Quando
san Paolo giunse a Pozzuoli da Malta, sfinito da un ulteriore viaggio pieno di
peripezie, venne invitato a fermarsi una settimana in quello che prima di Ostia
era stato il porto di Roma. A pochi passi dal mare, si trovò di fronte ad un
tempio dedicato a Serapide, divinità solare di matrice greca, ma di genesi
egizia. Come ad Atene, egli dovette “fremere nel suo spirito” vedendo anche
questa città piena di idoli (cfr. At 17, 16). Tuttavia, pur debilitato
dall’estenuante attività apostolica descritta nell’ultimo capitolo degli Atti,
Paolo non si perse d’animo e ben presto si rimise in marcia verso Roma, per
riprendere la predicazione contro la falsa religiosità dei pagani, in
particolare quella rivolta all’idolo solare, che egli conosceva molto bene,
provenendo dalla Cilicia, la terra di Mitra.
Altrettanto
bene aveva imparato a conoscere le persecuzioni che toccavano a chi si poneva
contro le radicate superstizioni pagane. A Efeso gli si erano sollevati contro
gli orafi costruttori delle statue di Diana-Artemide, protettrice delle
prostitute, in crisi di affari perché la loro divinità stava soccombendo
inesorabilmente di fronte alla predicazione dell’Apostolo ed il conseguente
diffondersi della dottrina cristiana, che non lasciava spazio ad alternative o
a strane vie di mezzo, e che quasi imponeva la fatidica scelta: o con Cristo, o
contro Cristo. Molti efesini infatti avevano confessato pubblicamente il loro
ricorso alle pratiche magiche e spontaneamente avevano dato fuoco a tutti i
libri di magia nera in loro possesso il cui valore complessivo ammontava a
cinquantamila dramme d’argento (cfr. At 19). Una somma considerevole.
Nell’Attica, la dramma d’argento corrispondeva alla paga giornaliera di un
lavoratore generico. Dunque, cinquantamila giornate di lavoro. Più di una
decina d’anni lavorativi di un operaio.
Paolo,
come tutti gli altri apostoli, sostenne con chiarezza e senza tanti distinguo,
l’insanabile opposizione fra il culto rivolto a Cristo e quello dedicato ai
demoni. Chi non venera Cristo, venera gli idoli: «I sacrifici dei pagani
sono fatti a demoni, e non a Dio. Ora, io non voglio che voi entriate in
comunione con i demoni; non potete bere il calice del Signore e il calice dei
demoni; non potete partecipare alla mensa del Signore ed alla mensa dei demoni»
(1 Cor 10, 19 -22). Altrove, aggiunge: «Quale rapporto infatti ci può essere
tra la giustizia e l’iniquità, o quale unione tra luce e tenebre? Quale intesa
fra Cristo e Beliar, o quale collaborazione fra un fedele e un infedele? Quale
accordo tra il tempio di Dio e gli idoli? Non siamo infatti il tempio del
Dio vivente?» (2 Cor 6, 13-16).
A proposito della sua volontà di recarsi in
Tessalonica, ove lo attendevano nuove comunità cristiane, Paolo sperimentò in
modo evidente l’azione contraria del maligno, che fece di tutto per impedirgli
quel viaggio apostolico: «Quanto a noi fratelli … abbiamo desiderato una volta,
anzi due volte, proprio io Paolo, di venire da voi, ma Satana ce lo ha
impedito» (1 Ts 2, 18). Anche su questo tema, San Paolo evita qualunque
divagazione. Non è un dotto, ma un apostolo. Se parla è per mettere
in guardia i suoi discepoli circa il potere reale di seduzione del maligno, che
egli conosce bene. Ma dal quale è altrettanto conosciuto: «Conosco Gesù e
so chi è Paolo, ma voi chi siete?», domandò lo spirito avverso ad alcuni
esorcisti ambulanti giudei, prima di metterli in fuga per mano di un
indemoniato, coperti di ferite ed addirittura nudi (At 19, 13).
Il maligno, proprio perché sostanzialmente
ingannatore, è tuttavia così abile da dissimulare la propria natura, prendendo
le sembianze della divinità che vorrebbe adombrare. Per ingannare gli
uomini ed indurli nell’errore e nel peccato, «Satana, di cui non ignoriamo le
macchinazioni … si maschera da angelo di luce» (2 Cor 2, 11 e 11, 14).
S. Paolo indica con estrema efficacia il
pericolo derivante dai falsi culti, anche se lo fa in modo formalmente diverso
dal suo Divino Maestro, capace di affascinare le folle con efficaci, suggestive
e sintetiche parabole. Nelle sue Lettere,
l’Apostolo in genere non utilizza un linguaggio attraente, poetico, allusivo
come quello del Vangelo. Egli non evoca nemmeno immagini profetiche,
tremendi «sigilli» da sciogliere, significati chiusi tutti da interpretare,
come è in grado di fare l’apostolo Giovanni, nel misterioso libro
dell’Apocalisse.
Lo stile di Paolo, a parte gli straordinari
slanci cristologici, non è immediato. Ma dimesso, discorsivo, non
suggestivo. A volte, apparentemente contorto, se non proprio
“noioso”. Tuttavia, nessuno fra gli apostoli è più vicino a Cristo di
quanto lo sia Paolo. Nessuno si identifica totalmente a Cristo, al punto
da dire: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me». Nessuno condivide
come lui la passione e la croce del Signore: «Sono stato crocifisso con Cristo
e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io
la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per
me» (Gal 2, 20). E più avanti prima di concludere bruscamente la lettera
ai Galati, «O stolti Galati, chi mai vi ha ammaliati!» (3,1), afferma: «Io
porto le stigmate di Gesù nel mio corpo» (6, 17).
Ebbene, San Paolo, così partecipe della croce
ed della gloria di Cristo, ha indicato quale fossero i veri nemici contro i
quali combattere: «La nostra battaglia non è contro creature fatte di sangue e
di carne, ma contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori di questo
mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni
celesti» (Ef 6, 12). Questa affermazione dimostra l’incomparabile
intelligenza spirituale di colui al quale «è stata concessa la grazia di
annunziare ai Gentili le imperscrutabili ricchezze di Cristo» (Ef 3,8).
Intelligenza che trascende decisamente i limiti degli effetti contingenti, per
giungere alla causa metafisica degli eventi.
San Paolo infatti, in virtù della particolare
esperienza di Cristo, culminata con il rapimento estatico al terzo cielo, in
paradiso, ove «udì parole indicibili che non è lecito ad alcuno pronunziare» (2
Cor 12, 4), non può che amplificare la portata temporale del «mysterium iniquitatis» già in atto (2 Ts
2, 7), non riferendolo ad uomini in particolare, ma riconducendolo alla sua
vera e sola essenza: «il principe delle potenze dell’aria, quello spirito che
opera negli uomini ribelli» (Ef 2,2). L’Apostolo lascia intendere che i potenti
di questa terra sono a loro volta sottoposti ad un potere superiore,
metafisico, costituito da quegli spiriti dell’aria ai quali sono rivolti i
culti ed i sacrifici che essi celebrano. A tale potere è soggetto non solo
chi partecipa, ma anche chi consenta siano celebrati tali culti illeciti.
Anticamente, era assai diffusa la credenza
«che un fanciullo o gruppi di fanciulli impuberi potessero costituire i
migliori depositari di rivelazioni, di sogni e di doni
divinatori». Credenza avvalorata dal fatto che nell’antica Roma esistevano
i «pueri magici», che i sacerdoti
inducevano alla trance o al sonno magico: «Quando uno spirito è evocato nessuno
ha il potere di vederlo se non fanciulli di undici e dodici anni d’età o tali
che siano davvero vergini»[1].
Sant’Agostino esamina tali credenze e pratiche
evocatorie rivolte a dei e demoni, nella Città
di Dio. Egli riporta l’opinione comune, affermata in modo speciale da
Apuleio, riguardo alla realtà animata, ordinata in tre classi: «Dei, uomini e
demoni. Gli dei occupano la posizione più eminente, gli uomini l’infima, i
demoni quella di mezzo; infatti, la sede degli dei è il cielo, quella degli
uomini la terra, quella dei demoni nell’aria» (Libro 8, 14). I demoni
stanno fra gli uomini e gli dei e fungono da intermediari. Ed in quanto
tali vanno propiziati attraverso cerimonie magiche e mediante l’offerta di opportuni
sacrifici. Aggiunge tuttavia il santo d’Ippona: «Essi sono invece spiriti pieni
del desiderio di nuocere, totalmente alieni dalla giustizia, gonfi di orgoglio,
lividi d’invidia, astuti nell’inganno; abitano nell’aria, perché abbattuti
dalla sublimità del più alto cielo come punizione di una trasgressione
irrimediabile e condannati a questa specie di carcere a loro conveniente» (L.
8, 22).
Questi stessi demoni vengono unanimemente
indicati dagli esperti in esoterismo, come i veri governatori delle sette
segrete. Pierre Mariel, ad esempio, concluse che queste consorterie occulte:
«obbediscono tutte (ed i veri Superiori lo sanno) ad un’unica direzione.
Esistono (al di sopra delle divergenze apparenti) Superiori Sconosciuti,
raggruppati in un Centro del Mondo, che sono i direttori d’orchestra in
quest’insieme, dove ogni società è uno strumento docile e ben accordato»[2].
Tali «superiori sconosciuti», «daimon» per intenderci, ancora presenti
e più che mai attivi in mezzo a noi, rappresentano quegli spiriti del male
sparsi nell’aria, contro i quali San Paolo guerreggiò senza riserve. E contro i
quali non ci resta che combattere, in senso paolino, «sino alla fine e rimanere
in piedi, padroni del campo» (Ef 6, 13). Del resto: «le guerre sono vinte da
coloro i quali hanno saputo attrarre dai cieli le forze misteriche del mondo
invisibile e sanno assicurarsene il concorso»[3]. E solo i cristiani hanno
dalla loro parte il favore incondizionato delle potenze angeliche, le quali non
aspettano che essere invocate in ogni occasione, «opportune, importune» (2 Tm 4, 2), per intervenire in loro favore.