venerdì 31 maggio 2013

LE “TUNICHE DI PELLE”




Quando scacciò Adamo ed Eva dal paradiso, Dio fece loro «tuniche di pelle e li vestì» (Gen 3, 21), per proteggerli non solo dai fattori ambientali. Ma soprattutto da quel potere spirituale che li aveva ingannati e che fu sprofondato negli inferi.
Le tuniche bibliche sono anche figura delle “vesti di salvezza” alle quali allude il profeta Isaia (Is 61, 10), nonché simbolo di quella «armatura di Dio che ci consente di contrastare le ingegnose macchinazioni del diavolo … per resistere nel giorno malvagio e, dopo aver tutto predisposto, tenere saldamente il campo» (Ef 6, 11-19).
San Giovanni Cassiano (Conferenze VIII, 12), scrive in proposito di queste pelli che come i governanti della terra separano i malfattori dalla società attraverso le mura delle prigioni, così Dio ha posto uno schermo di separazione fra gli uomini e gli spiriti decaduti, affinché questi non corrompano i primi.
La grossolanità dei nostri sensi non ci consente quindi di percepire direttamente la realtà spirituale, nel bene e nel male. Quando la porta della percezione si apre, infatti, insieme agli angeli compaiono immancabilmente spiriti dell’aria e demoni. I quali sono in grado di utilizzare il loro potere preternaturale per «plasmare con l’aria corpi visibili e sensibili di qualunque forma e figura ed assumendoli farli parlare ed agire» (S. Th., I, 114, 4).
L’interazione della dimensione infera con quella ordinaria avviene innanzitutto nella sfera mentale ed immaginativa, sulla quale i demoni possono interferire coinvolgendo anche il corpo, specialmente nella sfera sessuale. Il famoso manuale degli inquisitori, il Malleus Maleficarum (Il martello delle streghe) del 1486, metteva in guardia già dalle prime battute sul potere dell’illusione insito nella stregoneria: «Le streghe possono operare prodigiose illusioni, per cui può sembrare che il membro virile venga completamente staccato dal corpo».
Nella solitudine del deserto, i primi anacoreti venivano turbati da fanciulle lascive che comparivano nella loro immaginazione in modo quasi sensibile. Al giorno d’oggi, il nudo è davanti agli occhi di tutti, in modo ossessivo, trasmesso ed elaborato dai media in modo diretto o allusivo, attraverso immagini, storie scabrose e scandali veri o presunti divenuti ormai norma di una società degradata e decadente, della quale anche la natura riflette il disordine attraverso sbalzi climatici e piogge “purificatorie”.
Del resto, era prevedibile che frutti deleteri dovessero scaturire dal riposizionamento cosmologico delle forze infere intorno al “sole-eros” centrale, come si deduce da alcuni passi significativi del Corpus Hermeticum, (cfr. cap. XVII). Frutti ingannevoli prodotti da riti, invocazioni e sacrifici rivolti agli spiriti dell’aria dai maghi intellettuali che, a cavallo del 1400 e 1500, prosperarono in molte corti italiche, impegnandosi in ogni modo per favorire l’avvento dell’anticristo e del regno opposto a quello di Dio.
La cultura dei maghi intellettuali dell’umanesimo non era innocua, come si ritiene in genere, ma del tutto deleteria perché collegata alla magia sadico-erotica e nera, “il lupo travestito da agnello”. Giovanni Pico celebrava ed imitava uno dei più insidiosi maghi sacerdoti dell’antichità, Apollonio di Tiana paragonandolo a Cristo, rivolgendo come lui continue preghiere al Sole, per conoscere i segreti di quella: «magia dedotta dagli astri e che procede da un patto occulto con i demoni» (in Zambelli, p. 190).
Innumerevoli furono i tentativi di interagire con le forze oscure attraverso evocazioni e celebrazioni ad esse dedicate attraverso i canoni della magia e stregoneria. I sabba ai quali partecipavano le streghe contadine costituivano essenzialmente orge di gruppo, dedicate al demone caprone, non prive di risvolti sadici e violenti. Così come avviene oggi nei riti satanici quando, dopo gli accoppiamenti liberi e sfrenati, si immolano vittime di vario genere alla grande bestia.
Del resto, nell’universo magico, la natura viene concepita come un organismo, che continuamente si genera e si distrugge, le cui parti sarebbero tenute insieme da una perpetua copula mundi, una sorta di “accoppiamento” continuo delle sue parti. Si comprende in tal senso il perché tutta la forza della magia, come afferma il Ficino, sia nell’amore, erotico e violento.
La demonologia rinascimentale è piena di resoconti pornografici relativi a veri e propri rapporti sessuali che i demoni avrebbero intrattenuto con persone entrate in contatto con essi. Convinzione diffusa era che i demoni fossero sia incubi (in forme maschili) che succubi (in forme femminili) ed al tempo stesso entrambi, ossia transessuali. Tale è l’opinione di Jean Vineti, inquisitore di Carcassonne, esposta nel suo «Trattato contro coloro che invocano i demoni», del 1450 circa.
I demoni succubi raccoglierebbero dagli uomini il liquido seminale, per deporlo nelle donne “scelte” con le quali si comportano da incubi. Questo anche secondo il padre Alphonso da Spina, che nel suo Fortalium fidei del 1460 afferma che le donne visitate dagli spiriti incubi si svegliano «imbrattate come se avessero fatto l’amore con un maschio».
Questa indicazione allude al tentativo dei demoni di “procreare” esseri umani, in modo indiretto, utilizzando il seme prelevato da un uomo e poi deposto nel grembo di una donna. Essa richiama anche aspetti mitologici. Ad esempio, il mito secondo cui Alessandro Magno sarebbe stato concepito dall’unione del dio Zeus con la madre Olimpiade, dopo che questa venne ripudiata dal marito, il re Filippo II, il quale si unì alla nuova sposa, Cleopatra Euridice. 
Le streghe propiziavano questo tipo di rapporti attraverso l’uso di pomate a base di erbe allucinogene che favorivano la formazione di vive suggestioni e visioni mentali. Per realizzare tali miscugli, venivano utilizzate piante della famiglia delle solanacee, ad esempio l’Atropa belladonna, il Solanum nigrum, la Cannabis indica, la Datura stramonium. Questo perché «gli allucinogeni si rivelano uno dei possenti mezzi per suscitare fantasmi, per chiamare in vita i demoni» (Coulianu, p. 229). Quanti demoni sono stati risvegliati dalla moderna cultura della droga, dalle esperienze psichedeliche a base di LSD o del Peyotil, descritte ad esempio nei libri di Carlo Castaneda ed imitate da molte fasce giovanili.
Le “scope” usate dalle streghe (radice del termine popolare, “scopare”, che allude all’atto sessuale) erano ricoperte di questi unguenti che esse assorbivano sfregando il manico nelle parti intime, ottenendo così una sorta di orgasmo, o “volo”, estatico. I figli che esse davano alla luce venivano consacrati al demonio-caprone, considerato loro padre effettivo.
Johan Klein in una dissertazione accademica tenuta il 19 novembre 1698 affermava che: «Nei verbali giudiziari delle confessioni delle streghe si può leggere che esse ricavavano maggior piacere dagli indecenti organi di satana che dalla lecita coabitazione con i loro legittimi mariti … Sovente è accaduto che in seguito a questo rapporto odioso e contro natura esse abbiano partorito bambini viventi».
I rapporti sessuali dei demoni con stregoni dei due sessi è ampiamente documentato nelle cronache dell’Inquisizione, spesso in termini crudi e pornografici. Nicolas Remy, dopo aver esaminato circa mille casi di stregoneria, compilò un’opera demonologica, Daemonolatria (Lyon 1595), nella quale tra l’altro si legge:
«Tutti coloro che hanno avuto un commercio sessuale con incubi e succubi affermano che è difficile unanimemente immaginare o descrivere qualcosa di più ripugnante e sgradevole … Le streghe sostengono che gli organi virili dei demoni sono talmente grossi e rigidi che è impossibile introdurli senza provarne un dolore atroce».
D’altro canto, lo stregone Hennezel, che aveva rapporti con uno spirito succube, afferma che «la sua Scuatzebourg (erano questi nomi di succubi) gli dava l’impressione di avere un buco ghiacciato (in luogo della vagina) e che doveva lasciarla senza pervenire all’orgasmo».
Nonostante questa ripugnanza, era quasi del tutto impossibile, a quanti se l’erano cercata, di sottrarsi alla volontà dei demoni di possedere intimamente le persone che ad essi si “consacravano”, provando sulla loro pelle la componente sadica collegata al sesso estremo.
A proposito della temperatura delle parti intime dei demoni, riportiamo parte della confessione della contessa di Foix, moglie di un certo duca d’Espernon. Questa poveretta affermava che avrebbe preferito morire piuttosto che essere posseduta ancora dal demone Teragon, evocato dal marito, perché «non poteva più sopportare il suo membro, da tanto che era caldo, e di ciò il giorno dopo non smise mai di piangere davanti a sua zia».
Dopo aver riportato l’episodio, l’autorevole studiosa Paola Zambelli scrive che: «La temperatura delle parti virili del diavolo è sempre stata uno dei segni distintivi attestati nei processi di stregoneria, malgrado di solito si faccia riconoscere perché tremendamente gelida, non perché scottante» (p. 171).
Questi resoconti alquanto scabrosi mettono in luce aspetti poco credibili di un lontano passato. Le antiche streghe contadine sono ormai scomparse. O quasi. Più che altro, soppiantante da quelle moderne ed emancipate, avvenenti ed agguerrite, organizzate nei gruppi della “wicca” (dall’inglese witchcraft: stregoneria). Il testo di riferimento ispiratore delle loro trasgressioni è Il vangelo delle streghe-Aradia,, pubblicato nel 1899.
In esso viene raccontato come la dea Diana, regina delle streghe, si unì con il suo “doppio”, il demone solare Lucifero emanazione della stessa dea madre Diana. Da questa unione, sarebbe nata Aradia, o Astarte, la quale avrebbe dovuto compiere la liberazione delle donne dall’oppressione maschile attraverso la vera stregoneria. Liberazione soprattutto sessuale, ribellione verso gli atteggiamenti censori e repressivi derivanti dalla morale religiosa tradizionale.
“Tremate, tremate le streghe son tornate”, scandiva un motto usato dalle femministe durante la “rivoluzione” del sessantotto. Forse non era solo un modo di dire. Le rivendicazioni politiche e di emancipazione sessuale, hanno comportato l’estrema libertà dei costumi ed il pansessualismo, che W. Reich (1897-1957) interpretò politicamente come segno di rivolta contro il fascismo e la struttura patriarcale della famiglia piccolo-borghese nella quale il padre è considerato l’autorità ed il capo.
L’attualizzazione delle bizzarre utopie e dei proclami sessantottini si riflette in una società ridotta allo stremo, sempre più in fermento, violenta, corrosa da ogni tipo di vizio. Una società massonica, non cristiana. Molte persone, private delle tuniche di pelle che richiamano alla castità, sono divenute schiave dell’indifferenza e degenerazione. Facilmente irretite nelle maglie di un mercato che prospera sullo sfruttamento e sull’ostentazione del nudo, fino all’illecito dell’industria pedopornografica.
Se prima del sessantotto l’uomo era accusato forse anche giustamente di sessuofobia, ora però è divenuto sempre più sessuomane e schizofrenico, vittima di interpretazioni distorte e maniacali del sesso e del piacere sessuale. Reso inerte da una falsa morale, orgoglioso e senza volontà di redenzione, schiavo consenziente del peccato, egli rappresenta una facile preda per quelle forze oscure che non trovando più la resistenza dell’impenetrabile armatura di Dio, possono agire liberamente sulla sua immaginazione, manipolando la sua ragione, attraverso media assoggettati al loro potere, più che alla Verità.
Bibliografia:
I. P. Culianu, Eros e magia nel rinascimento, Bollati Boringhieri, Torino 2006.

P. Zambelli, L’ambigua natura della magia, Marsilio, Venezia 1996.


mercoledì 1 maggio 2013

LA “PERPETUA” DI COPERNICO






Copernico era ormai in fin di vita, quando venne pubblicata la sua summa astronomica con il titolo, De Revolutionibus orbium coelestium, Sulle rivoluzioni delle orbite celesti. Inizialmente, ne era stato previsto un altro, De Revoluzionibus, Sulle Rivoluzioni.
Quando il Retico, l’enigmatico personaggio che per due anni stette alle costole dell’astronomo polacco, per incoraggiarlo a pubblicare la sua ipotesi traballante, si trovò tra le mani il testo con il titolo modificato, si infuriò.
Due parole innocue, orbite celesti, aggiunte come specificazione di un’ipotesi astronomica, bastarono a fare andare in furia questo personaggio legato ai movimenti riformatori ed iniziatici dell’epoca, il quale intravedeva nell’opera di Copernico il germe di tutte le future rivoluzioni che avrebbero determinato la “nuova” immagine del mondo, contrapposta a quella “vecchia”, legata al cattolicesimo tradizionale.
Mentre tale dinamica iniziava a realizzarsi con l’imporsi dell’ipotesi eliocentrica, Copernico stava per concludere una vita apparentemente tranquilla. Come Giovanni Drogo, il protagonista del Deserto dei tartari di Buzzati, dopo aver lungamente atteso l’occasione propizia, egli usciva di scena proprio quando era venuto il momento di salire alla ribalta. Nel 1543, infatti, all’età di settant’anni, l’astronomo morì in seguito ad un secondo attacco apoplettico.
La sua vita iniziò a Thorn (Torún in polacco) il 19 febbraio 1473. All’età di dieci anni, Nicola rimase orfano di padre e venne cresciuto insieme agli altri tre fratelli più grandi dallo zio materno, Lucas Watzenrode, il quale nel 1491 venne nominato vescovo della Warmja. Da quel momento, la vita dei Copernico cambiò in meglio, come compensata delle precedenti sofferenze. Tutta la famiglia trovò protezione e privilegi nell’ambito curiale.
Nicola ebbe così modo di perfezionare i suoi studi in Italia, ben sapendo che lo zio voleva fargli intraprendere una solida carriera ecclesiastica. Ma egli si sentiva attratto da altre prospettive.
Il periodo era molto turbolento. Oltre alla caccia alle streghe, si stavano preparando le condizioni per la riforma luterana, era stato scoperto un nuovo continente. L’ermetismo era coltivato nelle corti italiche e la visione religiosa del mondo stava per essere sconvolta dagli influssi della gnosi alchemico-cabalistica.
Copernico si iscrisse a Bologna in diritto canonico, nel 1496, divenendo membro della «Natio Germanica», associazione di studenti di lingua madre tedesca.
Il giovane Copernico non dichiarò di essere canonico del Capitolo di Warmja, neppure quando un anno dopo ebbe conferma della sua nomina ufficiale, ottenuta in virtù delle pressioni dell’illustre parente.
Si dice che fosse sacerdote. Ma quest’affermazione non corrisponde al vero. Sembra invece che Copernico mostrasse come un’avversione verso il sacerdozio e gli ordini maggiori, nonostante le spinte e la strada apertagli dallo zio materno.
Fu il cattolico Galilei che iniziò a mettere in giro questa diceria, insieme ad altre. Nella famosa lettera “quasi-pubblica” a Maria Cristina di Lorena, pur sapendo che sarebbe circolata nelle corti e nelle curie, nonché data in pasto a semplici fedeli, Galileo affermò vere e proprie bugie riguardo all’astronomo polacco.
Infatti, «Copernico non solo non era sacerdote, ma non venne mai chiamato a Roma; non scrisse il De revolutionibus per ordine del Papa; il libro ricevette molte critiche ostili, particolarmente perché contraddiceva la Bibbia; non costituì la base del calendario gregoriano» come invece afferma Galileo in un pur breve passaggio della citata lettera copernicana (E. Rosen in, R Zanin (a cura di), Galileo Galilei – Tre lettere, Pagus Edizioni, Paese-Treviso 1991, p. 141).
Lo storico cattolico Lino Sighinolfi (1876–1956) alimentò l’equivoco circa la carica di sacerdote assunta da Copernico messa in circolo da Galilei, forzando, forse involontariamente, la traduzione di una delega dell’epoca in modo evidentemente erroneo.
Egli la pubblicò infatti nella seguente forma: «Nicola Copernico, figlio del fu Nicola, canonico di Warmja, studente a Bologna, aspirante alla laurea in diritto canonico, presbiter constitutus, in presenza mia, il notaio, e dei due sottoscritti testimoni, che sono stati citati e convocati appositamente per questo scopo».
Le due parole in corsivo significano effettivamente “ordinato sacerdote”. Tuttavia, nel documento originario era scritto “personaliter” e non “presbiter”. «Ora, personaliter constitutus significa “comparso in persona”» non certo “presbitero” (W. Shea, Copernico: un rivoluzionario prudente, Le Scienze, I grandi della scienza, n° 20, ottobre 2004, pag. 6).
Il senso religioso di Nicola doveva essere frammisto di sacro e profano, condito da una curiosità intellettuale che lo portava ad esplorare i vari aspetti e le mutazioni della cultura vigente, senza tuttavia approfondirne uno in modo specifico. Egli studiò diritto canonico e civile a Bologna, ma non completò il corso di studi, distratto da altri interessi ed attività.
Soggiornando presso Domenico Maria Novara (1454–1504), matematico legato alla corte medicea, Nicola ebbe modo di apprendere i primi rudimenti dell’astronomia e della cultura antiaristotelica ed antitomista. Nel 1500, a Bologna, fece due delle sue rare osservazioni astronomiche, riguardanti le congiunzioni della Luna con Saturno.
Si recò poi a Roma insieme ad altri studenti, per l’anno giubilare indetto dal papa Alessandro VI. Era accompagnato dal fratello Andreas, anch’egli divenuto canonico del Capitolo di Warmja, nonostante le voci di una sua vita dissoluta. Si dice che si infettò di una “malattia ripugnante”, probabilmente sifilide, a causa della quale morì alcuni anni dopo. 
Allo scadere del permesso di studi in Italia, Copernico per non tornare dallo zio in Polonia senza nulla in mano, chiese una proroga ulteriore di due anni, per studiare medicina. Questo fu un fatto significativo, poiché come giurista canonico ben sapeva del divieto ai preti di studiare medicina, in ordine alla norma che ne spiegava il motivo: «perché i dottori e chirurghi scarseggiano di tenerezza».
Copernico dunque iscrivendosi alla facoltà di medicina confermava la sua volontà di non diventare sacerdote di Cristo, pur restando nell’ambito ecclesiale. Questo stato canonico gli avrebbe consentito una certa libertà di azione ed etica, rendendolo libero dagli obblighi sacerdotali.
Studiò altri due anni a Padova, senza conseguire la laurea in medicina, titolo accademico che richiedeva tre anni di frequenza. Infine, per tornare in Polonia con un “pezzo di carta” che giustificasse allo zio il suo lungo soggiorno nel bel Paese (sette anni), in un anno conseguì il dottorato in diritto canonico nella piccola e più accessibile università di Ferrara, il 31 maggio 1503. Dopo di che ritornò in Polonia.
Quando nel 1507, lo zio Lucas Watzenrode si ammalò, fu proprio Nicola a curarlo. La sua perizia fu tale da guadagnargli una sorta di contratto eccezionale per esercitare la funzione di medico presso l’episcopato. Dopo la morte dello zio, nel 1510, Nicola si trasferì poco distante, a Frauenburg, sempre nella Warmja.
Come canonico, aveva diritto ad abitare all’interno delle mura che circondavano la cattedrale di Frauenburg. Gli fu assegnata una torre su tre livelli, come appartamento. A piano terra, cucina, stanza da pranzo e camera della perpetua. Primo piano, con soggiorno, camera da letto, servizi e ripostigli, terzo piano, con studio illuminato da nove finestre, con ballatoio esterno.
Fu in questo confortevole appartamento che Copernico, insieme agli impegni canonici, coltivò le sue passioni, evidentemente non solo intellettuali. Al primo piano, abitava la sua giovane perpetua, Anna Schillings. La convivenza fra i due diede luogo a voci di popolo, insinuazioni varie, forse qualche “incidente di percorso”. Tutto questo venne tollerato, finché la Controriforma si mise in moto per rimediare ai molti cattivi esempi che stavano squalificando il messaggio di Cristo. Ai canonici assistiti da giovani perpetue venne raccomandato di sostituirle con domestiche “vecchie e semplici”, fuori tentazione.
Nell’ottobre del 1538, durante una visita pastorale del nuovo vescovo di Warmja, Johannes Dantiscus, Copernico venne da questi sollecitato a congedare la giovane perpetua. La richiesta dovette addolorare sia Copernico che Anna Schillings, la quale effettivamente venne allontanata alcuni mesi dopo, nel gennaio 1519, come testimonia una lettera di risposta di Copernico al Vescovo. Ma le voci non si spensero.
Infatti, il prevosto di quel Capitolo, riferiva al Vescovo che «sebbene la perpetua di Copernico, Anna Schillings, avesse spedito a Danzica le proprie cose, ella stava ancora vivendo “da sola” in una casa che possedeva a Frauenburg». Ella cioè continuava ad incontrare furtivamente Copernico. Dantiscus allora si rivolse a Tiedemann Giese, vescovo molto amico di Copernico, per chiedere di intervenire in merito alla faccenda:
«Alla sua veneranda età e quasi al termine dei suoi giorni – scriveva Dantiscus – si dice che Copernico veda di frequente la sua concubina nel corso di appuntamenti furtivi». Dantiscus pregava Giese di «ammonirlo in privato nei termini più amichevoli di desistere dal proprio comportamento scandaloso». Copernico che allora aveva 66 anni, si spense quattro anni dopo.
Aggiunge William Shea che «le preoccupazioni di Dantiscus erano accentuate dal fatto che Anna fosse una donna sposata e separata dal marito e che lo scandalo rischiava di sconvolgere i suoi sforzi per la riforma del clero» (cit., p. 37).
L’allontanamento, formale o sostanziale, della perpetua venne tuttavia come compensato dall’arrivo in casa Copernico di uno strano personaggio: Georg Joachim von Lauschen, detto il Retico perché proveniva dalla Rezia, regione compresa fra Svizzera ed Austria, rinomato per la vita licenziosa e per le amicizie equivoche.
Suo padre, medico, astrologo ed alchimista, venne giustiziato nel 1524 sotto l’accusa di stregoneria. Il Retico, che allora aveva dieci anni, intraprese in seguito le orme paterne, tuttavia con molta prudenza, riuscendo a dissimulare interessi ed attività iniziatiche, coltivate specialmente a Zurigo, dove conobbe e frequentò il taumaturgo e mago Paracelso.
Il Retico, ben collegato alla cerchia di personalità che animavano l’università protestante di Wittenberg, tra i quali Filippo Melantone, raggiunse dunque Copernico, nel corso del 1539. L’ingresso nel ducato di Warmja era proibito ai protestanti. Ma il Retico, che allora aveva venticinque anni, venne accolto calorosamente nel cattolicissimo capitolo di Frauenburg, evidentemente grazie ad illustri coperture.
Si insidiò a casa dell’anziano canonico astronomo, dove in pochi mesi, riuscì a scrivere un breve resoconto sull’astronomia copernicana, la Narratio Prima, che spedì celermente a Johannes Schoner, prete cattolico convertito al luteranesimo, nonché collaboratore di Lutero e Melantone.
Nessuna ammonizione giunse a Copernico da parte del vescovo Dantiscus, in ordine alla stretta collaborazione con il Retico e le sue amicizie “invisibili”, nonostante le tendenze romane sollecitassero il contrario.
Più che altro, Dantiscus si preoccupò di preservare Copernico dalla ricattabilità collegata alle accuse ed insinuazioni di tipo morale e sessuale che egli stesso aveva subito in prima persona. Circolava infatti la voce circa una sua presunta figlia illegittima, frutto di una relazione con una parrocchiana di Toledo, che egli continuava a mantenere versandole regolari contributi.
Forse, proprio questa diceria, che la Curia Romana non avrebbe gradito, servì agli amici del Retico, per indurre Dantiscus ad aprire le porte del suo Capitolo, favorendo la collaborazione di Copernico con i protestanti.
Un’ingegnosa ipotesi astronomica venne così gradualmente trasformata in argomento formidabile per slacciare la scienza dal cattolicesimo. Per determinare il passaggio dalla visione metafisica a quella dialettica del mondo. Per giungere dal cosmo definito e strutturato in Dio alle aperture razionali sfocianti nell’indefinito divenire. Dalle intelligenze celesti a quelle ctonie.