lunedì 29 agosto 2011

STRATEGIE DELL’ANTICRISTO




 San Paolo sembra alludere ad una manovra finalizzata alla mutazione dell’etica e della dottrina cristiana, quando afferma con termini inquietanti che l’opera del <<mistero dell’iniquità>> si concluderà con la manifestazione dell’anticristo, che <<avverrà nella potenza di satana … con ogni sorta di empio inganno per quelli che non hanno accolto l’amore della verità per essere salvi>>. Dio stesso infatti lascerà che gli uomini <<credano nella menzogna e siano condannati tutti quelli che non hanno creduto alla verità, ma hanno acconsentito all’iniquità>> (2 Ts 2, 7-12).


Queste parole alquanto dure lasciano anche intendere che l’<<anomia>> collegata al mysterium iniquitatis non si determinerà sotto forma di sovversione radicale dei concetti che stanno alla base dell'ordine politico e religioso attinenti alla società umana. L'anomia correlata all'anticristo non si realizzerebbe infatti nell’anarchia. Ma in un regno in apparenza efficiente, strutturato, tecnicista e scientista, formalmente ben “oliato”. Tuttavia, privo di anima. Un regno fondato cioè sulle retoriche di un perbenismo di facciata, sulle subdole menzogne celate dietro un bene apparente. In questo senso anche gli eletti se possibile potranno essere confusi (cfr Mt 24, 24).


L'azione più pericolosa della “potenza avversa” infatti sarebbe quella di “manipolare” più che negare le verità evangeliche attraverso interpretazioni ed integrazioni surrettizie. Con questa azione si otterrebbe che: <<le cose spirituali divengano temporali, le laiche divengano ecclesiastiche, le terrene divengano celesti>>, come affermava Lutero nel suo De Antichristo.


D’altra parte, la più grande abilità riconosciuta al diavolo è proprio quella di confondersi dietro le idee, al punto di far credere il contrario di quello che è, cercando di dissimulare la sua presenza innanzitutto ai cristiani, che per antonomasia sono le persone designate ad esorcizzarlo. In questo senso si può comprendere quanto affermava il teologo Paul Althaus: <<Una Chiesa che non si inquietasse più di fronte alla possibilità dell'anticristo, sarebbe per ciò stesso divenuta anticristica>>.


In effetti, attualmente le tracce dell’anticristo sembrano essersi disperse. Sparito dalle cronache, sparito non solo da omelie e catechesi. Sparito dalla Chiesa. Non si sente più parlare del mysterium iniquitatis, il figlio della perdizione, l’ombra livida indicata con insistenza da san Paolo e dalla Tradizione Apostolica, nonché dallo stesso Cristo che profetizzava circa “l’abominio della desolazione … nel luogo santo” (Mt 24). Cosa intendeva per dire? Nulla di ufficiale, in proposito. Articoli di vario genere sull’argomento, se ne trovano in rete in abbondanza. Ma il problema non sono le voci personali. Quanto quelle pastorali.


È vero che nell’intervento di presentazione del documento sul mea culpa: <<La Chiesa e le colpe del passato>>, l’allora cardinale Ratzinger alluse all’allegoria del carro (Purgatorio XXIX-XXXIII), che Dante utilizza per descrivere la presenza dell’anticristo nella Chiesa. Ma è anche vero che questa possibilità vaticinata da più parti non viene soppesata fino in fondo. Per evitare, forse, di giungere a conclusioni inquietanti.


Ammettere infatti la presenza dell’avversario sullo stesso carro sul quale avanza la Chiesa di Cristo significa considerare gli eventi fondamentali della stessa sotto un altro aspetto, non del tutto confortante. Bisognerebbe non solo riconoscere cioè l’infiltrazione all’interno della struttura ecclesiastica di un “che” di estraneo e di principio ad essa avverso, ma soprattutto cercare di porre rimedio a tale contaminazione. Infatti, il determinarsi all’interno della Chiesa Romana di una sorta di “potere occulto”, come un regime della ragione estraneo al regno della fede, non può che determinare la conseguenza di una inevitabile “rottura” della sua linea di continuità tradizionale ed una frammentazione del suo bimillenario fronte compatto.


L’evento recente che ha effettivamente suddiviso la storia ecclesiastica in due fronti, quello del “prima” e quello del “poi”, sembra essere a tutti gli effetti il Concilio Vaticano II, sul quale tanto si è discusso e tanto si discuterà. I due fronti contrapposti ovviamente sono quello della Tradizione e quello della modernità.  


Al di là delle più ottimistiche aspettative, giudizi severi sono stati emessi in ordine a tale evento epocale anche dai patrocinatori dello stesso. Henri De Lubac, ad esempio, constatò che: <<Il dramma del Vaticano II consiste nel fatto che invece di essere stato gestito dai santi – come fu il Tridentino – è stato monopolizzato dagli intellettuali. Soprattutto è stato monopolizzato da certi teologi, il cui teologare partiva dal preconcetto di aggiornare la fede alle esigenze del mondo, e di emanciparla da una presupposta condizione di inferiorità rispetto alla civiltà moderna. Il luogo della teologia cessa di essere la comunità cristiana, cioè la Chiesa e diventa l’interpretazione dei singoli. In questo senso il dopo-Vaticano II ha rappresentato la vittoria del protestantesimo all’interno del cattolicesimo>>.


Persino Paolo VI, dopo pochi anni riconobbe in un famoso discorso che dopo il Concilio nella Chiesa si era messo in moto un processo di autodemolizione, il “fumo di satana” si era infiltrato nel tempio di Dio. Per poi concludere che: <<Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. È venuta invece una giornata di nuvole, di tempesta, di buio>>. Ma nonostante queste ammissioni, nella sostanza Paolo VI avallò come scrive Antonio Socci: <<il “colpo di mano” di una “minoranza rivoluzionaria” che impose la riforma liturgica (con i suoi mille abusi), chiaramente non benedetta da Dio. La proibizione della millenaria liturgia latina della Chiesa fu effettuata con una decisione che contravvenne anche ai documenti del Concilio>> (Il quarto segreto di Fatima, Milano 2006, p. 210).


In verità, sullo stesso Paolo VI, circolano da tempo voci inquietanti. Accuse terribili che se vere indicherebbero davvero che lo spirito del “figlio della perdizione”, invece di essersi dissolto in nubi aeree, sarebbe di nuovo in mezzo a noi, mimetizzato ed attivo come mai lo fu prima, dando corpo così alla profezia di Cristo: <<L’abominio della desolazione nel luogo santo>>.


Il principale e diretto accusatore di Papa Montini è il novantenne mons. don Luigi Villa, incaricato personalmente da Padre Pio di difendere la Chiesa di Cristo contro l’opera della massoneria ecclesiastica. Padre Pio nel corso di un fatidico incontro avvenuto nella seconda metà del 1963, abbracciando il sacerdote di Brescia gli disse: <<Coraggio, coraggio, coraggio perché la Chiesa è già invasa dalla Massoneria … la Massoneria è già arrivata alle pantofole del Papa>>. Allora il Pontefice era Paolo VI.


L’energico sacerdote non ha perso zelo nel corso del tempo. Confortato da un’assistenza speciale, nonostante il silenzio e l’ostilità che lo circonda, ha fondato la sua piccola Editrice Civiltà e la rivista “Chiesa viva”. Attraverso questi canali, il sacerdote bresciano solleva accuse gravissime nei confronti di Paolo VI, e non solo, tuttavia sostenute da documentazioni e riferimenti circonstanziati. Le accuse sono così gravi che andrebbero impugnate e risolte in un senso o nell’altro. O dimostrando cioè la loro verità. O la gravissima disonestà dell’Autore che andrebbe subito scomunicato e allontanato dalla Chiesa. Ci vorrebbe insomma per fare chiarezza una sorta di Santo Uffizio, che proprio Paolo VI eliminò dalla struttura ecclesiale.


Strano peraltro che i nemici della Chiesa, sempre attenti a trovare echi di presunti scandali, minuzie e debolezze poi ingigantite con massicce campagne stampa spesso del tutto campate in aria, non abbiano interesse a riprendere ed a rilanciare le gravi accuse di don Villa, per creare davvero uno scandalo epocale all’interno della Chiesa. Paolo VI è accusato chiaramente di essere stato massone, omosessuale, filosovietico , ecc. Invece, i giornali anticlericali sempre più che attenti a scovare le “pagliuzze” relative a qualche sacerdote impenitente, chiudono volentieri gli occhi di fronte a tali possenti “travi” in grado di scuotere non solo le gerarchie, ma tutta la struttura ecclesiastica post conciliare. Vige pertanto un silenzio sospetto a sinistra e a destra, fuori e dentro la Chiesa, che implicitamente dimostra connessioni insospettabili.


Il numero 441, settembre 2011, di Chiesa Viva, tutto dedicato a <<Paolo VI il papa che cambiò la Chiesa>>, afferma come premessa che questo Papa: <<”politicamente” era di sinistra; “intellettualmente” era un modernista, e “religiosamente” era un massone>> (p. 3). Niente di strano se si trattasse di una persona qualunque. Infatti si è liberi di porsi politicamente dove si ritiene meglio, si può interpretare il mondo senza dare troppo peso al passato, si può cercare una iniziazione alla vita ed al mondo diversa da quella cristiana. Ma se queste tipologie vengono attribuite ad un Papa, successore di Pietro, garante della Tradizione cattolica, allora le cose cambiano.


Ed in effetti, le cose con Paolo VI cambiarono. A cominciare dai rapporti con la massoneria, che fino al Vaticano II venne sempre condannata dalla Chiesa. Papa Leone XIII, ad esempio, nell’enciclica “Humanun genus” imputava ai Frammassoni il fine supremo di <<distruggere da capo a fondo tutto l’ordine religioso e sociale, qual fu creato dal Cristianesimo e, prendendo fondamenti e norme dal Naturalismo, rifarlo a loro senno di sana pianta>>, per giungere così alla determinazione di una religione universale avulsa da N. S. Gesù Cristo.


Le manovre per cambiare la Chiesa dall’interno hanno dunque una definita circostanza iniziale ed anche un protagonista insospettabile. Sempre che siano attendibili, come sembrano, le accuse di don Villa, che in effetti sembrano aver bloccato il processo di beatificazione del Pontefice in questione. Ed è comunque un fatto il cambiamento che la Chiesa ha subito in questi ultimi cinquant’anni. La Chiesa di oggi non è più quella che soggiaceva all’autorità dei Papi, fino a Pio XII, i quali sembrano appartenere addirittura ad un’altra storia, se non proprio “preistoria”, ecclesiastica.


Dal 1960, dunque, la struttura della Chiesa iniziò ad evolversi sotto la spinta interna di una nuova teologia che avrebbe comportato disgregazioni interne al Corpo Mistico di Cristo, contrapposizioni fra correnti ed esponenti del Clero, nonché una confusione di fedeli ripartiti in “gruppi” e schieramenti di tipo quasi politico. È peraltro davanti a tutti la crisi sempre più viva presente nella Chiesa contemporanea, in difficoltà non solo per i rapporti con il mondo esterno, ma soprattutto per i suoi conflitti interni, per il senso di vaga “anarchia”, anche liturgica, che consente una controproducente interpretazione dei documenti ufficiali più delicati emessi dalla Santa Sede.


Situazione peraltro preconizzata dalla Vergine nel corso delle sue apparizioni. A cominciare da quella di La Salette, del 19 settembre 1846, durante la quale la Madonna piangente, seduta su di un masso tra alte montagne, rivelò ai pastorelli Melania e Massimino un segreto inquietante per quell’epoca, ma oggi quanto mai attuale e molto comprensibile, specialmente da parte di chi “vuol comprendere”. Quella volta, tra l’altro la Vergine affermò tra le lacrime che: <<I preti per la loro cattiva condotta, per le loro irriverenze e la loro empietà nel celebrare i Santi Misteri, per l’amore al denaro, l’amore agli onori ed ai piaceri, i preti sono diventati cloache di impurità. Sì, i preti domandano vendetta, e la vendetta è sospesa sulle loro teste … Si è spenta la vera fede e la falsa luce rischiara il mondo … la Chiesa avrà una crisi orrenda … Roma perderà la fede e diventerà la sede dell’Anticristo … la Chiesa sarà eclissata ed il mondo sarà nella costernazione>>.

Nelle apparizioni successive a quella di La Salette, la Vergine si è dimostrata meno “impetuosa”, meno diretta, alternando i silenzi e le poche parole agli inviti alla conversione ed alla preghiera. Come se dopo la franchezza delle affermazioni rivolte a Melania ed a Massimino avesse voluto essere meno esplicita, mettendo invece in rilievo il potere della penitenza e della preghiera davanti agli occhi di Dio. Comunque, nonostante la durezza della affermazioni, l’apparizione di La Salette è stata riconosciuta dalla Chiesa, segreti inclusi, nel 1851, sebbene sia stata combattuta i tutti i modi, soprattutto dallo stesso Clero. Al giorno d'oggi infatti se ne parla molto poco, essendo tutti molto concentrati sul fenomeno Medjugoje, ove la Vergine si dimostra molto più conciliante.


Cinquant’anni dopo, sotto san Pio X, l’Osservatore Romano, quando ancora era in grado di dire chiaramente come stanno le cose, affermava che: <<Melania rivelò il suo Segreto quando il tempo segnato fu giunto, sebbene sapesse che un simile atto le avrebbe attirato la collera di quelli che, costumi corrotti, erano incatenati al carro massonico>>. Poiché i personaggi che maggiormente si accanirono contro il segreto di Melania furono alti esponenti della gerarchia cattolica, il giornale della Santa Sede riconosceva che sul carro della Chiesa erano salite perfide figure rivestite di porpora ed abiti talari.


Del resto, già Dante, secondo René Guenon affiliato alla setta dei Fedeli dell’Amore nonché ai Templari, nel suo grandioso Poema aveva codificato il processo avviatosi fin da allora, tutto teso a togliere di mezzo il <<katécon>>, l’impero rappresentato dalla vera Chiesa. Ossia, ciò che trattiene la manifestazione del <<mistero dell’iniquità>>. Tutto questo, al fine di realizzare il cosiddetto “paradiso in terra”. Utopia tanto cara e tanto evocata in forme diverse dagli esoteristi rinascimentali, i quali si attivarono per attuarla soprattutto nell’ambito culturale, cercando in ogni modo, soprattutto sotto le istanze della ricerca filosofica e scientifica, di oscurare la logica ferrea che permea il realismo moderato di san Tommaso. La catena iniziatica formata da più che insospettabili personaggi, Galileo, Cartesio, Leibniz, Newton, ecc.,  diede spazio invece alla dialettica di tipo eraclitea che non distingue, ma ammette la conciliazione degli opposti, il “si e no”. Dialettica che legittima altresì la contraddizione, dando spazio al vero ed anche al falso, collegando il pensabile con l’impensabile, la scienza con la magia.


Proprio nel Rinascimento infatti prese avvio l’attacco più efficace alla Chiesa ed al suo sistema logico e metafisico che rese possibile quell’infiltrazione al suo interno del fumus satanicus che si è protratta fino ai nostri giorni. Cominciava così ad attuarsi fin da allora, in modo insospettabile, il piano di distruzione della società cristiana in vista di una prossima, oggi tanto vicina, ricostruzione su “nuove” basi, che riproporrebbero in forme attuali lo stesso ethos vigente negli antichi imperi, ove il sangue ed il sesso costituivano il fulcro della pseudo-religiosità solare, nonché le due colonne portanti della sinagoga satanae.




martedì 16 agosto 2011

LA ROTAZIONE DEI CIELI



Nel 1851, Léon Foucault realizzò il pendolo che lo rese famoso. Dopo aver riempito di piombo fuso una sfera cava di ottone con una massa di 28 kg, l'appese con un filo di acciaio lungo 67 metri alla volta della Sala del Meridiano dell'Osservatorio di Parigi. Una volta messa in moto, tale sfera oscillava lentamente cambiando il suo piano di oscillazione col trascorrere delle ore. Come una porta girevole che si apre lentamente di piccoli angoli, il piano di oscillazione del pendolo dopo un certo tempo ritornava sulla posizione iniziale. Questa rotazione avveniva in senso orario, ossia nella direzione contraria di quella del presunto moto terrestre.

Scriveva Foucalult: <<Il fenomeno si sviluppa con calma: è fatale, irreversibile … Si sente vedendolo nascere e intensificarsi, che non è possibile per lo sperimentatore affrontarne o ritardarne la manifestazioni … Ogni uomo davanti ad un tale fatto … per qualche istante rimane pensoso e silenzioso e si ritira quindi recando in sé il senso pressante e vivissimo del nostro incessante movimento nello spazio>> (Dimostrazione sperimentale del movimento di rotazione della Terra, Journal des Debats, 31 marzo 1851).

Queste parole piene di meraviglia per il moto della Terra ne nascondono un’altra. Afferma Jean Guitton, in Dio e la scienza, che Foucault rimase sorpreso da questo risultato inatteso. Egli infatti si attendeva il contrario. Ossia, che il pendolo essendo solidale alla terra ruotasse nello stesso senso della terra. Cioè, in senso antiorario. Invece il pendolo ruotava in senso inverso, orario, come il sole, le stelle fisse.

Lo scienziato superò la difficoltà con la tipica inversione che ogni tanto si affaccia nel campo della fisica teorica. Egli infatti spiegò che “in realtà” non è il piano del pendolo a ruotare, ma la terra sotto di lui. Per tale ragione, noi vediamo ruotare il suo piano di oscillazione in senso orario. Questa risposta significa che il pendolo risentirebbe più dell'influenza della volta stellata che di quella della crosta terrestre sulla quale è fissato e che gli trasmette l'impulso gravitazionale che dà inizio e conserva l'oscillazione.

L’annoso problema se sia la terra a ruotare o i cieli, o una combinazione di tutti e due, si ripresenta sistematicamente di fronte ad ogni esperienza finalizzata alla dimostrazione del moto terrestre. Infatti, questo problema ripropone la problematica dei moti e delle rotazioni assolute. Newton dichiarò l’esistenza delle rotazioni assolute, quelle cioè relative ai sistemi inerziali in moto rettilineo uniforme rispetto alla spazio assoluto. Ma già il vescovo di Berkeley contestò quest’idea pochi anni dopo la pubblicazione dei Principia alla luce della considerazione che il movimento per suo natura è relativo e pertanto non può essere compreso se non in relazione ai corpi circostanti. Ossia, in termini generali, non è possibile stabilire un riferimento, se mancano i termini che devono essere posti in riferimento.

Questa stessa motivazione fu ripresa dal filosofo Mach, che nel 1872 affermava che non esistono moti assoluti, ma solo relativi. Se un corpo ruota rispetto alle stelle fisse, si producono forze centrifughe. Ma quando ruota rispetto a qualche altro corpo e non in relazione alle stelle fisse, non si producono forze centrifughe. Nel primo caso si può parlare di rotazione. Ma bisogna tuttavia tener presente che la rotazione deve essere intesa rispetto alle stelle fisse.

Secondo Mach un corpo non soggetto a forze si muove di moto uniforme rispetto alle stelle fisse, considerate come una media ponderata di tutta la materia presente nell’universo. L’inerzia pertanto non è una proprietà intrinseca della materia, ma una proprietà di cui essa gode grazie all’esistenza della materia presente in tutto l’universo. Ne deriva che la prova del pendolo di Foucault non dimostra la rotazione assoluta della terra, ma conferma invece la validità di quello che Einstein definì come “principio di Mach”, il ragionamento sopra riportato.

Del resto, la soluzione fornita da Foucault per spiegare la variazione del piano di oscillazione del suo pendolo non è unica ed indubbia. Essa sembra essere stata fornita per dimostrare la validità della tesi già accettata della rotazione della terra. Infatti, gli aristotelici avrebbero interpretato senza indugio questa esperienza come la prova infallibile dell'esistenza dell'etere, la quintessenza alla quale Aristotele attribuiva la causa dei moti “perfetti”, quelli circolari, da oriente ad occidente, propri delle stelle ritenuti corpi perfetti ed incorruttibili.

Lo Stagirita ne parla nel libro De caelo come di una sostanza separata, invisibile ed insensibile in perenne moto circolare orario, strettamente connessa al Primo Motore immobile, l'ente che trasmette il movimento a tutti gli enti celesti senza muoversi. La Causa Prima. Il Dio motore al quale risalì san Tommaso d'Aquino nelle sue prove teoretiche dell'esistenza di Dio.

È dunque probabile che se l'esperimento del pendolo fosse stato effettuato ai tempi di Galilei il suo esito, del tutto previsto, sarebbe stato considerato come la prova irrefutabile del movimento del cielo e delle sfere planetarie intorno alla terra. L'accordo fra il senso della rotazione del piano del pendolo con quello della rotazione del sole e delle stelle infatti sarebbe stata dimostrazione evidente della quiete della terra e della rotazione dei cieli e dell'etere. Movimento questo che si mantiene senza variazione, come un moto perpetuo del tutto naturale, che peraltro contraddice il principio d'inerzia dimostrando che nella realtà l'unico moto che si mantiene in perpetuo è quello circolare e non quello rettilineo uniforme improbabile in uno spazio curvo.

Per quanto riguarda l'effetto Coriolis, si sa che corrisponde ad una forza che spinge i corpi verso destra nel nostro emisfero. Esso si verifica a causa della rotazione terrestre. Ma lo stesso effetto si potrebbe interpretare anche come una dimostrazione della rotazione dell'etere aristotelico, seguendo la stessa logica con cui lo si considera prova della rotazione terrestre. Logica circolare, caratterizzata dal seguente processo. Sull’assunto che la terra ruoti, si utilizza l'effetto Coriolis, per dimostrare la rotazione della terra. Con la stessa logica. Si considera la terra ferma. Con l'effetto Coriolis si dimostra che ruotano i cieli e l’etere.

Michelson e Morley realizzarono nel luglio del 1887 una famosa esperienza per rilevare la presunta velocità dell’etere rispetto alla terra. Ma non rilevarono alcun risultato. E ritennero fallita l’esperienza. I due fisici Fitzgerald e Lorentz commentando il continuo esito negativo delle esperienze di Michelson, posero la domanda: <<E se il mondo fosse tale per cui il movimento non può essere rilevato?>>. Un altro fisico Jean Becquerel nel 1922 commentò tale esperimento con altrettanta enfasi: «Non si è mai ottenuto, nell'esperimento di Michelson, nessuno spostamento delle frange in nessuna epoca dell'anno. Tutto appare come se la Terra fosse immobile. Il disaccordo tra l'esperimento e la teoria è brutale!».

J. A. Coleman (presidente dell'allora dipartimento di fisica dell'American International College di Springfield – Massachussets) sostenne che la spiegazione più semplice della quiete terrestre non fu nemmeno esaminata, soprattutto per motivi non scientifici, ma filosofici. Infatti: ”tale idea non fu presa sul serio, perché allora avrebbe significato che la nostra Terra occupava veramente un posto privilegiato nell’universo, mentre gli altri corpi celesti le facevano omaggio di gravitarle attorno”.

<<Il pendolo di Foucault è presentato come una prova della rotazione diurna della terra su sé stessa. Tuttavia il Professor Maurice Allais si è reso conto che il pendolo paraconico, da lui concepito e di cui ha osservato i movimenti per lunghi periodi, cessa di derivare durante le eclissi di sole. Se la teoria del pendolo di Foucault fosse buona, solo un arresto del movimento diurno della terra sarebbe in grado di produrre un tale effetto. Occorre dunque trovare un'altra spiegazione alla deriva del piano di oscillazione del pendolo. L'effetto Allais che abbiamo appena evocato è stato osservato indipendentemente anche dal Professore rumeno Jeverdan, che ne aveva comunicato all'Accademia delle Scienze di Parigi un resoconto. Anche il professore rumeno Mihaïla lo ha messo in evidenza recentemente>> (Nourissat Y., Storia inconfessata dell’astronomia).



domenica 14 agosto 2011

EINSTEIN A "FUMETTI"




Secondo Roland Barthes, Einstein sarebbe riuscito a trovare la parola magica che nasconde il segreto del mondo. Da qui, le ragioni del suo mito, nel quale è possibile ritrovare i temi classici dello gnosticismo, quali l’unità della natura, la possibilità ideale di una riduzione fondamentale del mondo, l’idea che il sapere totale possa svelarsi solo d’un colpo, come una struttura che ceda bruscamente.
Sempre Barthes ribadisce che nel mito einsteiniano confluiscono tutti i contrasti e le contraddizioni possibili, dal momento che egli viene reputato nel contempo mago e macchina, cercatore permanente e scopritore inappagato, scatenatore del meglio e del peggio, cervello e coscienza. Per Barthes, Einstein esaudisce i sogni più contraddittori, riconcilia miticamente la potenza infinita dell’uomo sulla natura e la “fatalità” di un sacro a cui questi non può ancora sottrarsi.

Non si può negare peraltro che già dall’aspetto di questo eccentrico scienziato, traspare un che di strano. Capelli al vento, occhi fissi, persi nel vuoto. Insomma, un “qualcosa” di diverso sul quale sono state costruite leggende, forse neanche del tutto infondate. Leo Talamonti ad esempio attribuisce ad Einstein addirittura doti medianiche, dal momento che nel corso di una memorabile seduta medianica, fece sollevare un tavolo. Benché convinto pacifista ed antimilitarista, e fin dagli anni giovanili insofferente a qualunque disciplina, tranne, forse, quella delle logge iniziatiche, è arcinoto che Einstein nel 1939 sollecitò Roosevelt a promuovere quegli esperimenti nucleari che culminarono il 6 agosto 1945, con l’esplosione atomica che distrusse Hiroshima. Uno spiacevole incidente di percorso nel progresso della scienza (bellica). Progresso del quale migliaia di vittime innocenti avrebbero volentieri fatto a meno, potendo. Nella Russia di Stalin, dopo un primo rifiuto “ideologico” nei confronti della teoria di Einstein, considerato esponente di una <<scienza borghese ed idealista>>, toccò a Lavrentij Berija, ombra oscura di Stalin, capo della polizia segreta e responsabile del progetto atomico sovietico, ribaltare dialetticamente questa teoria per un fine “nobile”: <<dotare l’URSS dell’arma nucleare di cui l’America già disponeva>>.
Giulietto Chiesa ha scritto che il ribaltamento dialettico dell’interpretazione della relatività venne operato dai due futuri premi Nobel per la fisica, Sakharov e Landau. I quali inviarono a Berija una lettera, ove si afferma che la teoria di Einstein: <<ha svolto un ruolo rivoluzionario nello sviluppo della fisica, individuando nuove caratteristiche fisiche dello spazio e del tempo e stabilendo le leggi di movimento delle particelle veloci. Si tratta di una teoria profondamente materialistica nella sua sostanza>> (G. Chiesa, Il boia e lo scienziato, <<La Stampa>>, Torino 13 novembre 1994, p. 22).
Non intendiamo tirare la coperta né da una parte, né dall’altra, all’interno di una dialettica che contrappone l’idealismo al materialismo, in vista di una sintesi superiore. Ma solo rimarcare la presenza di un fondo ideologico all’interno delle principali teorie scientifiche. Le quali apparentemente interpretano il mondo dei fenomeni secondo leggi matematiche, mentre sostanzialmente lo fanno rientrare all’interno della ideologia che le ha ispirate.
Proprio per questa implicita carica ideologica, alcune teorie, e non altre, vengono riprese ed amplificate dalla propaganda mediatica, per trasmettere le loro specifiche conclusioni, in genere rivoluzionarie, ad un pubblico generico e spesso sprovveduto, che risulta così sollecitato a ribaltare, l’interpretazione comune della realtà. A prezzo di una grande confusione. Questa particolare sorte è toccata alla relatività ed al suo famoso Autore. Mentre invece teorie altrettanto importanti, come la meccanica quantistica e le idee di Bohr ed Heisemberg, ancora oggi sono quasi del tutto trascurate dalla propaganda mediatica, e pressoché sconosciute al di fuori della cerchia degli specialisti.
Di certo, alcune conclusioni della teoria di Einstein così suggestive e così paradossali non potevano che essere rilanciate, e travisate, da una stampa già allora interessata a notizie sensazionali e scandalistiche. La contrazione degli intervalli spazio-temporali, i fantastici effetti attribuiti alla velocità della luce, il paradosso dei gemelli, tanto per citare alcune idee einsteiniane, sono state riprese nel corso di questo secolo in ogni ambito ed in ogni settore. Persino dai Beatles, nel loro film musicale, Yellow submarine. Fino a far confondere nella mentalità comune, erroneamente, la relatività scientifica con il relativismo. Infatti, l’ipse dixit: “tutto è relativo”, per molti sprovveduti, costituisce ormai una verità evidente, dimostrata perfino dalla scienza.

D’altra parte, non è che Einstein abbia fatto molto per arginare l’ondata di equivoci e confusione creata dalla stampa e dai media nell’opinione pubblica, più incuriosita che interessata a tali spettacolari conclusioni. Come Galileo che, a differenza dell’altezzoso Newton, rese non solo pubbliche, ma anche saporite ed accattivanti le sue riflessioni scientifiche, anche Einstein si preoccupò di fornire una versione divulgativa della propria teoria.
Nel tentativo di rendere gradevole e accessibile la sua formalizzazione teorica circa il continuum spazio-temporale, a volte con tinte persino ironiche, Einstein sembra quasi indurre a credere che le conclusioni valide per le particelle che viaggiano a velocità prossime a quelle della luce, siano estensibili anche ai corpi macroscopici inseriti nella dimensione reale. Dove invece la fisica di Einstein si riduce a quella di Newton.
Einstein crea questo equivoco, utilizzando treni, banchine, osservatori ideali, ovvero elementi tipici della dimensione quotidiana, per dimostrare la validità di una teoria straordinaria. Valida cioè solo per velocità prossime a quella della luce, e dunque interdette a quegli stessi corpi utilizzati nei suoi famosi esperimenti ideali.
Un esempio ci è dato quando egli raffronta la velocità della luce con quella di un treno che: <<si muove rapidamente verso il raggio di luce che proviene da B, mentre corre avanti al raggio di luce che proviene da A>> (A. Einstein, Relatività – Esposizione divulgativa, Boringhieri, Torino 1964, p. 44). Come se la velocità di qualunque treno non fosse irrilevante e trascurabile se rapportata a quella della luce, che lo stesso Einstein altrove ha definito: <<praticamente infinita dal punto di vista dell’esperienza quotidiana>> (A. Einstein, Pensieri degli anni difficili, p. 235).
Il linguaggio utilizzato da Einstein in questo opuscolo divulgativo, quando la situazione lo rende possibile, diventa attraente e lieve. Addirittura spiritoso. Che dire infatti quando, nelle pagine iniziali, per cercare di spiegare cosa debba intendersi per “sistema inerziale”, scrive: <<Se una nuvola ozia su Piazza Colonna, potremo determinare la posizione relativa alla superficie della terra innalzando una pertica (!), perpendicolarmente alla piazza, fino a raggiungere la nuvola>> (A. Einstein, Relatività …, citato, p. 24 e sgg).
È evidente che il pretendere di misurare l’altezza di una evanescente nuvola nel bel mezzo di una piazza mediante l’ausilio di una ingombrante e rigida pertica, costituisce un esempio alquanto bizzarro di divulgazione scientifica.

Ma ci sono altri aspetti curiosi di quest’opera da mettere in evidenza. Ad esempio quando, per chiarire cosa debba intendersi per “Concetto di tempo nella fisica”, lo scienziato mette in scena un vero e proprio “fumetto”. Che inizia con la seguente asserzione: <<Il fulmine ha colpito le rotaie della nostra linea ferroviaria in due punti A e B molto lontani l’uno dall’altro. Aggiungo l’affermazione che i due fulmini sono avvenuti simultaneamente>>.

Trascuriamo la banale osservazione che non si capisce se i fulmini siano due o uno. Ma notiamo che, a parte questo “cavillo”, Einstein, oltre ad aver già stabilito i punti A e B dove il fulmine è caduto, afferma anche che i due fulmini sono simultanei.

Egli dunque pone come condizione iniziale che i due lampi siano simultanei, anche se non ha ancora chiarito cosa debba intendersi per simultaneità. Ma se stabilisce in precedenza che i fulmini cadano simultaneamente, che senso può avere il tentativo successivo di definire un metodo operativo in base al quale stabilire la verità di un’ipotesi già data per vera, e di una realtà ormai dissolta?
Come rendendosi conto dell’insidiosità del gorgo creato, lo scienziato sembra voler correre ai ripari. Rendendo però l’evento dei fulmini ancora più paradossale e divertente. Egli infatti inserisce la fantastica figura di <<un abile meteorologo [in grado di prevedere] dopo ingegnose considerazioni, che il fulmine deve sempre colpire simultaneamente i due punti A e B>>.
Le carte devono quadrare in tutti i modi, anche a costo di ricorrere ad ipotesi davvero incredibili. Infatti, se è già molto improbabile che un fulmine si sdoppi e colpisca sempre simultaneamente due stessi punti molto distanti fra loro, è addirittura inverosimile pensare che il fulmine cada sempre, a ripetizione, in questi punti, sulla base delle previsioni di un tanto abile quanto fantascientifico meteorologo.
Ma giungiamo al cuore del “fumetto scientifico” escogitato dal famoso fisico. Che così conclude la sua esperienza ideale: <<Dopo una certa riflessione, il lettore farà la seguente proposta, per verificare la simultaneità. Con una misura effettuata lungo le rotaie, verrà calcolato l’intervallo che collega i punti A e B, e verrà messo un osservatore nel punto di mezzo M dell’intervallo A e B. Quest’osservatore verrà fornito di un dispositivo (per esempio due specchi inclinati a 90°) che gli permetta di osservare visualmente i due punti A e B contemporaneamente>>.
Il metodo geometrico proposto da Einstein sembra del tutto valido. Ma solo sulla carta. Infatti, solo trasformando gli eventi fisici in punti di un segmento, tutto rientra nel suo discorso. Tuttavia, l’ambiguità del precedente enunciato emerge chiaramente quando l’Autore, dopo aver suggerito l’uso del dispositivo a specchi, finalmente afferma che: <<Se l’osservatore percepisce i due bagliori del fulmine nel medesimo istante, essi saranno allora simultanei>>.
Sembra un risultato lampante, che non lascia spazio a nessuna replica. Mentre invece, Einstein ha creato una situazione del tutto circolare ed inverosimile. Infatti, l’osservatore, in conclusione, non potrà osservare i bagliori del fulmine, per il semplice fatto che il lampo è caduto all’inizio del suggestivo esempio. A meno che si sia disposti a credere che davvero un lampo possa cadere e ricadere a volontà sempre negli stessi due punti lontani fra loro, così come prospettato da Einstein nelle sue fantasie razionali. Nelle quali la realtà diviene visione, e la visione realtà. Per poi dissolversi insieme, all’ombra di uno slancio prometeico, sfociante nelle contraddizioni tipiche dei miti pitagorici. Dai quali scienziati ed "iniziati" consuetamente attingono.


venerdì 12 agosto 2011

UN REGNO SENZA RE



Sottolineiamo la velata presenza all’interno di una teoria scientifica, al di là dei suoi contenuti specifici, di un risvolto di innegabile consistenza, e che investe l’inscindibile relazione che collega l’opera dello scienziato alla sua ideologia. Infatti, come se scienza e matematica costituissero un veicolo per trasmettere contenuti che le trascendono, le convinzioni di natura filosofica degli scienziati risultano in qualche modo trasposte ed inserite all’interno delle loro enunciazioni formali, non sempre in modo evidente.

Questa tendenza a trasmettere attraverso il sistema della scienza personali concezioni del mondo costituisce la caratteristica primaria del pitagorismo, o se si vuole della mentalità iniziatica. Che ovviamente non si è estinta, ma si evidenzia altresì al giorno d’oggi nei settori culturali più disparati. Nell’ambito della fisica moderna, ad esempio, al di sotto dei raffinati assetti formali, è presente un carattere di fondo che confluisce in una visione misticheggiante della realtà, di tendenza panteista ed eraclitea.

Per dimostrare quanto affermato, prenderemo in considerazione alcune significative dichiarazioni di Albert Einstein, il più famoso scienziato dell’epoca moderna, che rientrano nella sfera delle proprie concezioni personali, ma che riecheggiano anche nelle sue opere strettamente scientifiche, per lo meno come premesse. Spesso, infatti, lo scienziato tedesco nei suoi scritti è solito unificare due aspetti tipici del sapere, di per sé differenziati: misticismo e razionalismo. Mistica e ragione hanno infatti caratterizzato e determinato la sua personale visione del mondo, generalizzata e tradotta in dottrina scientifica. La sua fede nella religione cosmica, nel dio di Spinoza per intenderci, lo ha portato ad esaltare la dimensione naturale e relativa della realtà, nella quale intendeva ricercare le tracce eterne di una presunta divinità, tuttavia senza persona.

Può essere utile ricordare che l’esaltazione della legge cosmica dell’eterno divenire, alla quale secondo questa linea interpretativa sarebbe soggetta la totalità degli enti, sottintende un’inevitabile svalutazione dell’essere individuale e della realtà presente. Einstein confermò tale implicazione, affermando che: <<Mi sento talmente parte di tutto ciò che vive che non m’importano per niente l’inizio e la fine dell’esistenza concreta di una singola persona in questo flusso eterno>> (Lettera di Einstein a Hedwig Born, 18 aprile 1920).

Questa gelida dichiarazione, che allude all’esistenza di una regola generale (flusso eterno) alla quale ogni individuo sarebbe comunque inevitabilmente soggetto, evidenzia un tipico aspetto della mentalità di Einstein, e dei pitagorici in genere, riscontrabile anche nella sua concezione scientifica. E che in sostanza consiste, nell’ambito della conoscenza, nel privilegiare il formalismo e la legge matematica precostituita, dunque la deduzione, rispetto al contesto induttivo.

È indicativa in tal senso la risposta, che con buona volontà valutiamo ironica, data dallo scienziato tedesco ad uno studente che gli chiedeva come avrebbe reagito se la sua teoria della relatività generale non fosse stata confermata sperimentalmente. Einstein rispose: <<In tal caso mi spiacerebbe proprio per il buon Dio: la teoria è giusta!>> (A. Einstein, Pensieri di un uomo curioso, Mondadori, Milano 1997, p. 124).

 In senso generico, si può addirittura rilevare, nella concezione einsteiniana, come un ineluttabile prevalere della legge analitica sull’ambito naturale. E questo aspetto è assai significativo, dal momento che proprio il predominio del “dover essere” sull’”essere” costituisce un luogo tipico delle utopie. Ne è esempio la teoria eliocentrica, nella quale, pur constatando i sensi il movimento del sole e la quiete terrestre, si afferma esattamente il contrario, dal momento che il modello teorico, ideologicamente precostituito, viene ritenuto superiore alla natura stessa. Infatti, <<perché si possa accettare l’ipotesi copernicana è necessario far violenza ai sensi. Dunque è necessario che “gli occhi della ragione” si aprano. Questa fede è pitagorica, non cristiana>> (M. Caleo, Galileo l’anticopernicano, Salerno 1992, p. 34).

Ripetutamente, Einstein dichiarò il rifiuto della tesi dell’immortalità dell’anima e la sua personale tendenza a concepire l’uomo esclusivamente nella stretta dimensione naturale, negando senza mezzi termini l’idea di un Dio Padre, disposto a mettersi in comunione con l’uomo, per accoglierlo in una beatitudine infinita. A questo riguardo egli, tra l’altro, dichiarò senza ombra di dubbio: <<Non credo in un Dio personale e non ho mai nascosto questa mia convinzione, anzi l’ho espressa chiaramente… L’immortalità? Ce ne sono di due tipi. Una vive nell’immaginazione delle persone, ed è perciò un’illusione. C’è un’immortalità relativa che può mantenere la memoria di una persona per qualche generazione. Ma c’è una sola vera immortalità, dal punto di vista cosmico, ed è l’immortalità del cosmo stesso. Non ce ne sono altre>> (in S. L. Jaki, Dio e i cosmologi, Città del Vaticano 1991, p. 66, nota 17).

Questa visione, più che altro interiore e misticheggiante dell’universo, sembra aver indotto Einstein a concepire un’immagine scientifica che la rispecchiasse. Egli infatti non solo non disgiunge le proprie convinzioni private dall’aspetto formale della propria teoria, ma ci tiene a generalizzare questa regola, dal momento che afferma: <<Ribadisco che è una religiosità cosmica il motivo più nobile della ricerca scientifica>> (Pensieri di un uomo curioso, p. 112).

Questa premessa, in un certo senso metodologica, suggerisce che sia la teoria della Relatività Ristretta che quella Generale possano considerarsi sostanzialmente come dottrine filosofiche, dal momento che al loro interno si è come inserito l’ideale che le ha ispirate, ovvero: il credo nel panteismo cosmologico. Queste teorie, pertanto, pur se formulate in rigoroso ed inoppugnabile linguaggio geometrico, rappresentano il fiore all’occhiello di un’ideologia fondata sull’immanenza. Dunque, tutta tesa alla ricerca di fattori interni alla dimensione reale, che ne giustifichino e ne rendano comprensibile l’esistenza. E come a conferma di tale prospettiva, lo scienziato tedesco dichiarò: <<Nessuna idea concepita dalla nostra mente è indipendente dai nostri cinque sensi>> (Ib., p. 119), intendendo così escludere di principio ogni possibile relazione fra Dio e l’uomo.

Secondo le linee tracciate dalla filosofia einsteiniana, l’universo appare come regolato da immutabili leggi matematiche le quali, quanto più si generalizzano, tanto più si idealizzano. Einstein però non chiarisce da dove si originino tali leggi, quale ne sia la fonte, o perché siano formulabili in questo modo particolare, e non in un altro.

Anzi, proprio la loro intelligibilità costituisce, a suo parere, il lato incomprensibile del mondo naturale. In quest’ottica di fondo, l’universo intero non può che obbedire e sottostare a leggi inviolabili ed eterne che non possiedono nessuna matrice logica, nessuna causa intelligibile, e che dunque possono essere persino ricollegate al mito, dal momento che: <<Tutto è determinato… da forze sulle quali non abbiamo alcun controllo. Lo è per l’insetto come per le stelle. Esseri umani, vegetali, o polvere cosmica, tutti danziamo al ritmo di una musica misteriosa, suonata in lontananza da un pifferaio invisibile>> (Ib., p. 110).

Questa musica suadente e misteriosa, suonata da un “pifferaio magico”, lega tutta la realtà al mito, ed al mito più oscuro, dal momento che come afferma lo scienziato ogni essere vivente è destinato (condannato) a danzare, senza comprenderne il motivo. È chiaro che tale prospettiva, caratterizzata da un determinismo inalterabile che esclude ogni libertà, non rappresenta che un’opinione. Tuttavia, il fatto di essere stata espressa da una delle più grandi personalità scientifiche di tutti i tempi, le attribuisce il fondamento e fascino che altrimenti non avrebbe.

 Non vogliamo di certo entrare nel merito delle convinzioni personali di Einstein riguardo all’esistenza dell’uomo e della divinità, pur dissentendone. Egli, infatti, alla luce della dottrina cristiana, dimostra di possedere una nozione alquanto oscura e primitiva di Dio, dal momento che giunge ad attribuirgli addirittura la responsabilità di tutte le sciocchezze compiute dall’uomo. Al punto da affermare che: <<la Sua non-esistenza sarebbe la sua unica scusante>> (A. Einstein, Pensieri di un uomo curioso, p. 109).

Al di là di tale sprezzante giudizio, che peraltro ignora l’argomento della libertà umana, e di come egli solo sia la causa del male che compie, riteniamo che proprio a causa di questa visione semplicistica e grezza della divinità, la filosofia einsteiniana non possa che fornire un quadro altrettanto fosco e aberrante del cosmo, caratterizzato da un assolutismo scientifico in cui pare dissolversi, insieme al valore proprio di ogni essere, il senso stesso di un mondo che perennemente esisterebbe di per sé, senza alcuna ragione intima, senza alcuna meta finale. Ma conclusione ancor più grave, senza alcuna possibilità di apertura  verso la dimensione sacra e trascendente.

Nessuna sorpresa dunque se, con l’affermarsi della Relatività, l’universo è divenuto simile ad un complesso labirinto, se non proprio groviglio, matematico, di esclusiva pertinenza della comunità e delle discipline scientifiche. Peraltro, proprio le celebri equazioni di Einstein, basi universali di questo mondo mitizzato, espresse in un linguaggio di certo non accessibile ai “profani”, hanno indotto ad assolutizzare la geometria, esaltandola al punto da ritenerla: <<non solo uno strumento concettuale creato per leggere l’armonia della natura, ma la logica stessa delle sue strutture, il mezzo con cui i concetti basilari di misura si insediano nella moltitudine delle leggi fisiche… La geometria presiede a tutte le regole della natura, quando essa cambia, tutto cambia di necessità>> (F. de Felice, Gli incerti confini del cosmo, Milano 2000, p. 28).

Il senso di questa affermazione è notevole, se non esagerato. Esso indica che il formalismo geometrico utilizzato nella teoria di Einstein, viene identificato  addirittura con il fenomeno fisico descritto, fino a prenderne il sopravvento, svuotandolo dunque di ogni consistenza oggettiva. Infatti, se davvero: <<la fisica costituisce un sistema logico di pensiero che si trova in uno stato di evoluzione, e le cui basi non si possono ottenere mediante un qualsiasi metodo induttivo, ma esclusivamente attraverso la libera invenzione>> (A. Einstein, Pensieri degli anni difficili, Torino 1965, p. 74), allora non possiamo pretendere di individuare una realtà ontologica effettiva in entità create “attraverso libere invenzioni”, ed esistenti perciò solo nella “fantasia razionale” dello scienziato.

Dovrebbe peraltro essere chiaro che l’incomprensibilità di alcune fondamentali e famose idee della teoria relativistica – il “secondo principio di relatività”, il continuum quadridimensionale dello spazio-tempo, la sua curvatura, ecc. –, trova origine nella pretesa (di per sé fondata) di voler attribuire un riscontro ed un senso reale ad entità matematiche, che invece, per loro stessa natura, esistono solo nella mente di chi le ha escogitate, unificando, attraverso “libere invenzioni”, ideologia privata, linguaggio formale ed enti reali.

Questa sintesi di dottrina-ragione-realtà, costituisce peraltro l’essenza più intima del pitagorismo iniziatico, adottato dalla metodologia scientifica moderna. Ma è proprio in tale unità che si cela l’insidioso passaggio dal vero del mondo, al verosimile della rappresentazione. Passaggio che spesso comporta l’acquisizione non solo di scienza palese, ma anche di dottrina (materialistica) mascherata.

Per Einstein infatti – al pari del suo amato maestro Spinosa, che non separò Dio dal mondo naturale –, il credo nella religiosità cosmica costituisce un tutt’uno con la sua, forse fin troppo celebrata, opera scientifica. Ed è per questo motivo che tutto l’edificio relativistico, che senza dubbio costituisce una delle più grandi acquisizioni della scienza moderna, è tuttavia come impregnato dall’idea di una “presenza” impersonale, che <<si rivela nell’armonia di tutto ciò che esiste, ma non in un Dio che si occupa del destino e delle azioni degli esseri umani>> (A. Einstein, Pensieri di un uomo curioso, p. 110). E proprio dalle nebbie di tale prospettiva, non può che emergere l’immagine di un mondo virtuale, senza senso, regolato da un “pifferaio invisibile”, che con la sua arcana musica trattiene “grandi” e “piccoli” all’interno di un regno dissacrato. Senza forma. E senza Re.


martedì 9 agosto 2011

LA MONTAGNA SACRA




Sant’Agostino, nella Vita beata (I, 3), scrive che il primo enorme ostacolo che incontrano gli amanti della sapienza è un altissimo monte, metafora del proprio io, mons saeculi, dominato dal diavolo. Tale montagna deve essere non solo temuta, ma evitata con cura, perché rende illusoria e vana qualunque pratica spirituale. A questa montagna, Agostino contrappone quella ineffabile, dominata da Cristo.

A ben vedere, queste due simboliche montagne in sostanza ne rappresentano una sola. Infatti, ogni uomo può considerarsi come una grande montagna, con una base, una struttura ed un vertice, dal quale si è attratti, giorno per giorno. In questo senso, la vetta della montagna rappresenta pertanto il punto più alto della terra rispetto al cielo, e dell’anima rispetto a Dio. Ma non solo.

Sulle linee della metafora, la vetta della montagna rappresenta in un certo senso il sacrificio massimo e perfetto che l’uomo possa compiere: l’offerta del proprio corpo e della vita a Dio (cfr. Rm 12, 1). La vita stessa può essere allora considerata come il processo di risalita della sacra montagna, o anche come l’annullarsi della propria coscienza in Dio. Ovvero, come il passaggio dalla concezione egocentrica del mondo e delle cose, a quella divina e cristocentrica.

Salendo la montagna infatti la visione si allarga, il panorama si distende, le cose stesse nel loro insieme assumono strutture più ampie e universali, prima impensabili. Questa salita simbolica si realizza effettivamente in modo privilegiato e infallibile mediante il quotidiano e pacificante ritmo delle liturgie, personali e comunitarie, attraverso le quali la Santa Chiesa celebra le continue risurrezioni del suo “corpo”, derivanti dall’unica e definitiva Risurrezione del suo Capo.

Infatti, il sacrificio salvifico del Cristo (cfr. 1 Cor 6, 20) costituisce il prezzo del nostro riscatto, la cifra del nostro innalzamento al cielo, dal momento che, sul monte dell’amore, la divinità si abbassa, l’umanità si innalza. È sulla croce che l’oblazione del Figlio al Padre, e del Padre al Figlio, è totale. È sulla croce che l’uomo viene innalzato nella divinità, al di sopra di tutti gli altri esseri. È dalla croce che Cristo ha aperto la porta del cielo, ha reso accessibile l’ingresso nel Regno, tracciando in sé la Via che consente a chiunque lo voglia di oltrepassare il mondo, e di dire al mons saeculi: <<Levati e gettati nel mare>> (Mc 11, 23), sicuro di essere esaudito.

La salita della montagna sacra corrisponde dunque al risveglio dell’immagine divina impressa in noi, attraverso il sacramento del battesimo. Giorno per giorno, il peso che ci lega alla terra, le forze che ci costringono nei bassifondi del nostro essere si affievoliscono, sotto l’azione continua e silenziosa della grazia. Il cui effetto di risalita è proporzionale alla consapevolezza della sua opera. Infatti, si può persino correre su rocce e lastroni, superando ad occhi chiusi le più insidiose morene, quando si prende coscienza che nulla potrà separarci dall’amore di Cristo (cfr. Rm 8, 35), nulla potrà slegarci dall’attrazione del suo amore eterno, per noi.

Può succedere che si cada, o che un passo stia per affondare nel vuoto. Ma proprio nel momento dell’insidia, un angelo allungherà la sua mano a nostra salvaguardia (cfr. Sal 90, 11-12). La roccia stessa (Mt 16, 18) correggerà quel passo, cancellerà l’errore. In virtù del sangue di Cristo, la pietra d’inciampo diventerà testata d’angolo, dal peccato eromperà la grazia del perdono.

Si sale celermente verso la vetta, quando si capisce che è impossibile che la grazia interrompa la propria azione. Infatti, non è l’uomo a salire, malgrado ne abbia forte sensazione e certezza. L’uomo è sempre e solo inesorabilmente attratto verso l’alto. Dunque, minore resistenza, maggiore attrazione.
Non c’è un percorso unico, uguale per tutti, che porti in cima alla vetta di noi stessi. Un tracciato facile per uno, può essere insidioso per l’altro. Nessuna via potrà mai essere uguale ad un'altra, per quanto simile. Occorre dunque risalire a proprio modo, senza temere troppo le difficoltà, sapendo che per tutti la Via maestra, malgrado le apparenze, è sempre una sola.
La libertà di risalita, e di vita, non deve però essere pretesto di peccato (cfr. Gal 5, 13), perché il peccato annulla la consapevolezza dell’azione della grazia, offusca gli occhi, e riporta rovinosamente ai piedi del monte che un giorno, senza particolari meriti, siamo stati chiamati a risalire ( cfr. Mc 3, 13).
Chi sale la montagna, sale nella solitudine. Restano indietro cose e persone. Crescono le distanze. Cresce il silenzio. Ma proprio quando la solitudine diventa estrema, insopportabile, estenuante. Proprio allora dobbiamo abbandonarci maggiormente all’azione della grazia, perché si è prossimi alla meta.
Infatti, poco distante, lassù, sulla cima, nel punto più alto della nostra “terra”, nel punto più basso del nostro “cielo”, siamo attesi, con impazienza. Da una piccola croce. La nostra croce. La nostra gloria. La manifestazione finale della nostra divinità. In Cristo. Eterna beatitudine.

Poiché l’anima non si distingue dal tempo, in noi stessi si ergono oltre le balze e le pianure, guglie maestose e possenti, inaccessibili agli altri. Io penso che i grandi momenti di esaltazione e di intimità con il Signore, vissuti nella transitorietà delle situazioni presenti, rappresentino le punte più alte della nostra montagna sacra, gli asintoti infiniti ed improvvisi del nostro tempo. Vette altissime disseminate fra miserie giornaliere.
Su questo paesaggio brulicante di vita e di persone regneremo incontrastati, quando verremo definitivamente assorbiti dall’Amore assoluto e universale, che non si adombra mai. Del quale continuamente ricerchiamo le tracce. Quaggiù. Tra le fatiche. Nelle pianure quotidiane.