Il 21 dicembre 1613,
giorno del solstizio d’inverno, data cara agli esoteristi di tutti i tempi, Galilei
scrisse una lettera a don Benedetto Castelli (1578-1643), benedettino, suo discepolo
a Padova, lettore di Matematica prima a Pisa e poi alla Sapienza di Roma, a sua
volta valente sperimentatore, circa la dottrina eliocentrica ed il suo rapporto
con le Sacre Scritture.
Il domenicano Niccolò
Lorini venuto in possesso di tale scritto, che abbondantemente circolava “per le mani d’ogni uomo”, richiamandosi
al carisma di san Domenico e del suo Ordine – fondato per “essere i cani bianchi e neri” del Signore, ossia per contrastare
gli eretici –, ne trasmise copia al Cardinale Paolo Sfrondati, nipote di
Gregorio XIV, il 7 febbraio 1615, per ottenerne un giudizio.
Il Lorini spiegava al
Cardinale che i “Galileisti, uomini da
bene e buoni Cristiani, ma un poco saccenti e duretti nelle loro opinioni”,
avevano allarmato tutti i Padri del convento di S. Marco. Essi infatti
affermavano che “certi modi di favellare
della Sacra Scrittura siano sconvenienti e che nelle dispute naturali la
medesima scrittura tenga l’ultimo luogo, e che i suoi espositori bene spesso
errano nell’esposizioni di lei, e che la medesima Scrittura non si deva
impacciar d’altra cosa che degli articoli concernenti la fede, e che nelle cose
naturali abbia più forza l’argomento filosofico o astronomico che il sacro e
divino”.
Non erano accuse né
infondate né trascurabili quelle rivolte a Galileo dal frate domenicano, circa la
pretesa che la religione dovesse adeguarsi alle scoperte della scienza
naturale, in quel tempo peraltro così poco sviluppata, così poco precisa,
specialmente in ambito astronomico.
Lo scienziato era infatti
entrato in una zona interdetta ai laici, soprattutto in seguito alla lacerante disputa
con i Riformati, i quali criticavano il primato proprio della Chiesa Petrina circa
l’interpretazione scritturale: “Sappiate
anzitutto questo: nessuna scrittura profetica va soggetta a privata spiegazione”
(2 Pt 1,20).
Sembrò dunque inaccettabile
al Lorini che il comando rivolto da Giosuè al sole ed alla luna di fermarsi, non
dovesse intendersi secondo il cosiddetto “senso comune”, ma simbolicamente,
perché secondo l’opinione pitagorica è la terra a muoversi nei cieli intorno al
sole, “fuoco centrale”.
Il Lorini scrisse al
Cardinale, seppur in forma di “amorevole
avviso, come servitore a padron singolarissimo”, dopo aver ascoltato un
paio di prediche del suo confratello Tommaso Caccini sul libro di Giosuè, nelle
quali venivano chiaramente censurate le idee del movimento della terra e che il
sole fosse il centro del mondo celeste, così come diffuso dallo scienziato
pisano sulla scia di Copernico e della setta pitagorica, perché contrarie alle
Scritture.
L’accusa del Caccini contro
il sistema eliocentrico ovviamente non poteva contenere argomentazioni
scientifiche. Del resto, anche quelle eliocentriche proposte da Copernico e da
Galileo erano più che carenti da questo punto di vista. Il loro modello tanto
enfatizzato non si adattava nemmeno alle osservazioni più evidenti, come rilevò
Erasmus Reinhold, nel 1551, quando venne incaricato di calcolare tavole celesti
sulla base dell’ipotesi eliocentrica, le cosiddette Tabulae Prutenicae,
dedicate al duca di Prussia.
L’accusa sollevata dal
padre domenicano era quindi di carattere filosofico e metafisico, perché tale
modello è fondato su una dottrina che nega il valore della realtà rispetto alla
sua rappresentazione. I pitagorici infatti sovrappongono e sostituiscono alla
dimensione dei fenomeni la descrizione razionale, la matematica alla fisica.
Nel far questo essi non partono dalla realtà, ma dalla ragione matematica, dal
modello mentale costruito a priori rispetto al “mondo”. Essi uniscono ragione e
superstizione, regole matematiche e norme etiche, trasmettendo le loro
conoscenze attraverso il linguaggio dei simboli, sconosciuti ai profani, noti
agli iniziati.
“Quello che il puro senso della vista rappresenta è come nulla in
proporzion dell’alte meraviglie che, mercé delle lunghe ed accurate
osservazioni, l’ingegno degli intelligenti scorge in cielo”, scriverà
Galilei nella più articolata lettera a Madama Cristina di Lorena. Non le lunghe
ed accurate osservazioni legate al “senso comune”, ma l’immaginazione razionale
degli “intelligenti”, intesi come iniziati alle verità segrete, scorgerebbe le
meraviglie del cielo. Ecco di nuovo proposta l’inversione fra realtà ed
immaginazione.
Non è difficile
immaginare, insieme alla carica polemica, quali potessero essere le accuse antieliocentriche
proclamate dal pergamo di Santa Maria Novella dal padre maestro Caccini, dello
stesso Ordine di san Tommaso d’Aquino. La filosofia moderatamente realista dell’Aquinate
proclama infatti la realtà come primo elemento dell’indagine razionale e
filosofica. Negare la realtà equivale a negare la verità. Secondo l’Aquinate
tutta la conoscenza umana non può che trarre origine e sviluppo che dai dati
sensitivi: senza i “fantasmi” o immagini della fantasia non si danno né
concetti, né giudizi, né ipotesi scientifiche: “perché i fantasmi stanno
all’intelletto come i dati sensibili al senso (phantasmata se habent ad
intellectum sicut sensibilia ad sensum)” (In III Sent. D. 31, 2, 4).
Secondo la filosofia
dell’essere, la facoltà conoscitiva umana si sviluppa secondo due operazioni,
quella intuitiva dell’intelletto e quella discorsiva della ragione, delle quali
la prima è più alta, decisiva, poiché l’intelletto costituisce l’organo del
concreto. Quindi slacciare i “fantasmi” della conoscenza dallo stretto legame
con la realtà, equivale ad aprire le dubbie porte dell’immaginazione. Infatti,
l’immaginazione può essere sia razionale, come la scienza, sia irrazionale,
come la magia, sia passionale, come
l’erotismo. Del resto, scienza e magia, numero e simbolo, ragione e
superstizione, compongono la struttura della dottrina pitagorica e della sua
logica di fondo. Logica che non distingue, ma unifica gli opposti, l’essere ed
il nulla.
Con la dottrina conoscitiva
dell’astrazione, san Tommaso mette invece in risalto la stretta unione
esistente tra conoscenza sensitiva e conoscenza intellettiva. Egli però conferisce
il primo luogo alla conoscenza sensitiva, perché i dati elaborati
dall’intelletto agente si riferiscono sempre a qualche cosa di materiale e di
individuale. Successivamente, viene ricavato il concetto universale e
immateriale. La conoscenza umana possiede quindi un valore intrinseco, proprio
perché le rappresentazioni che ci dà delle cose sono vere. Infatti, la verità è
una perfetta corrispondenza fra la mente e la cosa: Veritas est adaequatio rei et intellectus (In I Sent. 19, 5, 1).
Per quanto riguarda la
conoscenza astronomica, perché non conoscibile direttamente ed in tutta la sua
ampiezza dall’osservazione sensibile, san Tommaso aveva già dichiarato che le
spiegazioni degli astronomi hanno carattere di mera probabilità e, mancando di
certezza, possono sempre essere sostituite da spiegazioni migliori (in, De coelo, II, 17).
Stessa tesi ripresa dal
Bellarmino, il quale consigliò a Galilei di parlare per ipotesi e non per certezza
del sistema eliocentrico, perché certo non era. Così, le censure ed ammonizioni
emesse in proposito dal Santo Uffizio, il 25 febbraio 1616, contestavano il
tono assoluto delle due affermazioni galileiane: 1) il sole è il centro del
mondo, del tutto immobile; 2) la terra non è il centro del mondo, ma in
movimento.
La censura si concentrò
su queste due affermazioni perché non dimostrabili con certezza e perché
costituivano un pericolo per la fede e la semplicità proprie della dottrina
cristiana. Affermare infatti il movimento della terra e la quiete del sole corrisponde
a negare il valore della realtà percepita dal “senso comune”, troncare il
passaggio dal mondo creato al Creatore, dall’osservazione alla contemplazione.
Questo pericolo seguiva
le accuse rivolte da San Paolo a coloro che, pur contemplando la realtà creata
e le impronte in essa impresse da Dio, non risalgono al Creatore stesso. Mentre
invece: “Dalla creazione del mondo in
poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l’intelletto
nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità” (Rm, 1, 20).
San Paolo imputa a
questo errore intellettuale, il non risalire a Dio partendo dalla realtà
percepita, la decadenza morale che avrebbe colpito coloro che avessero
sostenuto tale contraddizione: “Perciò
Dio li ha abbandonati all’impurità secondo i desideri del loro cuore, sì da
disonorare i loro corpi, poiché essi hanno cambiato la verità di Dio con la
menzogna e hanno venerato ed adorato la creatura al posto del creatore, che è
benedetto nei secoli. Amen” (1, 24).
Adorare “la creatura al
posto del creatore” equivale a metterla al “centro” del mondo. E proprio
questo, l’equiparazione della creatura solare a Dio, costituiva l’opera degli
esoteristi rinascimentali, i quali cercavano di dare parvenza scientifica alla
dottrina eliocentrica di matrice egizia. Secondo questa tendenza eliolatrica, scriveva
con enfasi Galilei a Cristina di Lorena che il sole: “in certo modo anima e cuore del mondo, infonde agli altri corpi che lo
circondano non solo la luce, ma il moto ancora, col rigirarsi in sé medesimo,
così che cessando la conversione del Sole, si fermerebbero le conversioni di
tutti i pianeti”.
D’altra parte, interpretazioni
ed immaginazioni eliolatriche circolavano da tempo, proprio nella corte
fiorentina, dopo che il Ficino aveva tradotto il Corpus Hermeticum, una sorta di breviario della magia e della
stregoneria più oscura.
La diffusione di questo
testo nei circoli aristocratici aveva rimesso in piedi la concezione magica
della realtà, insieme alle opere attraverso le quali evocare le forze
invisibili, i demoni dell’aria rotanti intorno al demone solare posto al centro
del cielo, gli arconti posizionati nelle sfere planetarie. Questa cosmogonia
demoniaca fu celebrata da Ludovico Lazzarelli, il traduttore e valorizzatore del
libro XVI del Primander, dove sono
contenute le interpretazioni spiritiche del sistema solare alle quali si
riferisce Copernico, quando cita Ermete Trismegisto come uno degli antichi
interpreti della dottrina eliocentrica.
Il Lazzarelli era
discepolo di Mercurio Giovanni da Coreggio, lo strano personaggio che si
proclamò nuovo messia e nuovo Ermete, identificando la Mente (Poimandres)
con il Cristo gnostico, quando l’11 aprile 1484, domenica delle
Palme, entrò platealmente in Roma per compiervi oscuri rituali magici e propiziatori.
Nella lettera a
Monsignor Piero Dini, del 23 marzo 1615, Galilei dava conferma a questa
concezione neoplatonica solare, esaltando il sole come “anima mundi” con termini simili a quelli utilizzati da Ermete, dai
pitagorici e dagli alchimisti rinascimentali, successivamente condivisi da
Isaac Newton nei suoi Principia, nel
commento alla definizione di “Quantità di
materia”, nonché nello Scolio
finale.
Galilei scrive infatti:
“Parmi che nella natura si ritrovi una
substanza spiritosissima, tenuissima e velocissima, la quale, diffondendosi per
l’universo, penetra dappertutto senza contrasto, riscalda, vivifica e rende
feconde tutte le creature viventi”. Continua sulla stessa linea affermando
la “principalissima” sorgente di questo
“spirito sottilissimo”, o energia
alchemica: “il senso stesso ci dimostri
sia il corpo del Sole, dal quale espandendosi per un’immensa luce per
l’universo, accompagnata da tale spirito calorifico e penetrante per tutti i
corpi vegetabili, li rende vividi e fecondi”. Energia termica, ma anche
sessuale ed erotica.
Come osservava
giustamente l’autorevole Eugenio Garin, questa “intuizione pitagorica, ermetica, neoplatonica, quel culto caro a
Guiliano l’Apostata, che costituisce il presupposto e lo sfondo, del resto
consapevole e dichiarato, dell’ipotesi copernicana, è presente in troppi testi
galileiani per essere accidentale”. Galilei cioè partecipava attivamente “a quella ispirazione solare che aveva
preceduto e poi accompagnato la rivoluzione copernicana, caricandola di una
portata speculativa che andava al di là del semplice rovesciamento di
un’ipotesi astronomica” (Scienza e
vita nel Rinascimento italiano, Laterza, Bari 1975, p. 119).
Del resto, lo stesso
Galilei nella lettera a Giovan Battista Baliani, 12 marzo 1614, aveva scritto:
“Quanto all’opinione di Copernico, io
veramente la tengo sicura, e non per le sole osservazioni di Venere, delle
macchie solari e delle Medicee, ma per altre sue ragioni, e per molt’altre mie
particolari che mi paiono concludenti”. Non erano quindi argomentazioni
esclusivamente astronomiche, come le fasi di Venere, o le macchie solari che
provavano la rotazione su se stesso del sole, ma “altre ragioni” che inducevano
Galilei a creder per certa l’ipotesi eliocentrica, ossia la sua fede
pitagorica.
Queste convinzioni
personali, di “scuola egizio-pitagorica”, erano così radicate da spingere lo
scienziato ad uscire allo scoperto, ma in modo scaltro, attraverso alcune scritture
private ben congegnate. Come la lettera al Castelli, che innescò la polemica
galileiana. Questo scritto è troppo ben articolato per costituire semplicemente
una “lettera privata scritta all’amico
mio, per essere letta da lui solo”, come Galilei affermerà a Piero Dini, nella
lettera del 23 marzo 1615. Essa invece sembra essere studiata per essere messa
in circolazione e provocare la reazione degli uomini di Chiesa. I quali si
insospettirono anche per il tono di fondo che segnava tale scrittura. Un tono
antievangelico, settario, aristocratico, in breve: esoterico.
Galilei infatti
affermava non solo che la Bibbia non è infallibile in questioni di scienza,
perché non sarebbe suo compito rivelarci le leggi della natura: “Nella scrittura si trovano molte
proposizioni che quanto al nudo senso delle parole, hanno aspetto diverso dal
vero”. Egli aggiungeva inoltre che queste affermazioni sono poste in modo da
“accomodarsi all’incapacità del vulgo,
così per quei pochi che meritano di essere separati dalla plebe è necessario
che i saggi espositori producano i veri sensi”. Le Scritture racconterebbero
“favolette” per adattarsi al popolo, ai creduloni di turno.
Secondo Galilei, i
saggi espositori ed interpreti dovrebbero svelare il senso recondito delle
Scritture non al popolo, volgo, plebe ignorante e incapace di intendere, ma a
quei pochi che meriterebbero di essere separati dalla plebe. Tesi questa chiaramente
incompatibile con la logica e la prassi evangelica. Gesù peraltro si compiacque
con il Padre proprio per il contrario. Ossia, per aver tenuto nascosti i
segreti ai sapienti ed agli intelligenti, ma di averle rivelati ai piccoli: “Sì Padre, perché così a Te è piaciuto”
(Mt 11, 26).
Invece di ammaestrare,
rendere maestri, gli ultimi, i poveri come insegna il messaggio evangelico, perché
“Dio vuole che tutti siano salvati e
arrivino alla conoscenza della verità” (1 Tm 2,4), Galilei in chiave
pitagorica relega la conoscenza ad un gruppo ristretto di eletti. Proprio come
i sacerdoti egizi riservavano per sé le conoscenze dottrinali e rivelavano al
popolo false rappresentazioni per conservare ed aumentare il loro potere, il
loro dominio sulle masse.
Dal pergamo di Santa
Maria Novella, in quel lontano 1614, i frati predicatori, tanto bistrattati
dagli storici laicisti, furono i primi ad individuare profeticamente la
crociata massonica ed eliolatrica che stava determinandosi in ambito razionale,
in quelle accademie aristocratiche che elaboravano una falsa interpretazione ed
utilizzazione della scienza ed all’interno delle quali parimenti venivano
coltivate le più oscure arti magiche.
Essi avevano come individuato
nelle istanze galileiane come il germe di un male invisibile che si sarebbe
sviluppato nel corso della storia nella ragione umana, allontanando
sempre più l’individuo, la società, il mondo da Dio, dalla sua realtà, dal suo
volere. Un mondo dove la superbia della ragione, il non riconoscimento
dell’opera di Dio, come scriveva san Paolo ai Romani, avrebbe portato una
ricaduta negativa nella società civile, la diffusione del degrado e
della corruzione morale ed etica a tutti i livelli.
Le invettive di quei
due frati erano infatti rivolte contro l’antica setta che individuava nel sole
lo spirito dell’universo, l’erotico demone pseudo liberatore dell’umanità, il
“lucifero magnifico apostata”. Del quale, l’attuale contraddittoria società,
sembra essere il millantato frutto, apparentemente positivo, internamente imputridito,
pur destinato a tramontare definitivamente in seguito alla vittoria che Gesù
Cristo perseguì a vantaggio di noi tutti.