giovedì 13 febbraio 2014

LETTERE COPERNICANE



Il 21 dicembre 1613, giorno del solstizio d’inverno, data cara agli esoteristi di tutti i tempi, Galilei scrisse una lettera a don Benedetto Castelli (1578-1643), benedettino, suo discepolo a Padova, lettore di Matematica prima a Pisa e poi alla Sapienza di Roma, a sua volta valente sperimentatore, circa la dottrina eliocentrica ed il suo rapporto con le Sacre Scritture.
Il domenicano Niccolò Lorini venuto in possesso di tale scritto, che abbondantemente circolava “per le mani d’ogni uomo”, richiamandosi al carisma di san Domenico e del suo Ordine – fondato per “essere i cani bianchi e neri” del Signore, ossia per contrastare gli eretici –, ne trasmise copia al Cardinale Paolo Sfrondati, nipote di Gregorio XIV, il 7 febbraio 1615, per ottenerne un giudizio.
Il Lorini spiegava al Cardinale che i “Galileisti, uomini da bene e buoni Cristiani, ma un poco saccenti e duretti nelle loro opinioni”, avevano allarmato tutti i Padri del convento di S. Marco. Essi infatti affermavano che “certi modi di favellare della Sacra Scrittura siano sconvenienti e che nelle dispute naturali la medesima scrittura tenga l’ultimo luogo, e che i suoi espositori bene spesso errano nell’esposizioni di lei, e che la medesima Scrittura non si deva impacciar d’altra cosa che degli articoli concernenti la fede, e che nelle cose naturali abbia più forza l’argomento filosofico o astronomico che il sacro e divino”.
Non erano accuse né infondate né trascurabili quelle rivolte a Galileo dal frate domenicano, circa la pretesa che la religione dovesse adeguarsi alle scoperte della scienza naturale, in quel tempo peraltro così poco sviluppata, così poco precisa, specialmente in ambito astronomico.
Lo scienziato era infatti entrato in una zona interdetta ai laici, soprattutto in seguito alla lacerante disputa con i Riformati, i quali criticavano il primato proprio della Chiesa Petrina circa l’interpretazione scritturale: “Sappiate anzitutto questo: nessuna scrittura profetica va soggetta a privata spiegazione” (2 Pt 1,20).
Sembrò dunque inaccettabile al Lorini che il comando rivolto da Giosuè al sole ed alla luna di fermarsi, non dovesse intendersi secondo il cosiddetto “senso comune”, ma simbolicamente, perché secondo l’opinione pitagorica è la terra a muoversi nei cieli intorno al sole, “fuoco centrale”.
Il Lorini scrisse al Cardinale, seppur in forma di “amorevole avviso, come servitore a padron singolarissimo”, dopo aver ascoltato un paio di prediche del suo confratello Tommaso Caccini sul libro di Giosuè, nelle quali venivano chiaramente censurate le idee del movimento della terra e che il sole fosse il centro del mondo celeste, così come diffuso dallo scienziato pisano sulla scia di Copernico e della setta pitagorica, perché contrarie alle Scritture.
L’accusa del Caccini contro il sistema eliocentrico ovviamente non poteva contenere argomentazioni scientifiche. Del resto, anche quelle eliocentriche proposte da Copernico e da Galileo erano più che carenti da questo punto di vista. Il loro modello tanto enfatizzato non si adattava nemmeno alle osservazioni più evidenti, come rilevò Erasmus Reinhold, nel 1551, quando venne incaricato di calcolare tavole celesti sulla base dell’ipotesi eliocentrica, le cosiddette Tabulae Prutenicae, dedicate al duca di Prussia.
L’accusa sollevata dal padre domenicano era quindi di carattere filosofico e metafisico, perché tale modello è fondato su una dottrina che nega il valore della realtà rispetto alla sua rappresentazione. I pitagorici infatti sovrappongono e sostituiscono alla dimensione dei fenomeni la descrizione razionale, la matematica alla fisica. Nel far questo essi non partono dalla realtà, ma dalla ragione matematica, dal modello mentale costruito a priori rispetto al “mondo”. Essi uniscono ragione e superstizione, regole matematiche e norme etiche, trasmettendo le loro conoscenze attraverso il linguaggio dei simboli, sconosciuti ai profani, noti agli iniziati.
Quello che il puro senso della vista rappresenta è come nulla in proporzion dell’alte meraviglie che, mercé delle lunghe ed accurate osservazioni, l’ingegno degli intelligenti scorge in cielo”, scriverà Galilei nella più articolata lettera a Madama Cristina di Lorena. Non le lunghe ed accurate osservazioni legate al “senso comune”, ma l’immaginazione razionale degli “intelligenti”, intesi come iniziati alle verità segrete, scorgerebbe le meraviglie del cielo. Ecco di nuovo proposta l’inversione fra realtà ed immaginazione.
Non è difficile immaginare, insieme alla carica polemica, quali potessero essere le accuse antieliocentriche proclamate dal pergamo di Santa Maria Novella dal padre maestro Caccini, dello stesso Ordine di san Tommaso d’Aquino. La filosofia moderatamente realista dell’Aquinate proclama infatti la realtà come primo elemento dell’indagine razionale e filosofica. Negare la realtà equivale a negare la verità. Secondo l’Aquinate tutta la conoscenza umana non può che trarre origine e sviluppo che dai dati sensitivi: senza i “fantasmi” o immagini della fantasia non si danno né concetti, né giudizi, né ipotesi scientifiche: “perché i fantasmi stanno all’intelletto come i dati sensibili al senso (phantasmata se habent ad intellectum sicut sensibilia ad sensum)” (In III Sent. D. 31, 2, 4).
Secondo la filosofia dell’essere, la facoltà conoscitiva umana si sviluppa secondo due operazioni, quella intuitiva dell’intelletto e quella discorsiva della ragione, delle quali la prima è più alta, decisiva, poiché l’intelletto costituisce l’organo del concreto. Quindi slacciare i “fantasmi” della conoscenza dallo stretto legame con la realtà, equivale ad aprire le dubbie porte dell’immaginazione. Infatti, l’immaginazione può essere sia razionale, come la scienza, sia irrazionale, come la magia,  sia passionale, come l’erotismo. Del resto, scienza e magia, numero e simbolo, ragione e superstizione, compongono la struttura della dottrina pitagorica e della sua logica di fondo. Logica che non distingue, ma unifica gli opposti, l’essere ed il nulla.
Con la dottrina conoscitiva dell’astrazione, san Tommaso mette invece in risalto la stretta unione esistente tra conoscenza sensitiva e conoscenza intellettiva. Egli però conferisce il primo luogo alla conoscenza sensitiva, perché i dati elaborati dall’intelletto agente si riferiscono sempre a qualche cosa di materiale e di individuale. Successivamente, viene ricavato il concetto universale e immateriale. La conoscenza umana possiede quindi un valore intrinseco, proprio perché le rappresentazioni che ci dà delle cose sono vere. Infatti, la verità è una perfetta corrispondenza fra la mente e la cosa: Veritas est adaequatio rei et intellectus (In I Sent. 19, 5, 1).
Per quanto riguarda la conoscenza astronomica, perché non conoscibile direttamente ed in tutta la sua ampiezza dall’osservazione sensibile, san Tommaso aveva già dichiarato che le spiegazioni degli astronomi hanno carattere di mera probabilità e, mancando di certezza, possono sempre essere sostituite da spiegazioni migliori (in, De coelo, II, 17).
Stessa tesi ripresa dal Bellarmino, il quale consigliò a Galilei di parlare per ipotesi e non per certezza del sistema eliocentrico, perché certo non era. Così, le censure ed ammonizioni emesse in proposito dal Santo Uffizio, il 25 febbraio 1616, contestavano il tono assoluto delle due affermazioni galileiane: 1) il sole è il centro del mondo, del tutto immobile; 2) la terra non è il centro del mondo, ma in movimento.
La censura si concentrò su queste due affermazioni perché non dimostrabili con certezza e perché costituivano un pericolo per la fede e la semplicità proprie della dottrina cristiana. Affermare infatti il movimento della terra e la quiete del sole corrisponde a negare il valore della realtà percepita dal “senso comune”, troncare il passaggio dal mondo creato al Creatore, dall’osservazione alla contemplazione.
Questo pericolo seguiva le accuse rivolte da San Paolo a coloro che, pur contemplando la realtà creata e le impronte in essa impresse da Dio, non risalgono al Creatore stesso. Mentre invece: “Dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità” (Rm, 1, 20).
San Paolo imputa a questo errore intellettuale, il non risalire a Dio partendo dalla realtà percepita, la decadenza morale che avrebbe colpito coloro che avessero sostenuto tale contraddizione: “Perciò Dio li ha abbandonati all’impurità secondo i desideri del loro cuore, sì da disonorare i loro corpi, poiché essi hanno cambiato la verità di Dio con la menzogna e hanno venerato ed adorato la creatura al posto del creatore, che è benedetto nei secoli. Amen” (1, 24).
Adorare “la creatura al posto del creatore” equivale a metterla al “centro” del mondo. E proprio questo, l’equiparazione della creatura solare a Dio, costituiva l’opera degli esoteristi rinascimentali, i quali cercavano di dare parvenza scientifica alla dottrina eliocentrica di matrice egizia. Secondo questa tendenza eliolatrica, scriveva con enfasi Galilei a Cristina di Lorena che il sole: “in certo modo anima e cuore del mondo, infonde agli altri corpi che lo circondano non solo la luce, ma il moto ancora, col rigirarsi in sé medesimo, così che cessando la conversione del Sole, si fermerebbero le conversioni di tutti i pianeti”.
D’altra parte, interpretazioni ed immaginazioni eliolatriche circolavano da tempo, proprio nella corte fiorentina, dopo che il Ficino aveva tradotto il Corpus Hermeticum, una sorta di breviario della magia e della stregoneria più oscura.
La diffusione di questo testo nei circoli aristocratici aveva rimesso in piedi la concezione magica della realtà, insieme alle opere attraverso le quali evocare le forze invisibili, i demoni dell’aria rotanti intorno al demone solare posto al centro del cielo, gli arconti posizionati nelle sfere planetarie. Questa cosmogonia demoniaca fu celebrata da Ludovico Lazzarelli, il traduttore e valorizzatore del libro XVI del Primander, dove sono contenute le interpretazioni spiritiche del sistema solare alle quali si riferisce Copernico, quando cita Ermete Trismegisto come uno degli antichi interpreti della dottrina eliocentrica.
Il Lazzarelli era discepolo di Mercurio Giovanni da Coreggio, lo strano personaggio che si proclamò nuovo messia e nuovo Ermete, identificando la Mente (Poimandres) con il Cristo gnostico, quando l’11 aprile 1484, domenica delle Palme, entrò platealmente in Roma per compiervi oscuri rituali magici e propiziatori.
Nella lettera a Monsignor Piero Dini, del 23 marzo 1615, Galilei dava conferma a questa concezione neoplatonica solare, esaltando il sole come “anima mundi” con termini simili a quelli utilizzati da Ermete, dai pitagorici e dagli alchimisti rinascimentali, successivamente condivisi da Isaac Newton nei suoi Principia, nel commento alla definizione di “Quantità di materia”, nonché nello Scolio finale.
Galilei scrive infatti: “Parmi che nella natura si ritrovi una substanza spiritosissima, tenuissima e velocissima, la quale, diffondendosi per l’universo, penetra dappertutto senza contrasto, riscalda, vivifica e rende feconde tutte le creature viventi”. Continua sulla stessa linea affermando la “principalissima” sorgente di questo “spirito sottilissimo”, o energia alchemica: “il senso stesso ci dimostri sia il corpo del Sole, dal quale espandendosi per un’immensa luce per l’universo, accompagnata da tale spirito calorifico e penetrante per tutti i corpi vegetabili, li rende vividi e fecondi”. Energia termica, ma anche sessuale ed erotica.
Come osservava giustamente l’autorevole Eugenio Garin, questa “intuizione pitagorica, ermetica, neoplatonica, quel culto caro a Guiliano l’Apostata, che costituisce il presupposto e lo sfondo, del resto consapevole e dichiarato, dell’ipotesi copernicana, è presente in troppi testi galileiani per essere accidentale”. Galilei cioè partecipava attivamente “a quella ispirazione solare che aveva preceduto e poi accompagnato la rivoluzione copernicana, caricandola di una portata speculativa che andava al di là del semplice rovesciamento di un’ipotesi astronomica” (Scienza e vita nel Rinascimento italiano, Laterza, Bari 1975, p. 119).
Del resto, lo stesso Galilei nella lettera a Giovan Battista Baliani, 12 marzo 1614, aveva scritto: “Quanto all’opinione di Copernico, io veramente la tengo sicura, e non per le sole osservazioni di Venere, delle macchie solari e delle Medicee, ma per altre sue ragioni, e per molt’altre mie particolari che mi paiono concludenti”. Non erano quindi argomentazioni esclusivamente astronomiche, come le fasi di Venere, o le macchie solari che provavano la rotazione su se stesso del sole, ma “altre ragioni” che inducevano Galilei a creder per certa l’ipotesi eliocentrica, ossia la sua fede pitagorica.
Queste convinzioni personali, di “scuola egizio-pitagorica”, erano così radicate da spingere lo scienziato ad uscire allo scoperto, ma in modo scaltro, attraverso alcune scritture private ben congegnate. Come la lettera al Castelli, che innescò la polemica galileiana. Questo scritto è troppo ben articolato per costituire semplicemente una “lettera privata scritta all’amico mio, per essere letta da lui solo”, come Galilei affermerà a Piero Dini, nella lettera del 23 marzo 1615. Essa invece sembra essere studiata per essere messa in circolazione e provocare la reazione degli uomini di Chiesa. I quali si insospettirono anche per il tono di fondo che segnava tale scrittura. Un tono antievangelico, settario, aristocratico, in breve: esoterico.
Galilei infatti affermava non solo che la Bibbia non è infallibile in questioni di scienza, perché non sarebbe suo compito rivelarci le leggi della natura: “Nella scrittura si trovano molte proposizioni che quanto al nudo senso delle parole, hanno aspetto diverso dal vero”. Egli aggiungeva inoltre che queste affermazioni sono poste in modo da “accomodarsi all’incapacità del vulgo, così per quei pochi che meritano di essere separati dalla plebe è necessario che i saggi espositori producano i veri sensi”. Le Scritture racconterebbero “favolette” per adattarsi al popolo, ai creduloni di turno.
Secondo Galilei, i saggi espositori ed interpreti dovrebbero svelare il senso recondito delle Scritture non al popolo, volgo, plebe ignorante e incapace di intendere, ma a quei pochi che meriterebbero di essere separati dalla plebe. Tesi questa chiaramente incompatibile con la logica e la prassi evangelica. Gesù peraltro si compiacque con il Padre proprio per il contrario. Ossia, per aver tenuto nascosti i segreti ai sapienti ed agli intelligenti, ma di averle rivelati ai piccoli: “Sì Padre, perché così a Te è piaciuto” (Mt 11, 26).
Invece di ammaestrare, rendere maestri, gli ultimi, i poveri come insegna il messaggio evangelico, perché “Dio vuole che tutti siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità” (1 Tm 2,4), Galilei in chiave pitagorica relega la conoscenza ad un gruppo ristretto di eletti. Proprio come i sacerdoti egizi riservavano per sé le conoscenze dottrinali e rivelavano al popolo false rappresentazioni per conservare ed aumentare il loro potere, il loro dominio sulle masse.
Dal pergamo di Santa Maria Novella, in quel lontano 1614, i frati predicatori, tanto bistrattati dagli storici laicisti, furono i primi ad individuare profeticamente la crociata massonica ed eliolatrica che stava determinandosi in ambito razionale, in quelle accademie aristocratiche che elaboravano una falsa interpretazione ed utilizzazione della scienza ed all’interno delle quali parimenti venivano coltivate le più oscure arti magiche.
Essi avevano come individuato nelle istanze galileiane come il germe di un male invisibile che si sarebbe sviluppato nel corso della storia nella ragione umana, allontanando sempre più l’individuo, la società, il mondo da Dio, dalla sua realtà, dal suo volere. Un mondo dove la superbia della ragione, il non riconoscimento dell’opera di Dio, come scriveva san Paolo ai Romani, avrebbe portato una ricaduta negativa nella società civile, la diffusione del degrado e della corruzione morale ed etica a tutti i livelli.
Le invettive di quei due frati erano infatti rivolte contro l’antica setta che individuava nel sole lo spirito dell’universo, l’erotico demone pseudo liberatore dell’umanità, il “lucifero magnifico apostata”. Del quale, l’attuale contraddittoria società, sembra essere il millantato frutto, apparentemente positivo, internamente imputridito, pur destinato a tramontare definitivamente in seguito alla vittoria che Gesù Cristo perseguì a vantaggio di noi tutti.