luterana del 1517, capeggiata dall’eccentrico Giovanni Mercurio da Coreggio [1]. Costui, che si dichiarava precursore e profeta di una nuova religione, attraversò le vie della città santa, vestito in modo bizzarro, seguito da un altrettanto stravagante corteo di seguaci, per fermarsi, infine, sul colle del Vaticano. Qui attuò il proposito di deporvi alcuni oggetti caricati magicamente, dopo aver tracciato in terra una serie di geroglifici, simboli e formule magiche.
L’evento citato, forse solo apparentemente coreografico e privo di significati, alla luce della nostra mentalità scientifica, potrebbe invece aver lasciato traccia non solo nella polvere, ma anche nel terreno profondo della storia degli uomini. Infatti, i segni tracciati da quel negromante sembrarono concretizzarsi ben presto, con la diffusione del Libro XVI del Poimandres, tradotto dal suo illustre ammiratore, Ludovico Lazzarelli, ove si legge tra l’altro che “il sole ha intorno a sé molti cori di demoni, simili a eserciti di diversi generi … i quali hanno ricevuto il potere sulle vicende e sui disordini della terra”. L’eliocentrismo si presentava così nel suo significato rivoluzionario più profondo e misterioso, collegato in modo diretto alla sua semplice immagine astronomica, la quale si diffuse in tutt’Europa poco dopo, nel 1514, con il Commentariolus di Copernico.
Questo breve testo, nella cui stesura sono contenuti schematicamente i sette assiomi posti a fondamento del modello astronomico ermetico, venne subito valorizzato dalle aristocrazie antiaristoteliche ed antipapali, perché immagine razionale del loro culto esoterico e sovversivo. Non per niente, Giordano Bruno, noto conoscitore e sperimentatore dell’aspetto magico dell’eliocentrismo e della forza erotica e generatrice del Sole centrale, aveva fatto appena in tempo a rimproverare Copernico di aver considerato il sistema eliocentrico in senso profano, ossia dal solo punto di vista astronomico, tralasciandone le sue accezioni e potenzialità occulte, in grado di fornire la chiave criptica per dominare le forze invisibili dell’universo.
Da parte sua, anche Keplero, nel suo, Misterium cosmographicum, accusa l’astronomo-medico di Toruń «di aver trascritto misure prese da chiunque, in varie epoche e senza curarsi della loro affidabilità, ma badando solo che esse facessero brillare l’ipotesi eliocentrica»[2]. Questa ulteriore autorevole critica mette a fuoco, ancora una volta, aspetti poco citati e valutati della teoria eliocentrica, i quali dimostrano che la sua adozione non ebbe motivazioni scientifiche, ma scaturì da oscure operazioni, in grado di attrarre e concentrare la ragione umana intorno ad un’idea, dandole lo stesso peso della realtà, deviando il naturale processo dell’apprendimento, che dai sensi, prima che dall’idea, trae tutte le nozioni fondamentali della conoscenza.

Quando l’eliocentrismo fece il suo ingresso trionfale nella ragione umana, condotto dal carro della scienza, come per incanto, ogni suo significato metafisico e pseudo religioso finì sotto il ponderoso tappeto della formalizzazione scientifica. Ma non per questo, esaurendo la sua erompente forza rivoluzionaria. Tuttavia, perché si manifestasse come trofeo ai suoi propugnatori, in segno di conquista, così come un tempo si piantava la Croce nei luoghi più impervi, esso doveva essere intronizzato in un luogo eccelso, inaccessibile, impenetrabile, se non con l’inganno. Quale altro, se non San Pietro, in Roma?
E proprio un senso plastico ed architettonico del modello eliocentrico, sembra aver preso forma velata in tale splendida Piazza, nel 1657, “sotto i baffi” e per commissione dispendiosa degli stessi Papi che concordemente avevano condannato tale sistema astronomico. Infatti, si dice che il grande Bernini avesse pensato di dare alla piazza la forma ellissoidale, del tutto innovativa per il suo tempo, per fornire una immagine plastica, sebbene adombrata, delle leggi planetarie eliocentriche da poco scoperte da Giovanni Keplero[3]. Del resto, a ben vedere, l’obelisco solare proveniente da Eliopoli, posto al centro della piazza, le pietre di marmo poste una alla sua destra e l’altra alla sua sinistra, come le due fontane sempre attive, sono elementi che effettivamente sembrano richiamare le leggi kepleriane.
Bernini era un artista all’avanguardia, del tutto degno della fama che lo circondava. È molto probabile quindi che le aristocrazie antipapali che agivano sottobanco, in quel clima politico e religioso controverso, non si siano lasciate scappare di mano un esponente così valido dell’arte rinascimentale. Egli poteva realizzare quel progetto impossibile ad altri. Ossia, la riproduzione nella piazza più importante del mondo e centro della Cristianità, del culto egizio del Sole-Lucifero, beffando nel contempo quelle gerarchie che tanto avevano avversato tale dottrina e quanti la sostenessero.
Egli era in possesso di tutte le nozioni necessarie per realizzare tale opera, tale impresa, tale scherno. Conosceva intimamente l’astronomo gesuita Nicola Zucchi, amico di Keplero. La stima reciproca tra questi due personaggi era tale che quando Keplero attraversò un periodo di difficoltà, Zucchi non esitò a donargli il suo telescopio. È molto probabile quindi che il Bernini venisse informato anche da questo gesuita del lavoro rivoluzionario di Keplero, della sua interpretazione pitagorica del mondo, della musica dei pianeti, della forma ellittica delle orbite planetarie coronanti il Sole.
Il Bernini inoltre era uno stretto collaboratore di un altro illustre gesuita, Athanasius Kircher, con il quale collocò su disposizione del Vaticano diversi monumenti ed obelischi in Roma. Kircher, abile nell’interpretazione dei geroglifici, era un autorevole cultore della religiosità egizia che, al pari di Giordano Bruno, riteneva la fonte di tutte le religioni, compresa quella ebraica. Secondo la Yates, «Kircher praticò certamente qualche forma di magia naturale, al pari dell’altro gesuita, Del Rio, da lui spesso citato nelle sue opere»[4].  
Gli strani atteggiamenti di quei singolari religiosi di un tempo, sembrano precorrere quelli di oggi. È infatti noto che nel 2010 e nel 2011, in Arizona, i gesuiti hanno assegnato a due nuovi radiotelescopi del Vaticano i nomi di Lucifer 1 e Lucifer 2, cercando di ricondurre tale discutibilissima scelta, invece che ad un omaggio all’angelo decaduto, come potrebbe sembrare agli ingenui al pari di chi scrive, all’acronimo “Large Binocular Telescope Near-infrared Utility with Camera and Integral Field Unit for Extragalactic Research”. Essi avrebbero peraltro potuto scegliere dalla stessa proposizione una sigla meno allarmante, ad esempio LIFE.

Il colonnato di Piazza San Pietro potrebbe dunque raffigurare non solo l’orbita della Terra intorno al Sole, rappresentato dall’obelisco centrale, rispetto ai pianeti esterni, come afferma Bauval, ma anche i significati reconditi di questa riproduzione. In particolare, l’obelisco assumendo l’aspetto simbolico del Sole visibile, esprimerebbe anche quello di Sole invisibile, celebrato dagli esoteristi. Occorre inoltre ricordare che gli obelischi, al di là del loro indiscutibile valore storico e plastico, possiedono una concreta valenza erotica, ben nota in ambito esoterico. Essi difatti poiché rappresentano simbolicamente il membro maschile, di norma sono posizionati all’interno di forme circolari, o di fronte a cupole, che raffigurano l’organo femminile, riproponendo così in modo allusivo il culto della ierogamia degli opposti, il cielo e la terra, l’unione trasgressiva di Osiris ed Isis, il peccato che darebbe luogo alla redenzione.
È nota il mito egizio di Osiride, che sposò sua sorella Iside. Da questa unione nacquero Horus ed Anubi. Ma Set, altro fratello dei due sposi, uccise Osiride, per impossessarsi della sua parte di trono. Per evitare che risuscitasse, tagliò il corpo in 14 pezzi, che sparse per l’Egitto. Iside riuscì a recuperarli tutti, tranne il membro, divorato dai pesci. Sostituì allora la parte mancante con una di pietra, intorno alla quale i sacerdoti egizi istituirono un culto ed una festa rituale.
Essi credevano infatti che in prossimità dei solstizi e degli equinozi, «lo spirito del Dio-Sole penetrasse quelle pietre; tali ricorrenze venivano celebrate con offerte di sacrifici umani. Le vittime erano probabilmente prigionieri di guerra e gente straniera; in assenza di essi è probabile che i sacerdoti attingessero dalla popolazione nativa»[5]. Per tali pratiche aberranti, Dio condannò ripetutamente il culto verso questi pali sacri, insieme alla religiosità idolatrica egizia. In Geremia, ad esempio, leggiamo che il Signore: «Frantumerà gli obelischi del tempio del sole nel paese d’Egitto e darà alle fiamme i templi degli dei d’Egitto» (Ger 43, 13).
L’obelisco eliocentrico di Piazza san Pietro, proveniente da On, è probabilmente uno di quei pali intorno ai quali venivano celebrate pratiche immonde, i cui residui macabri sono stati certamente neutralizzati dall’antico esorcismo papale. Tuttavia, è anche possibile che esso, col tempo, possa aver perduto efficacia, e che l’idolo sia tornato a svolgere il suo ruolo dissacrante. Si pensi ad esempio al 14 novembre 2014, quando tre propagandiste del movimento Femen, in piazza S. Pietro, a seno scoperto, prima di essere trascinate via dalle forze dell’ordine, si sono inginocchiate di fronte all’obelisco, mimando gesti osceni con un crocifisso, esibendo sulla schiena la scritta blasfema «Keep it inside».
Del resto, la Chiesa di oggi non prega più come la Chiesa di ieri. Il Salterio moderno è stato espunto da tutti i Salmi cruenti, delle loro invettive e maledizioni pronunciate verso i nemici, come segno di minaccia e protezione divina. I Salmi “purgati” sono molti: il 5, 20, 27, 34, 39, 53, 54, 55, 58, anche il salmo 62 delle feste è stato espunto della parte finale, e poi il 68, 78, 109, 136, 138, 139, 140, 142. Quelli addirittura radiati integralmente sono tre: il 57, il salmo 82, il 108.
Il Breviarium Romanum inoltre era composto da una sola settimana, nella quale si recitavano tutti i Salmi in latino ed era suddiviso in sette ore canoniche: Mattutino-Lodi, le Ore di Prima, terza, Sesta, Nona, Vespri e Compieta. Quello in lingua corrente, attualmente in uso, è suddiviso in quattro settimane, durante le quali sono distribuiti i Salmi, tranne quelli espunti e le parti censurate. Ogni giorno allora si recitavano 35 Salmi, oggi meno della metà: 14.
Di certo, non è la quantità della preghiera che automaticamente può influenzare la misericordia divina, la quale può essere scossa da un solo sospiro. Tuttavia, venendo meno la forte resistenza spirituale espressa dalla preghiera liturgica, proclamata in tutto il mondo in latino, svilita dagli ammodernamenti e aggiornamenti della Liturgia e della dottrina, dalla sempre più grande avversione verso le forme tradizionali di culto alla luce di un nuovo sincretismo religioso, come per un effetto indotto, si sono aperte, dall’interno, le porte alle forze antinomiche, che tuttora bazzicano i Sacri Palazzi.
Sono infatti davanti agli occhi di tutti le conseguenze previste e propiziate dai pitagorici di altissimo livello, ben mimetizzati nel gregge, ma sempre segretamente impegnati nell’edificazione della città dell’uomo, la campanelliana città del Sole, nuova Eliopoli mondiale, sottoposta all’erotico Lucifero. Se non fosse per Dio, che accelererà la fine dell’abominio, come ha dichiarato il divino Maestro, a conclusione del versetto inizialmente citato, grazie alle preghiere degli eletti ed all’intercessione del Cuore Immacolato di Maria.





[1]Cfr, Controstoria dell’eliocentrismo, Aracne Editore, Albano 2016.
[2] A. M. Lombardi, Keplero, Codice edizioni, Torino 2008, p. 33.
[3] Cfr. R. G. Bauval e G. Hancock, Le Città sacre e la Fede segreta, ed. Corbaccio, 2004.
[4] F. Yates, Girdano Bruno e la magia ermetica, Ed. Laterza, Roma-Bari 1995, p. 453 e n. 93.
[5] E.A. Wallis-Budge's notes on Ra/Re, in Medici Society reprint of The Book of the Dead, University Books, Secaucus, New Jersey 1960.

domenica 12 febbraio 2017

MASSONI ANONIMI




Nelle sfere delle alte iniziazioni, si crede che un uomo il quale, pur non essendo massone dichiarato, condivida ed appoggi anche inconsapevolmente i principi della massoneria, possa definirsi un “massone senza grembiule”. Una sorta di applicazione del detto evangelico: “chi non è contro di noi è con noi (Mc 9,40). Albert Pike, 33° del Rito Scozzese, «satanista di Boston, incallito praticante della magia nera»[1], affermò infatti: «Si incontrano molti massoni che non si sono mai sottoposti all’iniziazione». 
Massoni anonimi, “senza grembiule” vengono dunque considerati quanti, pur non essendosi sottoposti a nessun rito di affiliazione ad una loggia, condividono comunque le derivazioni dei noti principi laicisti di libertà, uguaglianza, fratellanza, propugnati ai quattro venti dalla rivoluzione del 1789, che rappresentano i cardini della nostra mentalità comune.
Massoni senza iniziazione siamo quindi tutti noi, in possesso di convinzioni in varia misura emancipate, filantropiche, cosmopolite. Noi moderni, di destra e di sinistra, conservatori e progressisti, che proclamiamo comunque la solidarietà, la tolleranza religiosa, il rispetto della personalità umana, la libertà di coscienza, etc., stimolati ad accogliere uomini di ogni credenza, nazionalità, tradizione, di ogni razza, qualunque siano le loro opinioni politiche e religiose, purché liberi e di buoni costumi.
La massoneria difatti si pone al di sopra di tutte le religioni e di tutte le chiese, accogliendole al suo interno, senza distinzioni. Essa così intende esercitare una sorta di unificazione degli uomini, qualunque concezione particolare essi abbiano sulle problematiche religiose, sociali, politiche. Questo perché tale consorteria dichiara di aver sempre accolto al suo interno: «indistintamente monarchici e repubblicani, conservatori e progressisti, cristiani ed ebrei. Vi troviamo infatti patrioti come Giuseppe Mazzini, il quale nel 1868 ebbe l’aumento di luce del 33° grado scozzese da parte del Supremo Consiglio di Palermo, e Giuseppe Garibaldi, che fu iniziato a Montevideo nel 1844»[2].
Come dicevamo, all’interno di questo panteon ideologico e religioso, senza mura, ci troviamo anche noi, impregnati fino alle midolla di ideali laicisti. Chi infatti sarebbe propenso ad un ritorno agli ideali pre-risorgimentali, alla Chiesa gerarchica, al potere temporale dei Papi, all’intransigenza religiosa? Chi darebbe ancora ragione a Papa Pio IX, al suo desueto non expedit …, ossia non conviene ai credenti prestare la loro partecipazione alle attività politiche del Regno d’Italia?
Questo santo Pontefice, che venne esautorato con la forza dal potere temporale, era tuttavia ben consapevole che se il governo dello Stato fosse stato affidato ad istituzioni puramente laiche, sarebbe crollato su di sé, perché internamente instabile e corrotto. Senza il riferimento timoroso a Dio ed il rispetto dei suoi precetti, la morale difatti non possiede fondamenti certi ed inviolabili, ed anche l’etica diviene relativa. Pio IX era quindi profondamente convinto della necessità del potere temporale del Pontefice, perché la Chiesa potesse esercitare in modo autonomo l’azione di redenzione universale attribuitole da Cristo. Egli difese fino all'ultimo il diritto di governare effettivamente un proprio regno, come legittimo Re. Ma gli eventi seguirono un andamento assai diverso.
La storia è nota. Il 20 settembre 1870, nell’equinozio d’autunno, data cara alle officine massoniche, l’ufficiale Giacomo Segre, oggi sepolto nella zona ebraica del cimitero di Chieri Torinese, diede l’ordine di far fuoco contro Porta Pia, incappando così nella scomunica che Pio IX aveva proclamato contro chi avesse ardito esplodere il primo colpo contro le mura pontificie. Essendo ebreo, la scomunica non poteva coglierlo più di tanto. Gli ufficiali cattolici, per quanto divenuti anticlericali, non se la sentirono di sparare per primi. Semmai, qualcuno di essi portava in tasca gelosamente crocifissi e rosari regalatigli dalla mamma o dalla nonna.
Scrivendo sulla “Questione Romana”, Gramsci spiegò: «Porta Pia non fu che un episodio meschino, militarmente e politicamente. Militarmente non fu che una grottesca scaramuccia … Porta Pia rassomiglia, in piccolo, a Vittorio Veneto. Porta Pia fu la piccola, facile vittoria dell’aggressore enormemente superiore all’avversario inerme, come Vittorio Veneto fu la facile vittoria contro un avversario che militarmente non esisteva più. Porta Pia fu semplicemente l’ultimo episodio della costruzione, violenta ed artificiale, del Regno d’Italia. Tutto il resto è chincaglieria retorica. Le belle frasi Terza Roma sono completamente vuote di senso».

Molti anni sono trascorsi da quella fatidica data, che segnò la conferma di tutte le scomuniche rivolte ai fondatori dell’attuale stato laico, liberale, emancipato. Ma i tempi sono molto cambiati da allora, al punto che la Chiesa di oggi ha dimostrato di aver cambiato radicalmente posizione, circa il principio laicista dell’etica sociale fondata su una morale comune, non necessariamente legata alla religione cattolica.
Il 27 ottobre 1986, Giovanni Paolo II convocò ad Assisi i rappresentanti delle maggiori religioni del mondo. Tutti i partecipanti pregarono il loro Dio, a favore della pace, secondo le formule specifiche della loro religione, senza disprezzare e senza voler predominare sulle altre, in un atteggiamento di profondo rispetto delle reciproche diversità. Questa stessa regola, come accennavamo in precedenza, è proclamata all’interno delle logge massoniche, nelle quali: «Ciascuno è libero di portare all’interno del lavoro massonico le sue convinzioni religiose, così come ciascun rappresentante religioso ha portato le sue convinzioni all’incontro di Assisi»[3].
La nostra Chiesa sembra quindi inspiegabilmente convergere sul principio esposto nella cosiddetta “bibbia” della massoneria, Morals end Dogma, scritta dal sopra citato 33°, Albert Pike. Il quale affermò che nelle officine massoniche: «il Cristiano, l’Ebreo, il Mussulmano, il Buddista, il seguace di Confucio e Zoroastro possono unirsi come fratelli e accomunarsi nella preghiera al solo Dio che è al di sopra di tutti gli dei»[4]. Chiesa e Massoneria, a tutti gli effetti, oggi: «esprimono stessi concetti, stessa sollecitudine, stessi obiettivi: la tolleranza nel rispetto reciproco motivato dalla condivisione di finalità universalmente condivisibili»[5].

In questo clima di dichiarata pace e fratellanza universale, che intenderebbe abbracciare tutti gli uomini, restano tuttavia esclusi quanti si riallacciano alla Chiesa di sempre. Quella oggi considerata “antica” e quindi superata. Tuttavia, chiara nelle sue posizioni, nelle sue condanne, nelle sue scomuniche, essendo governata da Pontefici che non hanno temuto la censura delle piazze, né da vivi, né da morti. Si pensi allo stesso Pio IX, il cui corteo funebre, che di notte trasferiva le sue spoglie da San Pietro a San Lorenzo fuori le mura (1881), venne assalito da massoni al grido di: «Al fiume il papa porco».
Ma i toni accesi di allora, oggi si sono mitigati. Così che la Chiesa di Pio IX e quella attuale, sembrano essere due entità diverse, addirittura inconciliabilmente contrapposte nei loro proclami, nella loro prassi, nella liturgia e nella lingua. Il Papa del Sillabus, del dogma dell’Immacolata Concezione e dell’infallibilità papale, sembra difatti essere estraneo, se non proprio nemico, della Chiesa d’oggi, più di quanto lo fossero i nemici di un tempo, oggi per molti versi confluiti in Essa, attraverso inavvertite fenditure, che inevitabilmente hanno consentito un abbattimento delle antiche mura ed una occupazione anche spirituale della Roma felix.
Il mondo, avendo allentato il legame con le Intelligenze separate che lo governano, ed avendo di conseguenza ridotto al minimo le sue protezioni spirituali, è sempre più pericolosamente esposto ad un processo di decadimento e di autodistruzione indotto dall’azione delle potenze avverse. I cristiani praticanti, legati alle forme classiche di pietà ed alla sacra Liturgia, sono sempre più perseguitati, spesso emarginati all’interno delle loro stesse comunità. Chi non si adegua agli aggiornamenti ecclesiali, resta fuori di fatto, segnato con il marchio del tradizionalismo, che tuttavia rappresenta il segno vivente della gloria divina che agisce come il sale evangelico nella storia umana.
Questo è successo ai Frati di Frigento, i più agguerriti avversari della Massoneria, molto angariati dalle autorità del Vaticano, per il loro attaccamento alle forme liturgiche preconciliari, che tanto fastidio producono negli avversari. Questo succede a quanti si pongono legittimi interrogativi verso l’attuale Pastorale che per molti aspetti sembra far confluire, fino a confondere Chiesa e mondo.
Signoreggiano invece all’interno della comunità ecclesiale proprio quei cristiani divenuti, inconsapevolmente, massoni “senza grembiulino”. I quali procedono senza ripensamenti verso la definizione della nuova chiesa, allontanandosi per forza di cose da quella dei loro padri: assolutista, inflessibile, chiusa alle esigenze del mondo. Proprio quella Chiesa che ha generato gloriosi santi e fondatori. Come don Bosco, fervente antimassonico, zelante consigliere, collaboratore e difensore dell’ultimo Papa Re, oggi, da questo punto di vista, reputato retrogrado e sorpassato dagli stessi Salesiani.
Certo, dicevamo, quelli erano altri tempi. Ma questo basta a spiegare le strane convergenze della Santa Romana Chiesa con la Massoneria universale? Consorteria che, dal 1738 fino al 1960, tutti i Pontefici, evidentemente non senza ragione, indicavano e trattavano come acerrima nemica. Oggi tuttavia inspiegabilmente sparita dalle cronache ecclesiali e non. Proprio come se non esistesse.





[1] P. Haining, Maghi e magia, Ed. Mediterranee, Roma 1977, p. 61.
[2] W. Anceschi, La Massoneria iniziatica, Ed. Rebis, Viareggio 2002, p. 80.
[3] M. Biglino, Chiesa Romana Cattolica e Massoneria, realmente così diverse?, Collegno 2009, p. 38.
[4] A. Pike, Morals end Dogma, Ed. Bastogi, Foggia, 1986, III, p. 153.
[5] M. Biglino, ib.

sabato 14 gennaio 2017

SAN PAOLO E I DEMONI



Quando san Paolo giunse a Pozzuoli da Malta, sfinito da un ulteriore viaggio pieno di peripezie, venne invitato a fermarsi una settimana in quello che prima di Ostia era stato il porto di Roma. A pochi passi dal mare, si trovò di fronte ad un tempio dedicato a Serapide, divinità solare di matrice greca, ma di genesi egizia. Come ad Atene, egli dovette “fremere nel suo spirito” vedendo anche questa città piena di idoli (cfr. At 17, 16). Tuttavia, pur debilitato dall’estenuante attività apostolica descritta nell’ultimo capitolo degli Atti, Paolo non si perse d’animo e ben presto si rimise in marcia verso Roma, per riprendere la predicazione contro la falsa religiosità dei pagani, in particolare quella rivolta all’idolo solare, che egli conosceva molto bene, provenendo dalla Cilicia, la terra di Mitra.
Altrettanto bene aveva imparato a conoscere le persecuzioni che toccavano a chi si poneva contro le radicate superstizioni pagane. A Efeso gli si erano sollevati contro gli orafi costruttori delle statue di Diana-Artemide, protettrice delle prostitute, in crisi di affari perché la loro divinità stava soccombendo inesorabilmente di fronte alla predicazione dell’Apostolo ed il conseguente diffondersi della dottrina cristiana, che non lasciava spazio ad alternative o a strane vie di mezzo, e che quasi imponeva la fatidica scelta: o con Cristo, o contro Cristo. Molti efesini infatti avevano confessato pubblicamente il loro ricorso alle pratiche magiche e spontaneamente avevano dato fuoco a tutti i libri di magia nera in loro possesso il cui valore complessivo ammontava a cinquantamila dramme d’argento (cfr. At 19). Una somma considerevole. Nell’Attica, la dramma d’argento corrispondeva alla paga giornaliera di un lavoratore generico. Dunque, cinquantamila giornate di lavoro. Più di una decina d’anni lavorativi di un operaio.
Paolo, come tutti gli altri apostoli, sostenne con chiarezza e senza tanti distinguo, l’insanabile opposizione fra il culto rivolto a Cristo e quello dedicato ai demoni. Chi non venera Cristo, venera gli idoli: «I sacrifici dei pagani sono fatti a demoni, e non a Dio. Ora, io non voglio che voi entriate in comunione con i demoni; non potete bere il calice del Signore e il calice dei demoni; non potete partecipare alla mensa del Signore ed alla mensa dei demoni» (1 Cor 10, 19 -22). Altrove, aggiunge: «Quale rapporto infatti ci può essere tra la giustizia e l’iniquità, o quale unione tra luce e tenebre? Quale intesa fra Cristo e Beliar, o quale collaborazione fra un fedele e un infedele? Quale accordo tra il tempio di Dio e gli idoli? Non siamo infatti il tempio del Dio vivente?» (2 Cor 6, 13-16).
A proposito della sua volontà di recarsi in Tessalonica, ove lo attendevano nuove comunità cristiane, Paolo sperimentò in modo evidente l’azione contraria del maligno, che fece di tutto per impedirgli quel viaggio apostolico: «Quanto a noi fratelli … abbiamo desiderato una volta, anzi due volte, proprio io Paolo, di venire da voi, ma Satana ce lo ha impedito» (1 Ts 2, 18). Anche su questo tema, San Paolo evita qualunque divagazione. Non è un dotto, ma un apostolo. Se parla è per mettere in guardia i suoi discepoli circa il potere reale di seduzione del maligno, che egli conosce bene. Ma dal quale è altrettanto conosciuto: «Conosco Gesù e so chi è Paolo, ma voi chi siete?», domandò lo spirito avverso ad alcuni esorcisti ambulanti giudei, prima di metterli in fuga per mano di un indemoniato, coperti di ferite ed addirittura nudi (At 19, 13).
Il maligno, proprio perché sostanzialmente ingannatore, è tuttavia così abile da dissimulare la propria natura, prendendo le sembianze della divinità che vorrebbe adombrare. Per ingannare gli uomini ed indurli nell’errore e nel peccato, «Satana, di cui non ignoriamo le macchinazioni … si maschera da angelo di luce» (2 Cor 2, 11 e 11, 14).

S. Paolo indica con estrema efficacia il pericolo derivante dai falsi culti, anche se lo fa in modo formalmente diverso dal suo Divino Maestro, capace di affascinare le folle con efficaci, suggestive e sintetiche parabole. Nelle sue Lettere, l’Apostolo in genere non utilizza un linguaggio attraente, poetico, allusivo come quello del Vangelo. Egli non evoca nemmeno immagini profetiche, tremendi «sigilli» da sciogliere, significati chiusi tutti da interpretare, come è in grado di fare l’apostolo Giovanni, nel misterioso libro dell’Apocalisse.
Lo stile di Paolo, a parte gli straordinari slanci cristologici, non è immediato. Ma dimesso, discorsivo, non suggestivo. A volte, apparentemente contorto, se non proprio “noioso”. Tuttavia, nessuno fra gli apostoli è più vicino a Cristo di quanto lo sia Paolo. Nessuno si identifica totalmente a Cristo, al punto da dire: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me». Nessuno condivide come lui la passione e la croce del Signore: «Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2, 20). E più avanti prima di concludere bruscamente la lettera ai Galati, «O stolti Galati, chi mai vi ha ammaliati!» (3,1), afferma: «Io porto le stigmate di Gesù nel mio corpo» (6, 17).
Ebbene, San Paolo, così partecipe della croce ed della gloria di Cristo, ha indicato quale fossero i veri nemici contro i quali combattere: «La nostra battaglia non è contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti» (Ef 6, 12). Questa affermazione dimostra l’incomparabile intelligenza spirituale di colui al quale «è stata concessa la grazia di annunziare ai Gentili le imperscrutabili ricchezze di Cristo» (Ef 3,8). Intelligenza che trascende decisamente i limiti degli effetti contingenti, per giungere alla causa metafisica degli eventi.
San Paolo infatti, in virtù della particolare esperienza di Cristo, culminata con il rapimento estatico al terzo cielo, in paradiso, ove «udì parole indicibili che non è lecito ad alcuno pronunziare» (2 Cor 12, 4), non può che amplificare la portata temporale del «mysterium iniquitatis» già in atto (2 Ts 2, 7), non riferendolo ad uomini in particolare, ma riconducendolo alla sua vera e sola essenza: «il principe delle potenze dell’aria, quello spirito che opera negli uomini ribelli» (Ef 2,2). L’Apostolo lascia intendere che i potenti di questa terra sono a loro volta sottoposti ad un potere superiore, metafisico, costituito da quegli spiriti dell’aria ai quali sono rivolti i culti ed i sacrifici che essi celebrano. A tale potere è soggetto non solo chi partecipa, ma anche chi consenta siano celebrati tali culti illeciti. 

Anticamente, era assai diffusa la credenza «che un fanciullo o gruppi di fanciulli impuberi potessero costituire i migliori depositari di rivelazioni, di sogni e di doni divinatori». Credenza avvalorata dal fatto che nell’antica Roma esistevano i «pueri magici», che i sacerdoti inducevano alla trance o al sonno magico: «Quando uno spirito è evocato nessuno ha il potere di vederlo se non fanciulli di undici e dodici anni d’età o tali che siano davvero vergini»[1].
Sant’Agostino esamina tali credenze e pratiche evocatorie rivolte a dei e demoni, nella Città di Dio. Egli riporta l’opinione comune, affermata in modo speciale da Apuleio, riguardo alla realtà animata, ordinata in tre classi: «Dei, uomini e demoni. Gli dei occupano la posizione più eminente, gli uomini l’infima, i demoni quella di mezzo; infatti, la sede degli dei è il cielo, quella degli uomini la terra, quella dei demoni nell’aria» (Libro 8, 14). I demoni stanno fra gli uomini e gli dei e fungono da intermediari. Ed in quanto tali vanno propiziati attraverso cerimonie magiche e mediante l’offerta di opportuni sacrifici. Aggiunge tuttavia il santo d’Ippona: «Essi sono invece spiriti pieni del desiderio di nuocere, totalmente alieni dalla giustizia, gonfi di orgoglio, lividi d’invidia, astuti nell’inganno; abitano nell’aria, perché abbattuti dalla sublimità del più alto cielo come punizione di una trasgressione irrimediabile e condannati a questa specie di carcere a loro conveniente» (L. 8, 22).
Questi stessi demoni vengono unanimemente indicati dagli esperti in esoterismo, come i veri governatori delle sette segrete. Pierre Mariel, ad esempio, concluse che queste consorterie occulte: «obbediscono tutte (ed i veri Superiori lo sanno) ad un’unica direzione. Esistono (al di sopra delle divergenze apparenti) Superiori Sconosciuti, raggruppati in un Centro del Mondo, che sono i direttori d’orchestra in quest’insieme, dove ogni società è uno strumento docile e ben accordato»[2]
Tali «superiori sconosciuti», «daimon» per intenderci, ancora presenti e più che mai attivi in mezzo a noi, rappresentano quegli spiriti del male sparsi nell’aria, contro i quali San Paolo guerreggiò senza riserve. E contro i quali non ci resta che combattere, in senso paolino, «sino alla fine e rimanere in piedi, padroni del campo» (Ef 6, 13). Del resto: «le guerre sono vinte da coloro i quali hanno saputo attrarre dai cieli le forze misteriche del mondo invisibile e sanno assicurarsene il concorso»[3]. E solo i cristiani hanno dalla loro parte il favore incondizionato delle potenze angeliche, le quali non aspettano che essere invocate in ogni occasione, «opportune, importune» (2 Tm 4, 2), per intervenire in loro favore.






[1] F. M. Dermine, Mistici, veggenti e medium - Esperienze dell’al di là a confronto, Libreria Editrice Vaticana, 2002, p. 99.
[2] P. Mariel, Le società segrete che dominano il mondo, Firenze, 1976, p. 207.
[3] in F. Belfiori, San Paolo, Volpe Editore, Roma, 1971, p. 12.