La cultura
scientifica ha in un certo modo fatto prevalere l’immagine misurabile del
tempo, rispetto al significato trascendente ed al finalismo naturale implicito
in esso. A cominciare da Newton, che ne diede definizione famosa, ma incompleta
e indimostrata: “Il tempo assoluto, matematico scorre uniformemente …. Il tempo
relativo, apparente, volgare …“. Siamo d’accordo che questa definizione sia
sintetica <<ma che tale espressione sia chiara e, dal punto di vista del
fisico, anche soddisfacente, è questione differente>>, afferma R. De
Ritis.
Newton
definì il tempo assoluto, che scorre uniformemente senza alcuna relazione con
alcunché di esterno, e che viene generalmente denominato durata, senza
preoccuparsi di completare e di rendere più esplicita la sua definizione, dando
così luogo alla contraddizione. Se infatti il tempo assoluto newtoniano non è
in relazione con alcunché di esterno, esso non solo è indefinibile, ma anche
inconoscibile e non misurabile. Dunque, inesistente.
Newton
sorvola inoltre sulla definizione da attribuire alla durata, che di per sé è
legata alla misurazione. Ma se è legata alla misurazione il tempo assoluto è in
relazione con la misurabilità e con i misuratori. Dunque, in relazione con
l’esterno.
Le
contraddizioni implicite alla definizione di tempo fornitaci da Newton si
riversano anche nel fondamentale “principio di inerzia”: “Ciascun corpo
persevera nel proprio stato di quiete o di moto rettilineo uniforme, eccetto
che sia costretto a mutare quello stato da forze impresse”.
Osserva in
proposito Cassirer: <<Ma l’aporia che il sistema complessivo della
meccanica mantiene nella formulazione del principio di inerzia, finisce con
l’esprimersi in un circolo gnoseologico da cui per essa non sembra esservi
scampo>>.
Infatti, per
definire il significato del principio d’inerzia, è necessario ricorrere al
concetto di “tempi uguali”. Ma una misurazione fisica di “tempi uguali” è
ricavabile solo se si sia accettato la validità del principio di inerzia. Infatti,
la meccanica definisce “tempi uguali” quegli intervalli di tempo nei quali un
corpo abbandonato a se stesso percorre spazi uguali.
L’analisi
delle tecniche della misurazione degli intervalli di tempo effettuata da
Neumann, lo portò a considerare la legge di Galilei e gli stessi “intervalli
uguali di tempo” alla base di questa legge, in modo alquanto critico e
circolare. La legge di Galilei infatti stabilisce che un punto materiale
lasciato a sé stesso si muove non solo lungo una linea diritta, ma anche che
esso percorre una stessa distanza in eguali intervalli di tempo. Tuttavia, noi
non sappiamo cosa significhi “eguali intervalli di tempo”, se non in relazione
alla valutazione e misurazione dei segmenti temporali.
Fu Einstein
ad insistere sul carattere relativo della misurazione del tempo. In
particolare, nell’articolo che gli diede fama internazionale, egli diede un’interpretazione
del fenomeno della contemporaneità, dimostrando come il valore della
misurazione della contemporaneità non costituisca un assoluto, dal momento che
questo valore dipende dalle condizioni dinamiche del misuratore.
A tale
proposito, è interessante citare un’affermazione di W. L. Craig: <<Trovo
sorprendente che la lettura del saggio di Einstein del 1905 possa indurre qualcuno
a pensare che Einstein abbia dimostrato che la simultaneità assoluta non esiste
e che, perciò, il tempo è relativo a una struttura di riferimento. Infatti,
tutta la teoria dipende dal fatto di accettare la definizione arbitraria di
simultaneità data da Einstein – in verità assai anti-intuitiva –, insieme a un
positivismo filosofico di origine machiana secondo cui la simultaneità assoluta
è priva di significato se non è empiricamente rilevabile … Chi non è
positivista, e quindi non accetta la definizione di Einstein, considererebbe
questi osservatori che si muovono con moto relativo come ingannati dalla natura
delle loro misurazioni, inadatte a scoprire il tempo vero. Costui non
considererebbe affatto, in senso vero e proprio la teoria di Einstein come una
teoria sul tempo e sullo spazio, ma, al modo di Frank, “come un sistema di
ipotesi sul comportamento di raggi luminosi, corpi rigidi e meccanismi, da cui
si possono ricavare nuove inferenze su tale comportamento”>>.
Per trovare
il criterio corretto che rispondesse a tali esigenze, postulò l’indimostrato
secondo principio di relatività, anche detto della costanza della velocità
della luce. La velocità della luce, così elevata a costante universale, unica,
insuperabile, rendeva possibile stabilire se due o più eventi fossero o meno contemporanei.
Nondimeno, è
evidente che se la velocità possedesse davvero un limite, allora il fenomeno
stesso della contemporaneità sarebbe come negato, perché reso funzione della
distanza. Col crescere della distanza infatti non potrebbe che aumentare il
tempo di propagazione del segnale emesso al verificarsi del fenomeno supposto
contemporaneo. Dunque, gli eventi non sarebbero più coesistenti. Il cielo
stellato sarebbe più un’illusione che una realtà. Infatti, quando un segnale luminoso
di una stella giunge ai nostri occhi, la stella non è più presente. Il suo
tempo non è come il nostro tempo, ma appartiene al passato. Ossia ad uno spazio
non reale.
Perché invece
la contemporaneità sia un fenomeno fisico universale, e non solo locale, e
l’universo stesso sia reale, è necessaria una velocità di trasmissione dei
segnali immediata. Ovvero, che la luce sia istantanea nella sua propagazione da
due punti distanti a piacere nell’universo. Se questo non avviene, le varie
parti che compongono l’universo non possono considerarsi compresenti, ma per
quanto più lontane, tanto più non contemporanee, ed appartenenti al passato, a
spazi non reali.
Il
tempo razionalizzato insomma oltre che sfuggire alle gabbie mentali che tentano
di imbrigliarlo, non può che comportare l’allontanamento dal fluire della
stessa temporalità reale, che Bergson chiamava “durata”, nella quale sono
immerse inevitabilmente, e senza via d’uscita, tutte le cose.
Il
“qui adesso”, l’essenza del reale, dunque non corrisponde né all’<<illud tempore>> proprio del mito,
né all’astratta struttura del <<continuum>>
spazio-temporale della fisica relativistica, che riduce il tutto ad espressioni
numeriche. Il “qui adesso” continua ad essere in fondo quell’incomprensibile
mistero che sant’Agostino diceva di conoscere se non doveva spiegarlo. Ma di non
conoscere nel momento stesso in cui cercava di darne ragione.