L’EREMO
SULLA COLLINA
Il treno correva verso il Monregalese,
lasciando indietro periferie e case sparse. Di fronte, l’arco delle montagne,
sempre più vicino. Paesaggio in movimento, eppure stabile. Tempo che passa, restando
impresso, oltre il cielo. Il ragazzo balzò giù, alla stazione di Pogliola.
Mancava poco a mezzogiorno. Il sole splendeva, sulla campagna, sui calanchi
lontani. E la sacca, coi libri, pesava. Pensava che una settimana di studio nell’eremo
sarebbe bastata, per superare l’ammissione al concorso. Quello era il suo
piano, la piega che voleva dare alla vita. Egli non sapeva che gli era
riservato qualcosa di ben più importante.
Tornava
ogni anno nell’eremo di San Biagio, appena libero dalle supplenze, coniugando,
come possibile, la lotta di classe al mistero di Dio. Procedendo a piedi in
quella stradina, vedeva le creste della terra che iniziava a ondeggiare,
nell’infittirsi della vegetazione, sopra il Pesio. Riconoscendo luoghi noti, riaffiorano
momenti obliati. Infatti, d’improvviso, gli apparve l’eremita, nell’orto, chino
a raccogliere l’insalata per la cena. Il sole calava, dietro la fila dei pioppi
e un’aria tiepida saliva dalla terra smossa, insieme ai muggiti delle frisone,
che trotterellavano verso la stalla. Il ragazzo con barba e capelli lunghi quella
sera gli chiese che cosa fosse l’anima. Raddrizzatosi a fatica, infilando, fra
scapolare e cinghia di cuoio, foglie tenere di cappuccina, il trappista cercò
di spiegare il problema dei problemi: «L’anima è immortale, ma questo corpo non
ancora. Il corpo eterno corrisponderà alla perfezione raggiunta dall’anima in
questa vita, che è unica e decisiva per la nostra salvezza».
Il giovane
non riusciva ad afferrare quei concetti così naturali per il monaco. Lo seguiva
a fatica, più di tutto attratto dal suo sguardo chiaro, che oscillava nel
cielo, dietro al volo delle rondini, in cerchio su di essi. Egli non aveva alcuna
concezione di Dio. Credeva in un vago spirito presente nella natura, ma niente
di più. Nemmeno immaginava che Dio potesse essere persona reale, e avere un
corpo identico al nostro, benché infinitamente perfetto. Lo imparò in seguito,
conquistato dal Cristo.
Quando
giunse nell’eremo, Padre Filiberto gli rivelò subito la sua idea di tracciare
un sentiero, che dal Pesio salisse la collina. Voleva mettere dei sedili su per
la riva: tronchi poggiati per terra, sufficienti, per chi volesse rimontare il
bosco e raccogliersi, nel silenzio, sull’altura. Alle prime luci dell’alba, i
due erano già sulla riva del torrente, cercando l’itinerario migliore per
risalire. I fiumi, per scendere a valle, applicano la legge del gradiente, scegliendo
la via più ripida e breve. Loro, per risalire, avrebbero dovuto fare il
contrario.
Camminavano
sotto l’erto calanco, studiando un tracciato possibile. A un tratto, il monaco
si fermò, indicando uno slargo naturale tra i frassini. Con voce energica, fece
segno: «Partiremo da qui». Lo disse, passandosi l’altra mano sulla testa
rasata. Gli mancava la falangetta dell’indice. Il ragazzo stava per chiedere: «Com’è
successo?». Ma non osò. Tuttavia, pensava fosse più semplice tracciare un
sentiero in un bosco, su una collina. Credeva bastasse salire da una parte
qualsiasi. Capì, invece, com’è difficile, e pieno di responsabilità, ogni
inizio, la nascita di qualunque cosa, il primo passo.
Quel
sentiero nel bosco, delineato anni prima con l’eremita, corrispondeva ad un
percorso interno alla coscienza, tracciato in un tempo precedente al tempo, che
il giovane avrebbe scoperto in se stesso. Quel tragitto, già definito in lui, lo
avrebbe infatti condotto verso la cima, a contatto col cielo, ove una sua parte,
inconsapevolmente, già riposava. Per scoprirla, e vivificarla alla luce della
coscienza rinata, avrebbe dovuto spezzare il tempo, sfuggire dagli anni
irresponsabili nei quali, sballottato dagli eventi, non riusciva ad opporre
nessuna resistenza, alcun freno al piacere.
L’eremita
lo aiutò gradualmente a definire questa scoperta, a concepire il gusto della purezza.
Senza troppe parole. Quando a sera, sfiniti, si sedevano sul gradino, a lato
del pronao. Guardavano, allora, la strada sterrata che porta alla frazione. I
contadini che riconducevano le frisone nella stalla. I cani in corsa, pronti ad
abbaiare alle mucche più lente. Mentre, sopra tutto, nel crepuscolo, tremavano
le prime stelle.
Padre Filiberto ora è
nella Gloria. Dopo avere tracciato il sentiero per risalire la collina,
progressive croci l’han definitivamente inchiodato a quel cielo pieno di
rondini, contemplato, in silenzio, sul gradino, nei tramonti arrossati. Ma
l’Eremo c’è ancora. Ci batte il sole. Ci cade la neve. Le rondini fanno ancora
i nidi, sotto i tetti tondi delle absidi. Anche intorno, la campagna è la
stessa, i corvi, i pioppeti, la cascina coi contadini che urlano alle mucche,
mentre il sole compie il suo corso. Soltanto lui manca, l’amico eremita.
Però, a
volte, compare. Nei momenti inattesi. È come se una voce dicesse qualcosa,
senza farsi sentire. Come se qualcuno stesse chiamando, da un luogo
indefinibile. Quando capita, è meglio lasciar perdere tutto. E tornare su
quella collina, a un palmo dal cielo, rifacendo a ritroso il sentiero tracciato
a fatica in quegli anni lontani. Quando il trappista guardava, sorridendo
paziente, senza pretendere in alcun modo che quel giovane capisse tutto e
subito. Senza mai chiedergli di recitare formule in cui non credeva, o tentare
di convertirlo, atto che l’orgoglio giovanile avrebbe rifiutato senz’altro.
Il Padre
invece accettò volentieri lo schietto rifiuto di Dio, che il giovane entrasse
ed uscisse dall’Eremo a piacimento, disertando Messe e liturgie. Egli fece in
modo che non si sentisse obbligato a rispondere a quegli impliciti inviti,
perché proprio quell’obbligo avrebbe oscurato l’azione della Grazia, complicato
il processo di guarigione. Così, il ragazzo lo sentiva salmodiare da solo,
mentre scendeva le scale per andare nei boschi, o a stendersi sulla chiappa di
qualche collina, credendosi estraneo ai progetti di Dio.
Solo
adesso, si capisce perché l’eremita sorridesse a tutti i suoi ospiti, con
quegli occhi stretti e pungenti. Si capisce tutta la delicatezza usata, per non
urtare la scorza agnostica, per non dare pretesti alla resistenza dell’anima,
che si crede libera. Proprio quel sorriso benevolo, lo sguardo bonario, quella
inattesa complicità e comprensione, legarono infatti le nostre vite alla sua,
il nostro caos al suo cosmo, l’ignoranza alla Verità. Senza mai dirlo,
innestandoci alle sue preghiere, unendoci alla sua riparazione, trasferendo in
silenzio nelle nostre anime la Grazia che agiva nella sua, ottenne il
pentimento, la capitolazione, la caduta di Gerico.
Ognuno
ha un suo tempo, un modo diverso per risalire, per colmare la sua pena nascosta.
Lo insegnano gli alberi, le nuvole, i corvi. Il tempo infatti non si distingue
dall’io. Il passare degli attimi unifica mente e realtà, nello stesso modo con
cui l’ago conduce il filo in punti determinati di una stoffa, e non in altri,
formando un ricamo particolare e indelebile. Così, una mano invisibile lega la
nostra anima al mondo, giorno dopo giorno, caduta dopo caduta, secondo un
preciso disegno che, a volte, in qualche momento, ci sembra di intravedere. Tra
i fumi delle lontane praterie.
*
Dedicato a Filiberto Guala, manager torinese, che abbandonò la sua brillante carriera, per ritirarsi nel monastero trappista
delle Frattocchie. A metà degli anni settanta, avviò nell’eremo di San Biagio,
nei pressi di Mondovì, un’esperienza eremitica, aperta a chi volesse
condividere con lui il silenzio e la ricerca di Dio nella vita essenziale della
trappa.