Si
dice che la bella Rosina, l’amante del focoso Vittorio Emanuele II (da lui poi sposata
morganaticamente nell’autunno del 1869, una volta divenuto vedovo, superando la
scomunica di Pio IX che gravava su di lui), conservasse compiaciuta un bastone
da passeggio rotto. A chi le chiedeva la ragione di quella curiosa “reliquia”,
rispondeva che era il cimelio di una lezione data a don Giacomo Margotti, il
sacerdote giornalista direttore de “L’Armonia”, maggior quotidiano di opposizione
cattolica, che non le aveva risparmiato critiche per il suo legame mal celato
con il re savoiardo, quando era ancora in vita la regina Adelaide.
Certo,
il Margotti se l’era cavata a buon prezzo rispetto ad Augusto Tirani, direttore
del periodico filo-clericale Cronaca
Turchina, che dedicò una serie di articoli alla vita privata e libertina di
Vittorio Emanuele II, trovato cadavere nel 1877, nel parco di Stupinigi. Questo
crimine pur suscitando sorpresa ed allusioni varie, venne presto archiviato
senza aver trovato assassino, movente o, addirittura, mandante.
Don
Margotti fu l’acerrimo oppositore della Libera Muratoria e della propaganda
anticlericale ad essa collegata attraverso i quotidiani di stampo laicista.
Primo tra i quali, la “Gazzetta del Popolo”. Questa ebbe come fondatore e direttore
il massone Felice Govean, portabandiera dell’anticlericalismo e
dell’antigesuitismo torinese, curatore della rubrica “Il Sacco nero”, nonché
autore del romanzo apologetico “I Valdesi”, del 1852.
Con
Govean, la “Gazzetta del popolo” appoggiò incondizionatamente la politica di
laicizzazione intrapresa dallo Stato sardo a discapito della Chiesa. Da parte
sua, don Margotti, dalle pagine de “L’Armonia della Religione con la Civiltà”,
divenuto poi semplicemente L’Armonia”, rispondeva che: “La Gazzetta del popolo
già disse che si può fare a meno della costosa spesa del Re, e che si deve fare
a meno dei frati, dei preti, dei Vescovi, del Papa, e del cattolicesimo. Ecco
la sua politica e la sua religione, ecco il fine … Noi abbiamo già detto e
diciamo di volere la religione con Papa, la libertà col Re”.
Nel
1850, L’Armonia aprì dalle sue colonne una sottoscrizione, per offrire come
gesto di solidarietà un pastorale all’arcivescovo di Torino Monsignor Fransoni,
arrestato nel maggio dello stesso anno per aver allertato il clero della
propria diocesi in merito all’approvazione della legge Siccardi per la
soppressione del foro ecclesiastico.
Sul
primo numero dell’anno 1851, sullo stesso giornale cattolico venne pubblicato
un articolo titolato L’anno passato,
nel quale si leggeva che il 1850 era stato: “l’anno della menzogna, dei
sofismi, delle vessazioni, l’anno che vide predicatori incatenati, vescovi alla
berlina: l’anno d’indulgenza per la stampa sfrenata e immorale, e l’anno di
rigore per la stampa religiosa e conservatrice… Siccardi e Fransoni sono i due
nomi che ci danno la fisionomia dell’anno trascorso Siccardi che trionfa, la
Chiesa che patisce i fiscali sul Campidoglio, i vescovi sulla Rocca Tarpea, i
cattolici in lacrime, i rivoluzionari in festa”.
La
Gazzetta del popolo rispose alla sottoscrizione e solidarietà in favore
dell’arcivescovo torinese, con una raccolta di firme, finalizzata all’erezione
di un obelisco in commemorazione della legge Siccardi. Tale monumento venne eretto
nel centro di piazza Savoia, vicino al santuario della Consolata, ed inaugurato,
il 23 novembre 1853, in occasione del quinto anniversario della concessione
dello Statuto Albertino. “Il Consiglio comunale di Torino prese la decisione di
“far murare” alla base del monumento i numeri del 17 e 18 giugno 1850 della
Gazzetta, con cui questa aveva aperto la sottoscrizione“ (B. Gariglio, I cattolici dal Risorgimento a Benedetto XVI
– Un percorso dal Piemonte all’Italia, Morcelliana, Brescia 2013, p. 49).
Venne
poi la proposta di legge Cavour Rattazzi, presentata il 28 novembre 1854, per
la “Soppressione di comunità e stabilimenti religiosi ed altri provvedimenti
intesi a migliorare la condizione dei parroci più bisognosi”, che in sostanza
prevedeva la soppressione delle comunità monastiche e religiose di ambo i
sessi, delle collegiate e dei benefizi semplici.
Questa
proposta di legge sollevò un’ondata di disapprovazione. Scrive lo storico
Rosario Romeo che nella prima settimana
dell’aprile 1855, prima ancora che cominciasse la discussione alla Camera di
tale legge, giungono al Senato 68967 firme contrarie a tale proposta, e poco
più di diecimila a favore. Si pensi che i votanti di quella V legislatura erano
54495. Questo vuol dire che il numero delle firme contrarie alla legge di
confisca dei beni ecclesiastici era maggiore del numero dei votanti stessi
delle elezioni politiche! (Vita di Cavour,
Bari 1990, pp. 376-378).
Nei
primi mesi del 1855, durante i quali prendeva piede la discussione sulla legge
Rattazzi, una serie di “avvertimenti” celesti avevano colpito il re Vittorio
Emanuele II, che avrebbe dovuto firmare e rendere effettiva tale legge. Il 12
gennaio, muore sua madre, la regina Maria Teresa, 54 anni. Il 20 gennaio, muore
sua moglie, la regina Maria Adelaide, 33 anni. Il 10 febbraio, muore suo
fratello, Ferdinando duca di Genova, 33 anni. Il 17 maggio, muore il suo figlio
ultimogenito, Vittorio Emanuele duca del Genovese, 4 mesi. E come predisse don
Bosco (Epistolario, Roma 1991,
lettera 225): “Se V. S. segna quel decreto segnerà la fine dei Savoia e non
godrà più la sanità di prima”. Infatti, come recita un proverbio: la famiglia
di chi ruba a Dio non giunge alla quarta generazione. Come è appunto successo
ai Savoia.
Don
Margotti annoterà in modo puntuale che, la legge firmata in via definitiva da
Vittorio Emanuele II, il 29 maggio 1855, nonostante gli avvertimenti divini e
le predizioni di don Bosco, colpiva gli Ordini religiosi maschili: Agostiniani,
Carmelitani scalzi e calzati, Certosini, Benedettini Cassinesi, Cistercensi,
Olivetani, Frati Minori, Conventuali, Cappuccini, Oblati di santa Maria,
Passionisti, Domenicani, Servi di Maria, Padri dell’Oratorio o Filippini. E gli
Ordini femminili: Clarisse, Benedettine, Cappuccine, Carmelitane scalze e
calzate, Cistercensi, Domenicane, Terziarie Domenicane, Francescane,
Battistine. Vennero così requisite 604 case religiose con tutti i loro
possedimenti e rendite. 8593 religiosi vennero buttati in mezzo alla strada,
privati così della possibilità di portare a buon fine la vocazione e la regola
di vita che avevano liberamente scelto.
A
questo esproprio di Stato che non garantiva possibilità di replica o di
patteggiamento, si aggiungeranno le confische più copiose che colpirono la
Chiesa nel centro e nel sud qualche anno dopo. La stampa anticlericale
millantava tale confisca di beni, effettuata in nome degli ideali di unità e di
giustizia della nazione che andava costituendosi secondo le linee
filo-massoniche tipiche della politica di Cavour.
Come
dicevamo, il direttore della Gazzetta del Popolo, Felice Govean, massone, tanto
contribuì a determinare tale stato di cose. Egli fu uno dei primi membri della
loggia Ausonia, costituita ufficialmente alla mezzanotte dell’8 ottobre 1859,
sulla riva destra del Po, come da rituale, per riaffermare il clima
libero-muratorio dopo che, 45 anni prima, nel 1814, un editto aveva sancito “la
proibizione delle congreghe ed adunanze segrete, qualunque ne sia la
denominazione loro, e massime quelle de’ così detti Liberi Muratori, già
proibita col Regio Editto del 20 maggio 1794”.
Govean
e gli altri sette fondatori della loggia, il 20 dicembre, si erano riuniti per
costituire un Grande Oriente Italiano, sotto il titolo di Grande Oriente
d’Ausonia, posto sotto l’obbedienza del Grande Oriente di Parigi. Il nome
“Ausonia” era l’antico nome dell’Italia usato nelle riunioni segrete dai
carbonari e richiamava il fine specifico di questa loggia, ossia quello di
raggruppare tutte le obbedienze già esistenti sul suolo italico per unificare
l’Italia sotto il regno dei Savoia.
Con
la salita al trono di Vittorio Emanuele II, il clima nel regno sabaudo era effettivamente
cambiato, rispetto a quello instaurato dal padre Carlo Alberto, il cosiddetto
“re tentenna”. Il quale, dopo i suoi esordi liberali, giunto al potere si
propose più prudentemente di unificare l’Italia alla luce della religione e
della giustizia. Il primo articolo dello statuto albertino, emesso il 4 marzo
1848, dichiarava infatti: “La Religione Cattolica, Apostolica e Romana, è la
sola Religione dello Stato. Gli altri culti ora esistenti sono tollerati”.
Vittorio
Emanuele II si mostrò invece molto più liberale e filo massonico nella gestione
del potere. Non soltanto tollerò, ma
favorì fin dal 1850 il protestantesimo, lo spiritismo, “e i gruppi
religiosi o parareligiosi più singolari e bizzarri” (M. Introvigne, nel suo
libro Indagine sul satanismo, Milano
1994). Egli avallò, ovviamente sottobanco, la nascita della loggia Ausonia,
tanto auspicata e propiziata da Cavour per consegnare l’Italia ai Savoia e per
contrastare il potere spirituale e temporale di Santa Romana Chiesa. Del resto,
già dal 1857, il massone Antonio Mordini auspicava l’avvento di: “una società
segreta affermata da solenne giuramento, la quale abbia per fine la liberazione
d’Italia dal giogo austriaco e dalla tirannide (sic!) sacerdotale” (in M.
Novarino, G. M. Vani, Uomini e logge
nella Torino capitale, Ed. L’Età dell’Acquario, Torino 2009, p. 15 e sgg.).
Dalla
nascita dell’Ausonia fino al trasferimento della capitale da Torino a Firenze, varie
obbedienze seguirono le linee cavouriane intraprese dalla massoneria
piemontese. Coincidono peraltro in modo singolare gli sviluppi della massoneria
torinese, che aveva adottato il “rito francese” (rispetto a quello “scozzese”
assunto dalle logge di Palermo), con quelli che segnarono l’unificazione
dell’Italia, entrambi registrati nell’arco di un biennio, dalla metà del 1859
al termine del 1871, periodo che vide l’insediamento di Vittorio Emanuele II
come re d’Italia.
Tale
coincidenza di sviluppi coincide con il ritorno al potere di Cavour, definito
dal Gran Maestro (provvisorio) del GOI , Filippo Delfino: “il nostro fratello
conte Camillo Cavour … non estraneo ai nostri misteri” (ib. p. 25). Non senza
ragione infatti “i massoni torinesi accarezzarono l’idea di legare
completamente i destini della nascente massoneria con quelli dello statista
piemontese offrendo allo stesso la suprema carica di Gran Maestro” (ib. p. 34).
Solo
la morte prematura, avvenuta il 6 giugno 1861, impedì a Cavour di conseguire ufficialmente
il “Supremo Maglietto” del Grande Oriente Italiano, che comunque venne affidato,
dal 3 ottobre 1861 al 31 gennaio 1862, al suo pupillo Costantino Nigra,
iniziato massone presso la loggia Ausonia il 14 febbraio 1860.
La
morte di Cavour avvenne otto giorni dopo la festa del Corpus Domini, alla quale
egli aveva ordinato alle autorità politiche di non partecipare. Fatto questo
del tutto inusuale e mai successo fino allora. Le “Memorie biografiche” di don Bosco, oltre ad affermare che Cavour
era il capo della massoneria piemontese (II, 313), puntualizzano che: “la sera
del 29 maggio, vigilia del Corpus Domini” il Conte di Cavour, che aveva appena
passato i 50 anni, di salute robustissima, rientrato nel suo palazzo era
colpito da sincope e restava come morto, per poi passare all’eternità il 6
giugno”.
Le
Memorie annotano inoltre che quell’ottava
del Corpus Domini, era anche l’anniversario del miracolo eucaristico di Torino avvenuto
nel 1453, durante il quale un’Ostia si innalzò da un calice precedentemente
rubato e restò sospesa alcune ore prima di ricadere nel calice tenuto dal
vescovo, mentre il popolo restava in adorazione. E così, se alle autorità
civili era stato vietato dal già scomunicato Cavour di partecipare alla
processione del Corpus Domini, come per “coincidenza”, dopo otto giorni, le
stesse avevano dovuto partecipare alla processione di colui che lo aveva
impedito.
Solo
Vittorio Emanuele II, pur essendo in Torino, non vi partecipò, dimostrando
ancora una volta il suo astio verso il politico che era riuscito a portarlo
alla reggenza del Regno d’Italia, demolendo le mura della Roma cattolica, per erigere quelle della Roma massonica, come scrisse don Margotti, su L’Armonia del 30
maggio 1861. Don Margotti nello stesso articolo proseguiva:
“Oggidì
Roma massonica, superba dei conseguiti trionfi, vuol intervenire in Roma cattolica, vuol distruggere il Cattolicesimo,
vuol levare la croce e mettere il triangolo sulla cima dell’obelisco di san
Pietro. Ma sulla base di quell’obelisco sta scritto: Christus vincit, Christus regnat, Christus imperat. E Gesù Cristo
vincerà, e per Gesù Cristo Pio IX saprà sconfiggere gli attentati della
massoneria, come già ne seppe gloriosamente smascherare le schifose ipocrisie”.
A
dispetto di questo felice augurio, il 20 settembre 1870, le mura di Roma
cattolica caddero davvero e la vittoria, in questa storia, è da attribuirsi
all’”altra” Roma. Così, quell’anno, nell’equinozio d’autunno, giorno notoriamente
caro alla massoneria, esattamente 1800 anni dopo la caduta di Gerusalemme,
avvenuta del 70 d. C. per opera di Tito, caddero le mura di Roma, responsabile
della rovina della prima.
Milleottocento anni dopo, ossia tre volte seicento. Come per “coincidenza”, il seicentosessantasei, numero della bestia,
si ripresenta fatidicamente sotto il velo di Kronos, in altro ambito
impensabile, come a sigillo del nuovo Stato unitario, nascente sotto il segno
ambiguo della stella a cinque punte e delle reiterate scomuniche papali,
rivolte ai suoi padri costituenti, legati a vani “riti”, a vane “obbedienze”.