Una consolidata
tendenza della letteratura scientifica è quella di creare leggende. Da quella
di Archimede uscito dalla vasca da bagno nella strada gridando <<Eureka!>>, a Galilei che, oltre ad
aver mormorato davanti al tribunale dell’Inquisizione <<Eppur si muove!>>, avrebbe
scoperto la legge dell’isocronismo del pendolo assistendo ad una santa messa
nella Cattedrale di Pisa, evidentemente con una certa distrazione.
Tuttavia, accanto alle
leggende del tutto infondate, che peraltro possono esercitare anche una
funzione attrattiva e didascalica, vi sono interessanti aneddoti sugli
scienziati più famosi che possiedono un certo fondamento, ed anche un
intrinseco ed importante valore concettuale. Infatti, quasi al pari delle
storie zen, che si tramandano da maestro a discepolo per evidenziare e
concentrare tutta la dottrina in un episodio di per sé illuminante, anche nella
scienza a volte è più utile ricorrere a qualche aneddoto significativo e
divertente, piuttosto che leggere faticose pagine di critica epistemologica.
Un esempio a nostro
avviso molto indicativo è quello relativo a Newton ed alla scoperta della legge
di gravitazione universale, di pitagorica impronta. Quando Halley seppe che
Newton aveva stabilito che la forma ellittica delle orbite planetarie dipendeva
formalmente dalla legge dell’inverso del quadrato della distanza, ebbe
occasione di chiedere allo scienziato inglese: <<Ma come fate a saperlo? L’avete provato?>>. E Newton rispose
candidamente: <<No. Ma lo so!
Datemi qualche giorno, vi troverò una prova!>>.
Recentemente, sulle
orme dell’illustre esoterista inglese, il brillante premio Nobel per la fisica,
Richard Feynman, dopo aver annunziato in una conferenza un nuovo inatteso
risultato, ad un ascoltatore che gli aveva posto la domanda: <<Dick, questo risultato è molto bello, ma
l’hai dimostrato?>>, rispose: <<Perché mai vuoi che lo dimostri, se so che è vero?>>.
Questi due brevi
aneddoti contengono un fondo di verità, che si ricollega alla tendenza della
scienza, più volte da noi rilevata, ad elaborare modelli e teorie generali
sulla costituzione del mondo che in un certo senso precedono la realtà,
fondandosi in gran parte sulle personali convinzioni ideologiche degli autori.
Proprio la “fede”
privata del ricercatore costituisce il fattore a-priori, che in genere egli con molta abilità riesce a trasporre
nella teoria elaborata dal punto di vista specificamente fisico. In questo
senso, ciò che in genere caratterizza la nascita delle più importanti teorie
fisiche è che: <<La dimostrazione
viene dopo la convinzione. L’argomentazione razionale può (e deve) sostenere
l’insegnamento e la diffusione delle idee nuove, ma non può affatto
accompagnarne il concepimento e la nascita>>[1].
Solitamente, gli
studiosi, per superare le inevitabili complicazioni legate alla formalizzazione
delle loro teorie, sono costretti a radicarsi sulle proprie personali
convinzioni, un po’ come gli esploratori si appellavano alla fede per portare
avanti le loro pioneristiche spedizioni. Cristoforo Colombo ad esempio tornato
dal suo viaggio scrisse un Libro delle
profezie, ove, nella prefazione, si legge: <<Ho già detto che per la realizzazione dell’impresa delle Indie, la
ragione, la matematica e il mappamondo non mi furono di nessuna utilità. Si
trattava solo del compiersi di ciò che Isaia aveva predetto>>[2].
Leggenda
ufficiale
Anche Einstein non
sfuggì a questa tendenza generale della ricerca scientifica, essendosi basato
per l’elaborazione della teoria della relatività innanzitutto sulle proprie
visioni circa il movimento assoluto dei corpi, più che su vere e proprie
istanze sperimentali. Meno che mai sull’esperienza di Michelson – Morley, come
in genere si sostiene su tutti i testi che trattano gli sviluppi storici della
relatività ristretta.
Al contrario, sono
proprio le dichiarazioni che lo stesso scienziato rilasciò in proposito a
dimostrare l’irrilevante ruolo che ebbe tale esperienza sullo slancio
propulsivo della famosa teoria che alterò le concezioni classiche dello spazio
e del tempo.
Infatti, se Einstein da una parte affermò: <<non v’è alcun dubbio che l’esperimento di Michelson ebbe una notevole
influenza sul mio lavoro>>. Dall’altra, smentì se stesso,
dichiarando: <<l’esperimento di
Michelson-Morley ebbe un effetto trascurabile sulla scoperta della relatività>>[3]. Più
ambigui di così!
La seconda affermazione, ossia che la relatività venne elaborata
indipendentemente dall’esperienza di Michelson, è tuttavia avvalorata da una
significativa ed indubitabile dichiarazione di Einstein, che in genere non
viene riportata nei manuali che presentano tale teoria. Ed è facile
comprenderne il motivo.
Einstein infatti
dichiarò: <<Nel mio personale
sviluppo il risultato di Michelson non ha avuto un’influenza considerevole. Non
ricordo nemmeno se ne fossi a conoscenza quando ho scritto il mio primo
articolo, appunto quello su cui si discute, sull’argomento. La spiegazione è
che io ero, per ragioni generali, fermamente convinto che non esiste movimento
assoluto, e il mio problema era solo di riconciliare questo con la nostra
conoscenza dell’elettrodinamica. Si può dunque capire perché nel mio personale
sforzo l’esperimento di Michelson non ebbe ruolo, o per lo meno non un ruolo
decisivo>>[4].
Con queste parole,
Einstein non solo smentisce la versione ufficiale circa il ruolo primario
svolto dall’esperienza di Michelson nella genesi della relatività. Ma conferma
in modo evidente che sono le idee personali, o di “accademia”, più che le
risorse sperimentali, ad indirizzare, promuovere e determinare l’indagine e gli
sviluppi della fisica teorica.
In altri termini,
secondo una prospettiva tipicamente kantiana, la natura, più che essere
ritenuta fonte di verità, viene costretta a rispondere alle domande che le
vengono rivolte in base alla teoria in auge, e che in un certo senso contengono
in sé le risposte che si vorrebbero ricavare.
Tuttavia, il senso di questa trascurata testimonianza di Einstein è
peraltro confermato da un fatto. Nel famoso articolo del 1905, nel quale viene
presentata la teoria della relatività, l’Autore non menziona l’opera
sperimentale di Michelson, ma riferisce solo in termini generali i <<tentativi falliti di scoprire qualsiasi moto
della terra relativamente al “mezzo luminoso” (Licthmedium)>>.
Einstein d’altra parte non poteva smentire se stesso, avendo affermato
altrove che: <<La base assiomatica
della fisica teorica non si può desumere dall’esperienza ma è una libera
invenzione della mente umana>>[5]. La
famosa simbiosi armonica fra indagine
sperimentale e elaborazione teorica,
è peraltro molto spesso solo dichiarata. In genere, sia l'una che l'altra vanno
avanti indipendentemente, finché, a
posteriori, ci si accorge di un legame che può esser posto fra esse.
G. Sermonti mette bene in chiaro questa
situazione, quando afferma che: <<le
più grandi scoperte compiute da empirici nel campo della scienza sono dovute al
caso, e soltanto una serie di equivoci ha indotto ad attribuirle alla
metodologia scientifica>>. Spesso in questi casi viene avviato un
processo di “falsificazione”, che può sintetizzarsi nelle seguenti fasi:
<<lo scienziato trova una relazione
empirica, poi formula, lui o un altro, un'ipotesi per interpretare quella
relazione. A questo punto si inverte il procedimento seguito e si finge che la
relazione sia prevista dall'ipotesi. Il fenomeno si trasforma quindi nell'intenzione
dell'ipotesi>>[6].
Fantasie
razionali
Sempre riguardo al complesso rapporto che si instaura
fra la formulazione dei concetti e le esperienze sensoriali, Einstein più volte
ebbe a dire che i principi logici che stanno a capo delle scoperte della fisica
teorica debbono essere concepiti come libere invenzioni del pensiero,
“fantasie” appunto, e non dedotti dall’esperienza come astrazioni, in quanto
<<ogni tentativo di dedurre
logicamente dalle esperienze elementari le idee e le leggi fondamentali della
meccanica è destinato a fallire>>[7]. Per
questo motivo, <<la fisica
costituisce un sistema logico di pensiero che si trova in uno stato di
evoluzione, e le cui basi non si possono ottenere mediante un qualsiasi metodo
induttivo, ma esclusivamente attraverso la libera invenzione>>[8].
Secondo questa linea interpretativa, le “libere invenzioni” del
pensiero costituiscono il vertice dal quale si avviano quei processi razionali
volti a cogliere la logica nascosta all’interno dei fenomeni naturali, ed a
colmare quell’abisso: <<che separa
il mondo delle esperienze sensibili dal mondo dei concetti e delle proposizioni>>[9].
Esse rappresentano in sostanza quel “fiat” che mette in moto e
determina il conseguente processo di elaborazione logica e formale, attraverso
il quale i fenomeni analizzati vengono come isolati dal loro contesto naturale,
per essere trasposti all’interno delle rispettive descrizioni teoriche.
Attenzione, però: <<non come il
brodo alla carne, ma piuttosto come il numero di riconoscimento al mantello
depositato in guardaroba>>[10].
In altri termini, nella prospettiva epistemologica di Einstein, la base
assiomatica della fisica teorica non deve essere ricavata dall’esperienza per
“astrazione”, ma deve essere liberamente inventata sulla base di regole e
canoni ben formalizzati. Un processo che in un certo senso può definirsi
deduttivo, del tipo di quello assiomatico utilizzato da Euclide nel comporre i
suoi Elementi, e da Newton per
strutturare la meccanica classica alla luce dei tre principi della dinamica.
A questo punto, si determina la contraddizione. Infatti, se Einstein
pone la fantasia razionale, il famoso sogno platonico rispetto alla realtà,
come punto di partenza del processo di conoscenza del mondo, che si esplica
attraverso la capacità del pensiero puro di comprendere il senso profondo dei
fenomeni[11],
allora non può esserci che una sola conseguenza: al perfezionamento di una
teoria fisica, non può che corrispondere un progressivo e quasi necessario
distacco dalla dimensione reale. Un paradossale effetto di alienazione dal
contesto fisico indagato, proprio perché la fonte della conoscenza è stata
posta nella mente e non nella realtà.
Questo processo di “mitizzazione” del reale è riscontrabile
specialmente nell’ambito della Relatività Generale, all’interno della quale le
quattro coordinate geometriche, relative alla metrica spazio-temporale, pur
costituendo gli esili anelli di congiunzione con la dimensione concreta,
vengono nel corso della loro definizione svuotate di ogni possibile contenuto
fisico, divenendo puri enti di mediazione matematica.
Conseguenze
Nessuna sorpresa dunque se, sulle linee di tale predisposizione, la
rappresentazione formale del mondo fisico quanto più diviene esauriente, tanto
più è destinata a slacciarsi dalla situazione concreta dalla quale è scaturita.
Infatti, se gli strumenti descrittivi di carattere matematico si perfezionano e
generalizzano, allora le formalizzazioni non possono che idealizzarsi in modo
conseguente, perdendo però sempre più il significato concreto, indice
dell’adeguamento di una teoria con la tangibilità del mondo reale.
Fra modello matematico e realtà fisica si determina pertanto come un
incolmabile e contraddittorio divario, un’intima ed inevitabile frattura,
proprio perché come sostiene Einstein: <<Nella misura in cui le leggi della matematica si riferiscono alla
realtà, esse non sono certe; e nella misura in cui sono certe, esse non si
riferiscono alla realtà>>[12].
Questo stato di fatto si impone nella fisica moderna come una sorta di
inevitabile bivio, al di là del quale rimangono separati il mondo fisico ed il
linguaggio matematico. Quest’ultimo, non più considerabile come un semplice
strumento della fisica, ma come la forma stessa della concettualizzazione.
Per superare tale scissione, che dialetticamente mette in atto la polemos, la contraddizione, non resta
che la ricerca di una possibile sintesi. Che però non può che avvenire a
discapito di una delle due parti. In genere rappresentata dalla realtà
ordinaria, con tutte le strutture logiche ed i significati che la
caratterizzano.
In base a quanto detto, mentre ad una prima analisi può sembrare che la
teoria della Relatività tenga conto ed affermi la diversa formulazione delle
leggi rispetto ai diversi osservatori, essa invece ricerca ed afferma
esattamente il contrario: l’invariabilità delle leggi rispetto ai fenomeni.
Ma se il formalismo e le leggi matematiche costituiscono l’elemento
invariabile di una rappresentazione fisica, ciò che varia come dicevamo non può
che essere la stessa realtà rappresentata. Di conseguenza, la salvaguardia
delle leggi centrali di una teoria, non può che comportare un delicato ma
necessario superamento della stessa logica con la quale ordinariamente si
interpreta il mondo fisico.
Ad esempio, perché le leggi fondamentali dell’elettrodinamica siano
invarianti è necessario che la velocità della luce, c, sia costante. Ma la costanza della velocità della luce nei
diversi sistemi inerziali implica che gli oggetti in movimento si contraggano,
che gli orologi in moto ritardino, che non esista una simultaneità assoluta.
La realtà è quindi deformata dalla rappresentazione teorica utilizzata.
E la logica, collegata alla dimensione concreta, sostituita da quella propria
del linguaggio formale. Infatti, come dicevamo, per salvaguardare se stessa:
<<la teoria deve attribuire una
certa relatività alla sfera delle osservazioni immediate>>[13].
Non importa dunque se un oggetto che cade da un finestrino possa
assumere traiettorie diverse a seconda dell’osservatore in moto o in quiete
(per un osservatore in movimento col treno la traiettoria è una parabola, per
uno fermo sulla banchina una linea retta). L’oggettività della teoria non deve
rendere conto della forma della traiettoria in sé, ma deve essere finalizzata
alla ricerca di un’equazione differenziale invariante che descriva la stessa
traiettoria in modo analogo, per entrambi gli osservatori.
Se dunque la teoria di Einstein ha relativizzato la dimensione degli
eventi naturali, insieme alle categorie di spazio e di tempo, ha nello stesso
tempo assolutizzato il formalismo matematico. Che a questo punto costituisce la
matrice generale nella quale deve rientrare la dimensione dei fenomeni. Al
prezzo dell’aumento del divario fra una scienza sempre più esoterica, perché
sempre più specifica e settoriale, ed un sapere comune e profano, al quale la
stessa scienza però deve e vuole comunque rapportarsi.
Ed è proprio per la vulgata, per riallacciare cioè i ponti con
l’intendere ed il sentire comune, che spesso vengono messi in circolazione
aneddoti ed episodi bizzarri relativi agli scienziati più famosi.
“Il triangolo no …”
Un aneddoto infatti si ricorda volentieri. Anche se si riferisce ad
argomenti specifici, in genere ostici. Anche se può mostrare l’altra faccia dei
grandi personaggi della scienza. Quella meno celebrata. Che dimostra come il
progresso scientifico non sempre corrisponde a nobiltà d’animo.
D’altronde, è giusto che sia così. Infatti, parafrasando il cardinal
Baronio, di galileiana memoria, che affermò: <<Nella Bibbia, l’intenzione dello Spirito Santo è di insegnarci come si
va in cielo, non come è fatto il cielo>>, la scienza che ci insegna
come è fatto il cielo, non serve tuttavia a farci entrare. Dunque, è del tutto
inutile per la salvezza dell’anima.
E che la scienza pitagorica non agevoli il progresso interiore neanche
ai suoi cultori più illustri, è tra l’altro dimostrato dalla seguente nota. Una
sorta di spiacevole ultimatum che il giovane, ma già alquanto famoso, Einstein
fece trovare alla prima moglie Mileva Maric, il 14 luglio 1918, poco prima
della loro separazione:
<<A) Farai in modo che: 1)
i miei vestiti e la mia biancheria siano sempre in buono stato; 2) che io
riceva regolarmente i miei tre pasti in camera mia; 3) che la mia camera e il
mio studio siano a posto, e che il mio tavolo da lavoro sia riservato
esclusivamente a me;
B) Smetterai di intrattenere ogni relazione
personale con me a eccezione dello stretto indispensabile per le apparenze
sociali. Più precisamente, rinuncerai: 1) alla mia presenza in casa con te; 2)
alle mie uscite e ai miei viaggi con te.
C) 1) Non ti aspetterai nessuna intimità da
parte mia e non tenterai alcun approccio con me, 2) non mi dovrai parlare a
meno che non te lo chieda, 3) dovrai lasciare la mia camera immediatamente e
senza protestare se te lo chiedo>>[14].
Peraltro, dopo la separazione dalla moglie Mileva, Einstein sull’onda
della celebrità fu conteso da molte donne. Fra le quali, la cugina Elsa e la
sua più graziosa figlia Margot. Questa disputa tipicamente femminile si volse a
favore di Elsa, che diventò la seconda moglie di Einstein. Ma la giovane Margot
andò comunque a vivere con loro e si adattò alquanto bene alla situazione.
[1]
J. M. Lévy – Leblond, La velocità dell’ombra – Ai limiti della
scienza, Codice Edizioni, Torino 2007, pagine 82-85.
[2]
Citato da T. Todorov, Viaggiatori e indigeni, in E. Garin L’uomo del Rinascimento, Laterza,
Roma-Bari 2002, pagina 336.
[3]
G. Holton, La questione Michelson Morley, in F.
Balibar, Einstein la gioia del pensiero,
Electa/Gallimard, Ed. It. 1994, pagina 138.
[4]
In, S. Bergia, La storia della relatività, estratto
dalla rivista <<La fisica nella scuola>>, anno VIII, numero 1,
1975, pagina 31.
[5]
In I. Rosenthal – Schneider, Presupposti
ed anticipazioni nella fisica di Einstein, in Albert Einstein scienziato e filosofo, Autobiografia di Einstein e
saggi di vari autori a cura di B. Schilpp, Boringhieri, Torino 1958, pagina 79.
[10] A. Eddington, The Philosophy of Physical Science, in
I. Rosenthal-Schneider, citato,
pagina 81.
[11]
Einstein afferma che <<Il
pensiero puro è capace di capire il reale, come sognavano gli antichi>>,
in I.
Rosenthal-Schneider, citato, pagina
90.
[12]
A. Einstein, Geometrie und Erfarhung,
in H. Marcenau, La realtà secondo
Einstein, in Albert
Einstein scienziato e filosofo … ,
pagina 197.