Più che mai, in questo tempo dove lo scandalo e la
crisi dilagano, anche dove non dovrebbero, è bene tenere a mente che: «Appartiene
alla bontà di Dio il permettere che esistano dei mali, per trarre da essi dei
beni»[1].
Un istruttivo esempio di questa strategia, messa in atto dalla Provvidenza per sopraffare
il male, ci è dato dall’ultimo tratto di storia della sulfurea ed angelica città
di Torino.
Secondo
un’antica leggenda, la popolazione nordica dei Taurisci discese dal sacro monte
Thor, finché giunse e stazionò nell’attuale pianura torinese, dove i fiumi Dora
e Po confluiscono, formando una ipsilon Y. Simbolo che richiama la scissione
dell’unità, il divide et impera,
ossia la logica del diavolo. Questa popolazione si stabilì nella spianata
torinese, protetta dalla maestosa schiera alpina, perché i monti e la pietra
venivano posti in relazione al Sole. La roccia, difatti, conserva ancora il
calore, quando l’astro scompare. Si pensava allora che il potere del Sole fosse
effettivamente presente all’interno della roccia. Del resto, gli antichi popoli
ricavavano il fuoco dallo sfregamento delle pietre, quasi a comprova che la
potenza dell’astro splendente fosse presente nelle rocce e nei «betili», reputati
come dimore della divinità solare.
Successivamente, avvenne la filiazione egizia di Torino. Fu il
barone savoiardo, Filiberto Pingone (1525-1582), che nella sua opera, Augusta
Taurinorum, citando uno
studio del frate domenicano, Annio da Viterbo (1432-1502), ricondusse la vera
fondazione della città, nel 1529 a. C., quando il figlio di Iside, Fetonte o
Eridiano, sbarcò sulle sponde italiche, per fondare alcune colonie, tra Liguria
e Piemonte. Fetonte sarebbe tragicamente caduto nel Po, durante una corsa su un
carro, che la leggenda subito trasformò in carro solare. Ove cadde, venne
eretto un cippo, poi trasformato in tempio dedicato al dio Sole, intorno al
quale si formò il primo insediamento cittadino, denominato «Euridania» o «Fetontia»,
divenuto poi Torino, il cui emblema è appunto il toro-bue-Api, simbolo del
vitalismo universale che, attraverso il seme, feconda la materia terrestre.
Questo tempio racchiudeva cerimonie iniziatiche e magiche,
dedicate allo spirito solare, finalizzate ad ottenere protezione e potere.
Proprio per salvaguardare l’inviolabilità dei segreti custoditi in questo
tempo, i sacerdoti stessi lo avrebbero distrutto, prima che venisse profanato
dagli ultimi invasori: i Romani. Tuttavia, le antiche e sacre reliquie, insieme
ad una grande ruota d’oro, simbolo astrologico solare, sarebbero state celate
in un luogo segreto, dedicato allo svolgimento delle cerimonie tipiche della
pseudo religiosità egizia: animazione di statue, evocazione di spiriti,
sacrifici cruenti. Quanto narrato dal Pingone, troverebbe riscontri, pur vaghi,
in una iscrizione posta su una statua dedicata ad Iside, ritrovata nel 1567,
tra le rovine dall’antica cittadella, riconducibile ad un tempio intitolato
alla stessa dea egizia, sul quale sarebbe stata eretta una chiesa dedicata a
san Solutore Maggiore, distrutta poi durante l’occupazione francese
(1536-1563).
Questa
antica storia sembra avere, in un certo senso, una ricaduta nei nostri tempi. È
nota difatti la fama sinistra di cui gode Torino, considerata in ambito
iniziatico come l’unica città al mondo appartenente ai due triangoli esoterici:
quello bianco, con Lione e Praga; quello nero con Londra e San Francisco. L’energia
metafisica collegata a questa città, avrebbe richiamato i maggiori interpreti
della magia, ad esempio Nostradamus, Cagliostro, Paracelso, che si impegnarono
a reintrodurre nella società cristianizzata le nozioni e le pratiche magiche di
matrice egizia.
Il culto di Iside, patrona della magia e del potere spirituale e
materiale, tornò alla pubblica ribalta grazie a Napoleone, che la intronizzò come
patrona di Parigi, dal 1811 al 1814, ricavando la sua figura rappresentativa da
quella della Mensa Isiaca, appartenente al Museo Egizio di Torino[2]. Sebbene il culto pubblico
di tale dea decadde il 14 aprile 1814, quando il Governo provvisorio decretò la
soppressione di tutti gli emblemi e simboli introdotti nell’era napoleonica, il
culto privato e le attività ad esso connesse continuarono a professarsi nella
città sabauda.
Del resto, è noto l’impegno profuso dai Savoia, per radunare i più
preziosi reperti dell’antico Egitto, a partire da Amedeo II, (1666-1732), e da
Carlo Emanuele III che, nel 1757, incaricò il botanico Vitaliano Donati di
recarsi in Egitto alla ricerca di «qualche
pezzo di antichità o manoscritto raro o anche qualche mummia delle più
conservate»[3].
La costruzione del prestigioso Museo Egizio, oltre alla rivalutazione storica di
tale civiltà, sembra aver dato spunto all’interesse verso i culti negromantici,
praticati nei cunicoli segreti delle misteriose piramidi. Fatto sta che, in
epoca risorgimentale, illustri esponenti della casa Savoia adottarono nei
riguardi della cultura magica, nonché negromantica, una singolare apertura.
Afferma Pier Luigi Baima Bollone che: «Vittorio Emanuele II, in
sintonia con la fama di appartenere ad una famiglia compromessa con pratiche
esoteriche, non contrastò il dilagante medianismo»[4], che si diffuse nella sua
epoca. Anche secondo Massimo Introvigne, Casa Savoia, tra il 1850 ed il
1870, mostrò una straordinaria tolleranza verso gli spiritisti, i maghi e i
gruppi religiosi o parareligiosi più singolari e bizzarri. Persino il figlio di
Vittorio Emanuele II, Umberto e la futura regina Margherita, erano in contatto
con gli spiritisti partenopei, partecipando attivamente a sedute medianiche,
come già avevano fatto alcuni appartenenti della casa dei Borboni, tra cui il
Principe Luigi[5].
Torino segnò difatti la nascita, nel 1863, della «Società torinese
di Studi Spiritici», che dall’anno successivo iniziò la pubblicazione della
rivista Annali dello spiritismo in Italia. Ne fu animatore ed editore
Enrico Dalmazzo, un tipografo convertitosi allo spiritismo, che chiamò alla
direzione della rivista Vincenzo Scarpa, segretario di Cavour e del Principe di
Carignano, decorato dallo stesso Re. Scarpa, sotto lo pseudonimo di Niceforo
Filatete, rimase alla direzione della rivista dal 1865 fino al 1898. A tale
società apparteneva anche Gaetano De Marchi, vicepresidente della Camera dei
deputati. Presidente di questa associazione venne eletto addirittura lo «spirito
guida» che trasmetteva, durante le sedute medianiche, presunte comunicazioni
dall’al di là.
Nella rivista della società spiritistica, vennero pubblicati
articoli pseudoscientifici e divulgativi, nonché cronache di presunte
apparizioni e interazione con gli spiriti. Apparvero i resoconti di pseudo «contatti»
non solo con spiriti profani, ma addirittura con quelli di san Francesco,
sant’Agostino, san Luigi. Si dice persino che lo spirito del conte Cavour, che
in vita protesse gli spiritisti, si manifestasse come fantasma a Massimo
D’Azeglio, costringendolo ad impegnativi esercizi medianici.
Da parte sua, Giuseppe Mazzini era un accanito sostenitore dello
spiritismo, in contatto con la teosofa Blavatskj e con John Yarker, «Gran
Jerofante» di Menphis e Misraim, rito massonico esoterico al quale apparteneva
anche Giuseppe Garibaldi, nominato, nel dicembre del 1861, «Primo Massone
d’Italia, con l’onore di Gran Maestro di tutte le Logge»[6]. Mazzini «interpretava lo
spiritismo come elemento di riscontro della necessità di una serie di esistenze
successive e di reincarnazioni. Riteneva possibili sia le infestazioni che
l’ispirazione, forme classiche della medianità»[7].
In questa prospettiva, forse, Mazzini si sentiva come obbligato
«alla logica di un suo piano preciso che gli imponeva, per mantenere alta la
tensione, e lo diceva anche, di dover spargere sangue sacrificale. Sangue a suo
parere, indispensabile per nutrire e mantenere viva la fiamma dell’eversione
che prima o poi avrebbe saputo dare i suoi frutti e condurre alla vittoria.
Dunque, gli occorrevano martiri. E gli tornava d’obbligo continuare
imperterrito a percorrere la sua strada, cercando sempre neofiti da convincere
e da mandare al sacrificio»[8].
Tuttavia,
sempre in questa città particolare, nei cui pressi, in Val Susa, Costantino vide apparire in cielo il
famoso segno, In hoc signo vinces, e che in una misteriosa lapide, riconducibile a Nostradamus, viene
indicata come unico luogo nel quale coesistono il paradiso, l’inferno ed il
purgatorio («ici il y a le paradis,
l’enfer, le purgatoire»), come per un’imperscrutabile dinamica del
contrappasso, per grazia di Dio, si determinò nello stesso periodo una eccezionale
fioritura di santi e beati. Circa una sessantina, impegnati a sanare i mali che
per forza di cose ricadevano sulla popolazione inconsapevole. È da notare che «nessuna
comunità cattolica al mondo ha mai registrato un simile boom di eroismi
evangelici, considerati per giunta in così breve tempo»[9].
Come richiamati ad una particolare missione salvifica dall’Uomo-Dio,
misteriosamente impresso nella Sacra Sindone, conservata nel Duomo di Torino, questi
santi piemontesi, cosiddetti sociali, testimoni della nascita della nuova
Italia massonica, in un modo o nell’altro, operarono a favore di una prodigiosa
rinascita religiosa e sociale. Citiamo i più famosi, come Giuseppe Cottolengo, Giuseppe
Cafasso, Giuseppe Murialdo, don Bosco, Domenico Savio, Faà di Bruno, il
Frassati, don Orione, e tanti ancora, fino ai beati Giacomo Alberione e Timoteo
Giuseppe Giaccardo. Questi ultimi costituirono la Pia Società San Paolo, fin
dalle origini finalizzata ad «opporre stampa su stampa, organizzazione ad
organizzazione», per «far penetrare il Vangelo nelle masse» (A. D. 14).
Tutti questi santi, beati e venerabili confermarono, ancora una volta,
quanto affermato da S. Paolo, nella Lettera ai Romani (5,20) circa il
sovrabbondare della grazia dove abbonda il peccato. Anche lo scrittore
cattolico Chesterton allude a questa dinamica, quando afferma che: «Ogni
generazione viene convertita dal santo che maggiormente la contraddice»[10]. Consapevoli quindi dell’azione
di Dio, sempre pronta a sanare le opere del male usando, nel giusto modo, i
suoi stessi mezzi, gli «elécti Dei, santi
et dilécti» (Col 3, 12), sono
chiamati a svolgere con fede e carità la propria testimonianza al Vangelo,
nelle vie del mondo, superando con fortezza i momenti personali ed ecclesiali più
difficili. Tutto questo contando sull’aiuto e sulla difesa di «Colei che sola
ha sconfitto le eresie del mondo intero»[11] e che spinge a non aver
timore di contraddire quanto la cultura ordinaria, il sapere comune, molto
spesso fondata su ingannevoli luoghi comuni, cerca di autoalimentarsi mediante
l’uso dei mezzi di comunicazione sociale in senso anticristiano.