mercoledì 4 maggio 2011

L’INVENZIONE DELLA LUCE CHE VIAGGIA



Per “anno luce” si intende lo spazio percorso dal un raggio luminoso alla velocità, “c”, di circa 300000 km/sec. Questo percorso considerato rettilineo in uno spazio-tempo curvilineo viene utilizzato dagli astronomi per calcolare la distanza di una stella dalla terra. Sottolineiamo, calcolare e non misurare. Per misurazione si intende un processo di confronto fra una grandezza incognita ed una opportuna unità di misura ben definita rilevabile da uno strumento di misura. Una distanza terrestre viene misurata attraverso un regolo concreto, il metro, il cui campione di platino è conservato nel Museo di Arti e Mestieri di Parigi ed è approssimativamente equivalente alla 40 milionesima parte di un meridiano terrestre.
L’unità di misura utilizzata dagli astronomi per misurare le distanze celesti è invece di tutt’altra natura. Il cosiddetto “anno luce” è infatti composto da un insieme di quanti di energia, detti fotoni, che si propagano nel vuoto alla velocità, c, di 300 mila km al secondo. L’anno luce, che si ricava ipotizzando la propagazione della luce nel vuoto per un anno, non rappresenta una grandezza effettivamente fisica, ma corrisponde ad un “metro ideale” attraverso il quale vengono calcolate indirettamente le distanze che separano gli oggetti celesti. Infatti, un conto è misurare una qualunque distanza in modo diretto, mediante l’ausilio di un metro campione rigido, altro è proiettare nello spazio un ente di ragione, considerandolo però al pari di un regolo rigido.
In ordine a tale distinzione, i risultati che si ricavano attraverso l’impiego della suddetta entità ideale non dovrebbero essere considerati alla stregua di quelli determinati attraverso campioni di misura effettivi, proprio perché un conto è misurare, altro è calcolare il valore di una misura, che in tal modo rimane sempre presunta. Poiché l’anno luce rappresenta un astratto ente matematico ricavato sulla carta, che in sé non esiste, i dati ricavati attraverso il suo impiego non hanno lo stesso valore concreto e reale di quelli ricavati attraverso una misurazione diretta.

Dal punto di vista fisico, l’anno luce sembra non rispettare la ben nota legge di Lambert, anche detta del coseno, che afferma essere l’intensità di illuminazione inversamente proporzionale al quadrato della distanza della sorgente: L = I cosa / r2. Questa relazione indica che, ad una distanza di 3, 4, 5, n metri, l’intensità luminosa di una sorgente diminuisce rispettivamente di 9, 16, 25, n2 volte.
L’effetto previsto dalla legge del coseno di Lambert è ben noto, e può essere verificato in modo semplice nella proiezione delle immagini sugli schermi. Allontanando lo schermo, l’immagine si affievolisce e “sbianca” del tutto, fino a svanire. È molto difficile dunque che un fiotto di luce si mantenga compatto, senza diminuire di intensità durante la sua propagazione nello spazio reale, addirittura nell’arco di un anno, dal momento che luce, mentre si propaga, si esaurisce. È come se il metro utilizzato si dileguasse fra le mani, durante una misurazione diretta.
Pertanto, proprio perché la luce, dal punto di vista fisico, mentre si propaga si espande e si affievolisce, non può essere utilizzata come regolo effettivo per determinare le distanze celesti, senza che questa utilizzazione non comporti una qualche devianza. Occorre perciò considerare la possibilità che le attuali distanze cosmiche, ricavate mediante l’impiego di questo astratto campione di misura, siano anch’esse astratte, e non corrispondano alle distanze effettive del cosmo, che in quest’ottica risulta come dilatato (cfr P. E. Amico-Roxas, La suprema armonia dell’universo, Editrice Kemi, Milano 1990, pag. 40).
Inoltre, il concetto stesso di velocità, se attribuito ad un ente particolare come la luce, deve essere vagliato attentamente. Infatti, che senso possiamo conferire alla cosiddetta velocità della luce che, essendo di principio sempre costante, presuppone in ogni istante, anche in quello iniziale del moto, un'accelerazione sempre nulla? È infatti in questo attimo cruciale che si verificherebbe il “salto” dallo stato di quiete del raggio di luce (se così si può dire), a quello di moto; e questo, in modo discontinuo, dal momento che la velocità sale immediatamente, senza accelerazione, da zero al valore massimo c.
Tale variazione, ribadiamo, non avviene in un intervallo di tempo, ma in un istante, che di per sé non ha durata, e dunque è “fuori” dal tempo. Ma così come l'istante è fuori dal tempo, poiché non ha durata, anche il corrispondente spazio che la luce percorrerebbe nell'istante, è altrettanto non valutabile, dal momento che si ridurrebbe ad un punto, che da parte sua è senza parti ed estensione, e quindi “fuori” dallo spazio. Le problematiche relative a quell’entità che noi genericamente chiamiamo “luce” sono dunque notevoli. Per questo, i filosofi medievali ne avevano definito gli aspetti fondamentali, cercando di distinguerne i vari comportamenti.
<<Gli autori dei trattati di ottica distinguono lux, cioè la natura della luce considerata nella sua fonte: il raggio (radius) che è l’analogo diametralmente generato nell’ambiente dalla sorgente luminosa; lumen, o la luce diffusa in maniera sferica nell’ambiente dai raggi luminosi; splendor, cioè lo splendore degli oggetti tersi resi brillanti dalla luce>>, (É. Gilson, La filosofia nel Medioevo, La Nuova Italia Editrice, Scandicci – Firenze, 1994, pag. 515).

Pensiamo allora che valga la pena soffermarsi su alcune interessanti riflessioni che il premio Nobel per la fisica, P. Brigdman, sollevò riguardo alla cosiddetta velocità della luce. Noi sappiamo che la luce acquista una realtà in funzione degli oggetti che essa illumina: <<La luce non significa altro che cose illuminate>> (P. W. Brigdman, La logica della fisica moderna, Boringhieri, Torino 1965, pag. 152).
L’esperienza mostra appunto che noi non sperimentiamo mai la luce in se stessa, ma attraverso le sue interazioni con la materia. Ed è in base a questa esperienza che siamo indotti a credere che la luce viaggi e si propaghi nello spazio, come un qualunque oggetto naturale. Anche se vi è una differenza fondamentale fra il movimento di un oggetto materiale ed il movimento della luce. Infatti, noi possiamo vedere e controllare un oggetto ordinario durante le sue fasi del moto. La luce invece la possiamo “vedere” solo se frapponiamo nel suo tragitto dei corpi opachi. Tuttavia, nulla sappiamo di che cosa avvenga negli spazi bui che separano gli oggetti che rivelano la luce, assorbendola. Brigdman giunge alla conclusione che: <<la luce come cosa che viaggia è soltanto un’invenzione>> (Ibid., pagina 154).
Per questo motivo: <<le proprietà della luce appaiono contraddittorie e incoerenti quando si cerca di immaginarle in termini di oggetti materiali>> (Ibid., pag. 163) come appunto fece Einstein. Specialmente nella versione divulgativa della relatività, dove cercò di dare un senso fisico alla sua particolare teoria utilizzando esperienze mentali farcite di treni, banchine, osservatori ideali (Relatività – esposizione divulgativa, Boringhieri, Torino 1964, pagg. 34-38). Dove ad esempio raffronta la velocità della luce con quella di un treno che: <<si muove rapidamente verso il raggio di luce che proviene da B, mentre corre avanti al raggio di luce che proviene da A>> (pag 44). Come se la velocità di qualunque treno non fosse irrilevante e trascurabile se rapportata a quella della luce, che lo stesso Einstein altrove ha definito: <<praticamente infinita dal punto di vista dell’esperienza quotidiana>> (Pensieri degli anni difficili, Boringhieri, Torino 1965, pagina 235).