domenica 19 dicembre 2010

IL SOLE DI FATIMA



L’esperienza religiosa coinvolge la sfera personale dell’individuo, in quanto soggettiva e del tutto incomunicabile. Essa è improvvisa, irripetibile, indimostrabile. Il silenzio mistico è l’espressione e l’enunciazione di tale ineffabile evento sperimentato nella profondità del proprio io. L’esatto contrario dell’esperienza scientifica che, per rientrare nei protocolli che la definiscono, deve essere ripetibile e verificabile in modo oggettivo dagli sperimentatori.
Questa premessa, in fondo scontata, è tuttavia necessaria per mettere a fuoco un aspetto del tutto trascurato del prodigioso evento che si verificò a Fatima il 13 ottobre 1917, durante la sesta ed ultima apparizione della Vergine, di fronte a circa 70 mila persone in attesa del «segno», predetto ai veggenti dalla Madonna.
Tale segno si verificò puntualmente, quando la visione giunse al termine.
In quel momento, infatti, Lucia esclamò: «Guardate il sole!». La pioggia, fino allora intensa, smise di cadere all’improvviso. Le nubi si aprirono. Comparve un sole splendido, che cominciò a muoversi, girando su se stesso vorticosamente, allontanandosi a zig zag dalla propria posizione, fin quasi a cadere sulla folla sconvolta. (1)
L’astro, animato da un movimento irregolare e rapidissimo, si spostava nel cielo, pulsando luce rossastra e bagliori innaturali. Questo, per circa dieci minuti. Poi, il sole riprese la sua posizione abituale, sopra una moltitudine di persone sbigottite e sgomente.
Anche la stampa anticlericale, che fino allora aveva irriso le apparizioni della Cova de Iria, fu costretta a riportare con enfasi sulle prime pagine dei giornali il prodigioso miracolo del sole, predetto dalla donna vestita di sole.
Quel giorno, a Fatima, propiziato dalla donna vestita di sole, si verificò qualcosa di non meno straordinario delle famose teofanie attestate dalle Sacre Scritture. Come a Giosuè, nella valle di Gabaon, ove il sole stette fermo in mezzo al cielo e non si affrettò a calare quasi un giorno intero (confronta Giosuè 10, 12-13); come, di fronte ad Ezechia, Deus Sábaoth fece retrocedere il sole di dieci gradi sulla scala della meridiana che aveva disceso (confronta Isaia 38, 8); come, durante la crocifissione di Cristo, il sole si eclissò per tre ore (confronta Matteo 27,45; Marco 15, 23; Luca 23, 44); così, quel giorno, nella Cova de Iria, l’astro possente, il terribile «sol invictus», venne scosso dalla propria posizione e fatto sobbalzare qui e là nel cielo come una innocua palla, davanti agli occhi di una moltitudine attonita.
L’evento fu ancora più eccezionale se consideriamo che il sole, secondo il paradigma eliocentrico, costituisce il centro del sistema solare, il punto nevralgico, l’unico elemento inamovibile della compagine planetaria, che garantisce la stabilità e l’esistenza stessa del nostro sistema. Un minimo spostamento del sole sarebbe causa di ineluttabili conseguenze apocalittiche. Infatti, i pianeti orbitanti intorno ad un centro improvvisamente venuto a mancare, crollerebbero in un attimo, come un castello di carte. Eppure, a Fatima, il 13 ottobre 1917, si verificò proprio questo fatto, per la scienza del tutto inconcepibile. Dunque, o tale segno è stato un’allucinazione collettiva, una psicosi di massa, o la teoria eliocentrica in tale occasione è stata palesemente smentita.
Accettato il fatto, resta da comprenderne il messaggio. Proviamo allora ad aggiungere all’evento di Fatima un significato ulteriore e cosmologico. Ovvero, interpretiamolo come una sorta di lezione di teologia della natura, impartitaci dal Signore per suggerirci che il sole non svolge un ruolo puramente scientifico espresso dal sistema copernicano. Dietro la sua immagine razionale, si nasconde un cuore oscuro, direttamente collegato al culto solare arcaico che dall’indoeuropeo si radicò nelle prime forme di civiltà, dai babilonesi, ai caldei, agli egiziani, ai persiani. Fino ai nostri giorni.
Già Thomas Paine, fazioso assertore della rivoluzione americana, scrisse nel famoso libro An Essay on the Origin of Free Masonry, che il culto del sole celebrato dagli antichi egizi e dai druidi celtici, evocato anche da Pitagora sotto forma di “fuoco centrale”, è stato ripreso in tutta la sua essenza dalla massoneria, a partire dal soffitto delle logge massoniche, ornate con il sole, che simbolicamente splende sulle mattonelle chiare e scure, che richiamano l’ombra e la luce che si riversa e determina sulla varietà degli esseri.
Inoltre Paine afferma che: <<il significato emblematico del Sole è ben noto alla Massoneria illuminata e ricercatrice: e come il Sole reale è situato al centro dell’universo, così il Sole emblematico è al centro della Massoneria reale. Noi tutti sappiamo che il Sole è la fontana della luce, la sorgente delle stagioni, la causa del susseguirsi del giorno e della notte, il sostegno della vegetazione, l’amico dell’uomo: quindi solo il Massone sapiente sa la ragione per la quale il Sole è posto al “centro” di questa bella sala>>.
Il “centro” svolge un ruolo primario all’interno del linguaggio simbolico. Infatti, tra i molti simboli e contrassegni utilizzati dalla massoneria: <<alcuni sono notissimi, altri meno noti. Ma, fra tutti, il più potente è, paradossalmente, quello meno conosciuto agli esterni: un cerchio con al centro un punto … il fine ultimo della società si rifà a questo semplice segno, la cui origine si perde nella notte dei tempi>> (L. Gardner, I segreti della massoneria – L’ombra di Salomone, Newton Compton Editori, Roma 2006, pp. 27).
L’antico simbolo del cerchio con il punto centrale era denominato dagli egizi: <<il “centro” (“l’occhio”) e lo si immaginava presente là dove era conservato il più grande di tutti i segreti>> (Ivi, p. 338). Ad esso si riallacciano le cosiddette <<ruote solari>> e <<swastike>>, <<rosa camuna>> compresa, nel cui centro agirebbe, secondo il simbolismo vedico, l’“energia divina”, <<Agni>>, che muoverebbe il tutto (aristotelicamente) senza muoversi, in virtù della sua misteriosa essenza superiore (cfr R. Guénon, Il simbolismo della croce, Luni Editrice, Milano 2002, p. 155).
Il simbolo del centro, o dell’uovo primordiale, 8 richiama altresì la cosmogonia egizia, basata sulla centralità e divinità del sole, il quale governa e lega a sé le dimensioni visibili ed invisibili del mondo in virtù del suo ruolo altamente “carismatico”. Gli stessi pitagorici alludevano al simbolo solare egizio del centro, quando celebravano i riti segreti in onore del “sacro fuoco”, che il pitagorico Filolao cercò di trasformare in una rudimentale immagine razionale della realtà, ipotizzando il sole fermo e la terra in rotazione intorno ad esso. Finché, nella ambigua epoca rinascimentale, Copernico riportò il modello eliocentrico alla ribalta.
Nella sua opera, Copernico cita direttamente sia il pitagorico Filolao che Ermete, il Trismegisto, per dar credito ad una tesi del tutto inconcepibile secondo i canoni della logica classica che pone il fondamento della verità nell’ente reale. Infatti prove scientifiche a favore dell’eliocentrismo lì per lì non ce n’erano. Solo argomenti più sconclusionati di quelli che si volevano contestare. Argomenti che vennero puntualmente smentiti e modificati dalla stessa scienza, nel momento in cui tutta la comunità scientifica mondiale si impegnò a dimostrare la validità di un’idea astratta, tuttavia già accettata e presa per buona sulla base di argomentazioni ideologiche.   
Infatti, <<Non furono nuove scoperte astronomiche o osservazioni del cielo più esatte e minuziose a motivare Copernico a rifiutare l’astronomia geocentrica di Tolomeo e a sostituirla con un sistema eliocentrico … quando infatti concludeva che l’astronomia tolemaica non poteva essere corretta, lo faceva in gran parte per ragioni diverse da prove fisiche. Forse, l’inizio della rivoluzione scientifica non fu tanto scientifico, o almeno non nel modo in cui noi intendiamo comunemente la parola “scientifico”>> (K. Ferguson, La musica di Pitagora, Longanesi, Milano 2009, p. 260, corsivi nostri).
Se dunque consideriamo il modello eliocentrico come il baluardo della religiosità naturalistica e della nuova immagine (massonica) del mondo, ovvero come una maschera del culto solare, allora il miracolo di Fatima può intendersi come una teofania sostanzialmente contraria ad una teoria che, sotto la parvenza scientifica, nasconde un cuore «egizio». Cuore che celebra il sole come l’anima mundi, Helios, Heros, Horus. Ovvero, la <<bestia>> corrispondente al 666. Nella cabala tale numero rappresenta il sole.  
L’aspetto esoterico del sole è invece celebrato per sommi capi nel capitolo XVII del Poimandres, ove Ermete parla di “sfere planetarie”, lasciando chiaramente intendere la loro natura spirituale, più che sensibile. Infatti, le sfere planetarie di cui parla il Trismegisto citato da Copernico, al pari di “gironi” infernali, sono composte dai <<cori dei demoni>>, schierati in assetto militare, pronti ad intervenire ed interagire con la dimensione storica. In concreto, afferma il Trismegisto, questi demoni sottoposti allo spirito-sole centrale: <<hanno ricevuto in sorte il potere sulle vicende e sui disordini della terra. Vi operano ogni genere di scompiglio, per le città e le popolazioni in generale, e per ciascun individuo in particolare, ecc.>>.


Nel miracolo di Fatima possiamo allora scorgere da una parte un segno rivolto ai cultori del sole che ancora si riuniscono nelle segretezze delle cerchie iniziatiche. Dall’altra, come un invito a ricercare un modello del mondo più in linea con la Parola e con il «senso comune» di quanto lo sia quello proposto dalla scienza moderna. Le Sacre Scritture, infatti, fedeli interpreti della natura, la descrivono così com’è, e come ci appare. Non è vero, come diceva Galilei nelle «Lettere Copernicane», che la Bibbia contraddice la natura.
È vero piuttosto che la Bibbia contraddice l’immagine che l’uomo si è voluta costruire del mondo naturale, da un certo periodo in poi, sulla base di un’ideologia eretica, fondata sull’identità, sottintesa, di scienza e dottrina. San Paolo ci ammonisce ripetutamente circa la possibilità di essere ingannati da false immagini del mondo, per colpa di una fede distorta (cfr Col 1,8; Rom 1, 20,22). Se invece il volere di Dio è effettivamente quello di «ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra» (Ef 1,10) e di centrare la totalità degli esseri nella «vera realtà che è Cristo» (Col 2,17), allora diventa un “dovere” cristiano sostenere con la forza della fede e della vita di grazia, prima ancora che con i pur necessari argomenti di ragione, l’immagine cristocentrica del mondo. (2)
Immagine metafisica concreta (3), che trascende quella scientifico-pitagorica (4), e che pone al centro del mondo, non il sole rinascimentale, né tanto meno la terra, o l’uomo. Ma il vero e solo principio di tutte le cose (cfr Col 1, 16): Gesù Maestro, Verità, Via e Vita. Infatti, mentre Cristo è già uno col Padre e con lo Spirito Santo in ordine alla sua divinità, incarnandosi ha unito a sé la natura umana, sintesi di materia e di spirito: «In tal modo tutto l’Universo è ricapitolato in Cristo in una sintesi mirabile e divina». (5)



Note
1)
Cfr A. Borelli, «Fatima: Messaggio di tragedia o di speranza?», Associazione Luci sull’Est, Roma 2004, pagine 38-42.
2) Cfr G. Biffi, «Il primo e l’ultimo - Estremo invito al cristocentrismo», Piemme, 2003, pagina 17: «Il cristocentrismo di cui vogliamo trattare noi è il convincimento che nel Redentore crocifisso e risorto - pensato e voluto per se stesso entro l’unico disegno del Padre - è stato pensato e voluto tutto il resto; sicchè, sia per quel che attiene alla dimensione creaturale, sia per quel che attiene alla dimensione redentiva ed elevante, ogni essere desume da Cristo la sua intima costituzione, le sue intrinseche prerogative, la sua sostanziale ed inesorabile vocazione».
3) «La metafisica è un sapere di ciò che è strettamente ‘reale’; di ciò che è, ‘così’ e ‘come’ effettivamente è; e non di una ‘nozione’ più o meno vaga e astratta», T. Melendo, «Metafisica del concreto», editrice Leonardo da Vinci, 2000, pagina 20.
4) «Se c’è un tipo di conoscenza che tende all’astrattezza e che talvolta deve disinteressarsi di proposito dei problemi della vita è proprio è proprio la conoscenza scientifica non - metafisica (…). Gli aspetti importanti della realtà sono quelli che vengono colti dal senso comune prima, e poi dalla riflessione metafisica; non certamente dalla matematica, malgrado quello che alcuni matematici si ostinino ancora a pensare e a dire», A. Livi, «Prefazione», in T. Melenso, citato pagina 10.
5) Cfr AA VV, «L’eredità cristocentrica di don Alberione», edizioni Paoline, 1989, pagine 259, numero 139.

domenica 12 dicembre 2010

SCIENZA E GRAZIA



Tra i molteplici personaggi rappresentativi del XX secolo, Einstein e padre Pio hanno svolto un ruolo del tutto particolare, anche se espresso negli ambiti diversi della scienza umana e della sapienza divina. Non sarebbe nemmeno possibile un raffronto fra essi, vista la disparità delle categorie in gioco. Intendiamo tuttavia utile abbozzare un rapido raffronto, non solo per evidenziare l’erronea la pretesa degli scientisti, più che degli scienziati, di trovare nella scienza razionale le linee esclusive per giungere alla soluzione di ogni problema e speranza umana. Ma anche per richiamare uno dei principi paolini che più stanno a cuore ai credenti. Ossia, il <<recapitulare omnia in Christo>> (Ef 1, 10), ricondurre ogni cosa in Cristo, “Via unica per andare al Padre”, nonché depositario di <<tutti i tesori della sapienza e della scienza>> (Col 2, 3).

Balza subito agli occhi allora che la scienza moderna non rappresenta una condizione necessaria per acquisire la Sapienza <<che è un’emanazione della potenza di Dio>> (Sap 7, 25) e che pertanto costituisce un dono gratuito della grazia divina. È molto probabile infatti, senza offesa per il santo, che Padre Pio ignorasse del tutto la teoria di Einstein sullo spazio-tempo e le “delizie” relative al tensore di Riemann-Christoffel. Eppure, egli era in grado di svolazzare a piacere nel “cronotopo” di Minkowski faticosamente indagato da Einstein, pur restando rinchiuso nella sua cella in Monte Rotondo. Egli stesso confidò: <<La notte vado sempre girando. Non c’è bisogno dell’obbedienza dei superiori>> (in G. Martinetti, Le prove dell’aldilà, Rizzoli, Milano 1990, p. 121), alludendo alle sue esperienze sulla bilocazione.

I viaggi di padre Pio erano istantanei, non avevano durata e gli consentivano di trovarsi immediatamente nel luogo d’arrivo, anche a migliaia di chilometri di distanza, violando così i “principi primi” della teoria della relatività ristretta. Il santo si presentava con un corpo del tutto simile a quello rimasto nel convento del Gargano. Conversava, pregava, o assisteva silenziosamente l’interlocutore, manifestando talora la sua “visita” con il famoso effluvio di profumo. Libri e libri di testimonianze in proposito.

Benché attestati da santi venerati ufficialmente dalla Chiesa, la scienza in genere sembra nutrire una sorta di timore per questi fenomeni che la contraddicono. Li stigmatizza, relegandoli direttamente nell’ambito della superstizione, senza indagarli seriamente. La totalità dei santi dotati di doni mistici affermano invece la realtà del fenomeno mistico della bilocazione. Fenomeno che non consiste nel vedere qualcosa a distanza come nell’evanescenza di un sogno o come un film proiettato su uno schermo lontano. Ma nell’immergersi concretamente nelle coordinate fisiche del luogo visitato, ben sapendo che il corpo materiale è rimasto altrove. Inoltre, durante la bilocazione, forte è la consapevolezza del mistico di essere in un altro corpo, del tutto simile a quello carnale ed in un certo senso ad esso complementare.

I santi mistici dunque hanno sperimentato già in vita la realtà di quel <<corpo celeste>> nel quale, in virtù del potere redentivo di Cristo <<tutti saremo trasformati>> (1 Cor 15, 49-51). Secondo san Tommaso, questo nuovo corpo non si corrompe, non invecchia, non soffre. È agile e può spostarsi nello spazio in moto rapidissimo. È dotato di sensi superiori. È leggero e sottile, del tutto soggetto alla volontà. È in grado di attraversare la materia solida. Può apparire e scomparire a piacimento. Rimane giovane per sempre, non è soggetto a bisogni fisici di alcun tipo, né tantomeno ad appetiti o istinti di vario genere (S. Th. Suppl. 82, 1, 6 e sgg).

I santi che hanno sondato misteriosamente la realtà divina pur essendo ancora immersi nella realtà terrena, più che da una grande cultura o genialità intellettuale, sono accomunati da una fondamentale caratteristica evangelica: la semplicità di cuore, tanto cara a Gesù. Che infatti esclamò: <<Ti benedico o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli …>> (Mt 11, 25). E sulla stessa linea san Paolo aggiunse che: <<Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti … perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio>> (1 Cor 1, 27-29).

Per questa predilezione divina, e non per le loro doti intellettuali o culturali, i santi sono stati in grado di superare le più inflessibili leggi della natura, pur senza conoscerle, sperimentando così che davvero: <<La sapienza è il più agile di tutti i moti; per la sua purezza si diffonde e penetra in ogni cosa>> (Sap 7, 24). È pertanto del tutto probabile, per non dire certo, che essi non sarebbero stati nemmeno in grado di spiegare secondo le linee della ragione terrena la “metodologia” attraverso la quale riuscivano a slacciarsi dalle ferree leggi della materia impenetrabile e del tempo che scorre irreversibilmente dal passato verso il futuro. Avrebbero tuttalpiù confermato la nota regola ascetica che pone il distacco interiore da questo mondo, e dalla gabbie mentali imposte dalla scienza dominante, come condizione necessaria per innalzarsi verso le perfezioni eterne della realtà divina.

D’altra parte, all’ignoranza dei santi circa la scienza moderna corrisponde quella degli scienziati non solo riguardo alla religione, in particolare quella cattolica. Ma anche nei confronti della ben certa realtà trascendente, della quale questa non è che un confuso e transitorio riflesso. Non per niente sant’Agostino già ai suoi tempi annotava che:<<Le divine Scritture insegnano a evitare e irridere non tutti i filosofi, ma i filosofi di questo mondo. C’è infatti un altro mondo, lontanissimo da questi occhi, che l’intelletto di pochi sani riesce a vedere, come afferma lo stesso Cristo, che non dice: Il mio Regno non è del mondo, ma: Il mio Regno non è di questo mondo>> (De ordine, 11, 32).

Sta di fatto che il grande Einstein non riuscì a percepire minimamente la presenza di questo “altro mondo” definitivo e perfetto, semplicemente perché non credeva che la fede sia in grado arricchire enormemente la ragione e non certo di mortificarla. Questa sua chiusura verso la trascendenza ha reso la sua dottrina scientifica un riflesso del suo panteismo cosmico all’interno del quale restò come relegato. E nel quale relegò i suoi epigoni. Egli dunque non entrò in “contatto” con la dimensione divina e con quel Dio nel quale peraltro non credeva secondo i corretti canoni del cristianesimo. Ebbe forse altri tipi di “contatti”. Upton Sinclair riferisce infatti che Einstein partecipò ad una seduta spiritica, durante la quale riuscì in assenza del medium a far sollevare un tavolino, dimostrando così di possedere particolari doti medianiche, se non proprio di essere egli stesso il medium (L. Talamonti, Universo proibito, Mondadori, Milano 1971, p. 285).

Sembra proprio allora che più delle equazioni, più dei diagrammi e delle eleganti formalizzazioni matematiche di Einstein, possano le tradizionali pratiche di pietà (santa Messa, Sacramenti, Rosario) tanto raccomandate da padre Pio, ma del tutto estranee ai protocolli della scienza induttiva. Già Galilei d’altronde sulle linee del cardinal Baronio affermò che le Sacre Scritture, e la religione, servirebbero unicamente per farci andare in cielo, ma non per dirci come va il cielo. Di conseguenza, la scienza galileiana, essendo di principio estranea alla Parola di Dio e circoscritta alla descrizione, ma non alla comprensione, della realtà naturale, non serve a farci entrare nel regno dei cieli. La sua utilità è allora puramente mondana. Non consente all’uomo di aprirsi alla trascendenza. Non lo eleva spiritualmente, non gli permette di sviluppare armonicamente la sua personalità migliorando nel contempo la società. Né tantomeno gli insegna ad essere umile di fronte a Dio ed agli altri. La scienza gratifica la persona materialmente, attraverso le pur mirabili ed utili scoperte della tecnica, tuttavia non prive di risvolti negativi. Il “bene” della scienza, infatti, come quello della famosa mela, sembra essere “umano, troppo umano”, poiché purtroppo sempre associato al “male”.


venerdì 5 novembre 2010

“IL PIFFERAIO MAGICO” DI EINSTEIN


Sottolineiamo la velata presenza all’interno di una teoria scientifica, al di là dei suoi contenuti specifici, di un risvolto di innegabile consistenza, e che investe l’inscindibile relazione che collega l’opera dello scienziato alla sua ideologia[1]. Infatti, come se scienza e matematica costituissero un veicolo per trasmettere contenuti che le trascendono, le convinzioni di natura filosofica degli scienziati risultano in qualche modo trasposte ed inserite all’interno delle loro enunciazioni formali, non sempre in modo evidente.
Questa tendenza a trasmettere attraverso il sistema della scienza personali concezioni del mondo costituisce la caratteristica primaria del pitagorismo, o se si vuole della mentalità iniziatica. Che ovviamente non si è estinta, ma si evidenzia altresì al giorno d’oggi nei settori culturali più disparati. Nell’ambito della fisica moderna, ad esempio, al di sotto dei raffinati assetti formali, è presente un carattere di fondo che confluisce in una visione misticheggiante della realtà, di tendenza panteista ed eraclitea[2].
Per dimostrare quanto affermato, prenderemo in considerazione alcune significative dichiarazioni di Albert Einstein, il più famoso scienziato dell’epoca moderna, che rientrano nella sfera delle proprie concezioni personali, ma che riecheggiano anche nelle sue opere strettamente scientifiche, per lo meno come premesse. Spesso, infatti, lo scienziato tedesco nei suoi scritti è solito unificare due aspetti tipici del sapere, di per sé differenziati: misticismo e razionalismo. Mistica e ragione hanno infatti caratterizzato e determinato la sua personale visione del mondo, generalizzata e tradotta in dottrina scientifica. La sua fede nella religione cosmica, nel dio di Spinoza[3] per intenderci, lo ha portato ad esaltare la dimensione naturale e relativa della realtà, nella quale intendeva ricercare le tracce eterne di una presunta divinità, tuttavia senza persona.
Può essere utile ricordare che l’esaltazione della legge cosmica dell’eterno divenire, alla quale secondo questa linea interpretativa sarebbe soggetta la totalità degli enti, sottintende un’inevitabile svalutazione dell’essere individuale e della realtà presente. Einstein confermò tale implicazione, affermando che: <<Mi sento talmente parte di tutto ciò che vive che non m’importano per niente l’inizio e la fine dell’esistenza concreta di una singola persona in questo flusso eterno>>[4].
Questa fredda dichiarazione, che allude all’esistenza di una regola generale (flusso eterno) alla quale ogni individuo sarebbe inevitabilmente soggetto, evidenzia un tipico aspetto della mentalità di Einstein, e dei pitagorici in genere, riscontrabile anche nella sua concezione scientifica. E che in sostanza consiste, nell’ambito della conoscenza, nel privilegiare il formalismo e la legge matematica precostituita, dunque la deduzione, rispetto al contesto induttivo.
È indicativa in tal senso la risposta, che con buona volontà valutiamo ironica, data dallo scienziato tedesco ad uno studente che gli chiedeva come avrebbe reagito se la sua teoria della relatività generale non fosse stata confermata sperimentalmente. Einstein rispose: <<In tal caso mi spiacerebbe proprio per il buon Dio: la teoria è giusta!>>.[5]

Determinismo pitagorico
In senso generico, si può addirittura rilevare, nella concezione einsteiniana, come un ineluttabile prevalere della legge analitica sull’ambito naturale. E questo aspetto è assai significativo, dal momento che proprio il predominio del “dover essere” sull’”essere” costituisce un luogo tipico delle utopie[6]. Ne è esempio la teoria eliocentrica, nella quale, pur constatando i sensi il movimento del sole e la quiete terrestre, si afferma esattamente il contrario, dal momento che il modello teorico, ideologicamente precostituito, viene ritenuto superiore alla natura stessa. Infatti, <<perché si possa accettare l’ipotesi copernicana è necessario far violenza ai sensi. Dunque è necessario che “gli occhi della ragione” si aprano. Questa fede è pitagorica, non cristiana>>[7].
Ripetutamente, Einstein dichiarò il rifiuto della tesi dell’immortalità dell’anima e la sua personale tendenza a concepire l’uomo esclusivamente nella stretta dimensione naturale, negando senza mezzi termini l’idea di un Dio Padre, disposto a mettersi in comunione con l’uomo, per accoglierlo in una beatitudine infinita. A questo riguardo egli, tra l’altro, dichiarò senza ombra di dubbio: <<Non credo in un Dio personale e non ho mai nascosto questa mia convinzione, anzi l’ho espressa chiaramente… L’immortalità? Ce ne sono di due tipi. Una vive nell’immaginazione delle persone, ed è perciò un’illusione. C’è un’immortalità relativa che può mantenere la memoria di una persona per qualche generazione. Ma c’è una sola vera immortalità, dal punto di vista cosmico, ed è l’immortalità del cosmo stesso. Non ce ne sono altre>>[8].
Questa visione, più che altro interiore e misticheggiante dell’universo, sembra aver indotto Einstein a concepire un’immagine scientifica che la rispecchiasse. Egli infatti non solo non disgiunge le proprie convinzioni private dall’aspetto formale della propria teoria, ma ci tiene a generalizzare questa regola, dal momento che afferma: <<Ribadisco che è una religiosità cosmica il motivo più nobile della ricerca scientifica>>[9].
Questa premessa, in un certo senso metodologica, suggerisce che sia la teoria della Relatività Ristretta che quella Generale possano considerarsi sostanzialmente come dottrine filosofiche, dal momento che al loro interno si è come inserito l’ideale che le ha ispirate, ovvero: il credo nel panteismo cosmologico. Queste teorie, pertanto, pur se formulate in rigoroso ed inoppugnabile linguaggio geometrico, rappresentano il fiore all’occhiello di un’ideologia fondata sull’immanenza. Dunque, tutta tesa alla ricerca di fattori interni alla dimensione reale, che ne giustifichino e ne rendano comprensibile l’esistenza. E come a conferma di tale prospettiva, lo scienziato tedesco dichiarò: <<Nessuna idea concepita dalla nostra mente è indipendente dai nostri cinque sensi>>[10], intendendo così escludere di principio ogni possibile relazione fra Dio e l’uomo.
Secondo le linee tracciate dalla filosofia einsteiniana, l’universo appare come regolato da immutabili leggi matematiche le quali, quanto più si generalizzano, tanto più si idealizzano. Einstein però non chiarisce da dove si originino tali leggi, quale ne sia la fonte, o perché siano formulabili in questo modo particolare, e non in un altro.
Anzi, proprio la loro intelligibilità costituisce, a suo parere, il lato incomprensibile del mondo naturale. In quest’ottica di fondo, l’universo intero non può che obbedire e sottostare a leggi inviolabili ed eterne che non possiedono nessuna matrice logica, nessuna causa intelligibile, e che dunque possono essere persino ricollegate al mito, dal momento che: <<Tutto è determinato… da forze sulle quali non abbiamo alcun controllo. Lo è per l’insetto come per le stelle. Esseri umani, vegetali, o polvere cosmica, tutti danziamo al ritmo di una musica misteriosa, suonata in lontananza da un pifferaio invisibile>>[11].
Questa musica suadente e misteriosa, suonata da un “pifferaio magico”, lega tutta la realtà al mito, ed al mito più oscuro, dal momento che come afferma lo scienziato ogni essere vivente è destinato (condannato) a danzare, senza comprenderne il motivo. È chiaro che tale prospettiva, caratterizzata da <<un determinismo astrologico che esclude ogni libertà>>[12], non rappresenta che un’opinione. Tuttavia, il fatto di essere stata espressa da una delle più grandi personalità scientifiche di tutti i tempi, le attribuisce il fondamento e fascino che altrimenti non avrebbe.

Un regno senza Re
Non vogliamo di certo entrare nel merito delle convinzioni personali di Einstein riguardo all’esistenza dell’uomo e della divinità, pur dissentendone. Egli, infatti, alla luce della dottrina cristiana, dimostra di possedere una nozione alquanto oscura e primitiva di Dio, dal momento che giunge ad attribuirgli addirittura la responsabilità di tutte le sciocchezze compiute dall’uomo. Al punto da affermare che: <<la Sua non-esistenza sarebbe la sua unica scusante>>[13].
Al di là di tale sprezzante giudizio, che peraltro ignora l’argomento della libertà umana, e di come egli solo sia la causa del male che compie, riteniamo che proprio a causa di questa visione semplicistica e grezza della divinità, la filosofia einsteiniana non possa che fornire un quadro altrettanto fosco e aberrante del cosmo, caratterizzato da un assolutismo scientifico in cui pare dissolversi, insieme al valore proprio di ogni essere, il senso stesso di un mondo che perennemente esisterebbe di per sé, senza alcuna ragione intima, senza alcuna meta finale. Ma conclusione ancor più grave, senza alcuna possibilità di apertura  verso la dimensione sacra e trascendente.
Nessuna sorpresa dunque se, con l’affermarsi della Relatività, l’universo è divenuto simile ad un complesso labirinto, se non proprio groviglio, matematico, di esclusiva pertinenza della comunità e delle discipline scientifiche. Peraltro, proprio le celebri equazioni di Einstein, basi universali di questo mondo mitizzato, espresse in un linguaggio di certo non accessibile ai “profani”, hanno indotto ad assolutizzare la geometria, esaltandola al punto da ritenerla: <<non solo uno strumento concettuale creato per leggere l’armonia della natura, ma la logica stessa delle sue strutture, il mezzo con cui i concetti basilari di misura si insediano nella moltitudine delle leggi fisiche… La geometria presiede a tutte le regole della natura, quando essa cambia, tutto cambia di necessità>>[14].
Il senso di questa affermazione è notevole, se non esagerato. Esso indica che il formalismo geometrico utilizzato nella teoria di Einstein, viene identificato  addirittura con il fenomeno fisico descritto, fino a prenderne il sopravvento, svuotandolo dunque di ogni consistenza oggettiva. Infatti, se davvero: <<la fisica costituisce un sistema logico di pensiero che si trova in uno stato di evoluzione, e le cui basi non si possono ottenere mediante un qualsiasi metodo induttivo, ma esclusivamente attraverso la libera invenzione>>[15], allora non possiamo pretendere di individuare una realtà ontologica effettiva in entità create “attraverso libere invenzioni”, ed esistenti perciò solo nella “fantasia razionale” dello scienziato.
Dovrebbe peraltro essere chiaro che l’incomprensibilità di alcune fondamentali e famose idee della teoria relativistica – il “secondo principio di relatività”, il continuum quadridimensionale dello spazio-tempo, la sua curvatura, ecc. –, trova origine nella pretesa (di per sé fondata) di voler attribuire un riscontro ed un senso reale ad entità matematiche, che invece, per loro stessa natura, esistono solo nella mente di chi le ha escogitate, unificando, attraverso “libere invenzioni”, ideologia privata, linguaggio formale ed enti reali.
Questa sintesi di dottrina-ragione-realtà, costituisce peraltro l’essenza più intima del pitagorismo iniziatico, adottato dalla metodologia scientifica moderna. Ma è proprio in tale unità che si cela l’insidioso passaggio dal vero del mondo, al verosimile della rappresentazione. Passaggio che spesso comporta l’acquisizione non solo di scienza palese, ma anche di dottrina (materialistica) mascherata.
Per Einstein infatti – al pari del suo amato maestro Spinosa, che non separò Dio dal mondo naturale –, il credo nella religiosità cosmica costituisce un tutt’uno con la sua, forse fin troppo celebrata, opera scientifica. Ed è per questo motivo che tutto l’edificio relativistico, che senza dubbio costituisce una delle più grandi acquisizioni della scienza moderna, è tuttavia come impregnato dall’idea di una “presenza” impersonale, che <<si rivela nell’armonia di tutto ciò che esiste, ma non in un Dio che si occupa del destino e delle azioni degli esseri umani>>[16].
E proprio dalle nebbie di tale prospettiva, non può che emergere l’immagine di un mondo virtuale, senza senso, regolato da un “pifferaio invisibile”, che con la sua arcana musica trattiene “grandi” e “piccoli” all’interno di un regno dissacrato. Senza forma. E senza Re.



[1] R. Hanson afferma che non è mai possibile una “osservazione immacolata” dei fenomeni, poiché gli asserti osservativi che esprimono i dati empirici, sono sempre “carichi di teoria”. In base a questa osservazione, ci sembra possibile penetrare il senso ultimo di una teoria scientifica, che si riveste dei contenuti ideologici dello scienziato, spesso fonte della stessa indagine conoscitiva. Confronta N. R. Hanson, in A. Rebaglia, Scienza e verità – Introduzione all’epistemologia del Novecento, Paravia, Torino 1997, p. 154 e seguenti.
[2] <<La tendenza dominante nella fisica moderna segue Eraclito. Tuttavia, il Logos di Eraclito era una dialettica vaga: un discorso che non si originava dal concreto, né vi ritornava; mentre solo una dialettica concreta [materialistica, ndr] è in grado di cogliere la natura dinamica degli oggetti fisici>>, E. Bitsakis, Basi della fisica moderna, Ed. Dedalo, Bari 1992, p. 23.
[3] <<Credo nel dio di Spinosa che si rivela nell’armonia di tutto ciò che esiste, ma non in un dio che si occupa del destino e delle azioni degli esseri umani>>, telegramma inviato da Einstein a Rabbi Herbert S. Goldstein, <<New York Times>>, 25 aprile 1929, p. 60, col. 4.
[4] Lettera di Einstein a Hedwig Born, 18 aprile 1920.
[5] A. Einstein, Pensieri di un uomo curioso, Mondadori, Milano 1997, p. 124.
[6] Confronta G. Di Bernardo, La ricostruzione del Tempio, Marsilio, Venezia 1996, p. 71 e seguenti.
[7] M. Caleo, Galileo l’anticopernicano, Dottrinari, Salerno 1992, p. 34.
[8] Citato in S. L. Jaki, Dio e i cosmologi, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1991, p. 66 e nota 17.
[9] A. Einstein, Pensieri di un uomo curioso, citato, p. 112.
[10] Ibidem, p. 119.
[11] Ibidem, p. 110.
[12] Giovanni di Salisbury a proposito della dottrina aristotelica dell’astrazione. In E. Gilson, La filosofia di San Bonaventura, Jaka Book, Milano 1994, p. 11.
[13] A. Einstein, Pensieri di un uomo curioso, citato, p. 109.
[14] F. de Felice, Gli incerti confini del cosmo, Mondadori, Milano 2000, p. 28.
[15] A. Einstein, Pensieri degli anni difficili, Boringhieri, Torino 1965, p. 74.
[16] A. Einstein, Pensieri di un uomo curioso, citato, p. 110.