Sottolineiamo la velata presenza all’interno di una teoria scientifica, al di là dei suoi contenuti specifici, di un risvolto di innegabile consistenza, e che investe l’inscindibile relazione che collega l’opera dello scienziato alla sua ideologia[1]. Infatti, come se scienza e matematica costituissero un veicolo per trasmettere contenuti che le trascendono, le convinzioni di natura filosofica degli scienziati risultano in qualche modo trasposte ed inserite all’interno delle loro enunciazioni formali, non sempre in modo evidente.
Questa tendenza a trasmettere attraverso il sistema della scienza personali concezioni del mondo costituisce la caratteristica primaria del pitagorismo, o se si vuole della mentalità iniziatica. Che ovviamente non si è estinta, ma si evidenzia altresì al giorno d’oggi nei settori culturali più disparati. Nell’ambito della fisica moderna, ad esempio, al di sotto dei raffinati assetti formali, è presente un carattere di fondo che confluisce in una visione misticheggiante della realtà, di tendenza panteista ed eraclitea[2].
Per dimostrare quanto affermato, prenderemo in considerazione alcune significative dichiarazioni di Albert Einstein, il più famoso scienziato dell’epoca moderna, che rientrano nella sfera delle proprie concezioni personali, ma che riecheggiano anche nelle sue opere strettamente scientifiche, per lo meno come premesse. Spesso, infatti, lo scienziato tedesco nei suoi scritti è solito unificare due aspetti tipici del sapere, di per sé differenziati: misticismo e razionalismo. Mistica e ragione hanno infatti caratterizzato e determinato la sua personale visione del mondo, generalizzata e tradotta in dottrina scientifica. La sua fede nella religione cosmica, nel dio di Spinoza[3] per intenderci, lo ha portato ad esaltare la dimensione naturale e relativa della realtà, nella quale intendeva ricercare le tracce eterne di una presunta divinità, tuttavia senza persona.
Può essere utile ricordare che l’esaltazione della legge cosmica dell’eterno divenire, alla quale secondo questa linea interpretativa sarebbe soggetta la totalità degli enti, sottintende un’inevitabile svalutazione dell’essere individuale e della realtà presente. Einstein confermò tale implicazione, affermando che: <<Mi sento talmente parte di tutto ciò che vive che non m’importano per niente l’inizio e la fine dell’esistenza concreta di una singola persona in questo flusso eterno>>[4].
Questa fredda dichiarazione, che allude all’esistenza di una regola generale (flusso eterno) alla quale ogni individuo sarebbe inevitabilmente soggetto, evidenzia un tipico aspetto della mentalità di Einstein, e dei pitagorici in genere, riscontrabile anche nella sua concezione scientifica. E che in sostanza consiste, nell’ambito della conoscenza, nel privilegiare il formalismo e la legge matematica precostituita, dunque la deduzione, rispetto al contesto induttivo.
È indicativa in tal senso la risposta, che con buona volontà valutiamo ironica, data dallo scienziato tedesco ad uno studente che gli chiedeva come avrebbe reagito se la sua teoria della relatività generale non fosse stata confermata sperimentalmente. Einstein rispose: <<In tal caso mi spiacerebbe proprio per il buon Dio: la teoria è giusta!>>.[5]
Determinismo pitagorico
In senso generico, si può addirittura rilevare, nella concezione einsteiniana, come un ineluttabile prevalere della legge analitica sull’ambito naturale. E questo aspetto è assai significativo, dal momento che proprio il predominio del “dover essere” sull’”essere” costituisce un luogo tipico delle utopie[6]. Ne è esempio la teoria eliocentrica, nella quale, pur constatando i sensi il movimento del sole e la quiete terrestre, si afferma esattamente il contrario, dal momento che il modello teorico, ideologicamente precostituito, viene ritenuto superiore alla natura stessa. Infatti, <<perché si possa accettare l’ipotesi copernicana è necessario far violenza ai sensi. Dunque è necessario che “gli occhi della ragione” si aprano. Questa fede è pitagorica, non cristiana>>[7].
Ripetutamente, Einstein dichiarò il rifiuto della tesi dell’immortalità dell’anima e la sua personale tendenza a concepire l’uomo esclusivamente nella stretta dimensione naturale, negando senza mezzi termini l’idea di un Dio Padre, disposto a mettersi in comunione con l’uomo, per accoglierlo in una beatitudine infinita. A questo riguardo egli, tra l’altro, dichiarò senza ombra di dubbio: <<Non credo in un Dio personale e non ho mai nascosto questa mia convinzione, anzi l’ho espressa chiaramente… L’immortalità? Ce ne sono di due tipi. Una vive nell’immaginazione delle persone, ed è perciò un’illusione. C’è un’immortalità relativa che può mantenere la memoria di una persona per qualche generazione. Ma c’è una sola vera immortalità, dal punto di vista cosmico, ed è l’immortalità del cosmo stesso. Non ce ne sono altre>>[8].
Questa visione, più che altro interiore e misticheggiante dell’universo, sembra aver indotto Einstein a concepire un’immagine scientifica che la rispecchiasse. Egli infatti non solo non disgiunge le proprie convinzioni private dall’aspetto formale della propria teoria, ma ci tiene a generalizzare questa regola, dal momento che afferma: <<Ribadisco che è una religiosità cosmica il motivo più nobile della ricerca scientifica>>[9].
Questa premessa, in un certo senso metodologica, suggerisce che sia la teoria della Relatività Ristretta che quella Generale possano considerarsi sostanzialmente come dottrine filosofiche, dal momento che al loro interno si è come inserito l’ideale che le ha ispirate, ovvero: il credo nel panteismo cosmologico. Queste teorie, pertanto, pur se formulate in rigoroso ed inoppugnabile linguaggio geometrico, rappresentano il fiore all’occhiello di un’ideologia fondata sull’immanenza. Dunque, tutta tesa alla ricerca di fattori interni alla dimensione reale, che ne giustifichino e ne rendano comprensibile l’esistenza. E come a conferma di tale prospettiva, lo scienziato tedesco dichiarò: <<Nessuna idea concepita dalla nostra mente è indipendente dai nostri cinque sensi>>[10], intendendo così escludere di principio ogni possibile relazione fra Dio e l’uomo.
Secondo le linee tracciate dalla filosofia einsteiniana, l’universo appare come regolato da immutabili leggi matematiche le quali, quanto più si generalizzano, tanto più si idealizzano. Einstein però non chiarisce da dove si originino tali leggi, quale ne sia la fonte, o perché siano formulabili in questo modo particolare, e non in un altro.
Anzi, proprio la loro intelligibilità costituisce, a suo parere, il lato incomprensibile del mondo naturale. In quest’ottica di fondo, l’universo intero non può che obbedire e sottostare a leggi inviolabili ed eterne che non possiedono nessuna matrice logica, nessuna causa intelligibile, e che dunque possono essere persino ricollegate al mito, dal momento che: <<Tutto è determinato… da forze sulle quali non abbiamo alcun controllo. Lo è per l’insetto come per le stelle. Esseri umani, vegetali, o polvere cosmica, tutti danziamo al ritmo di una musica misteriosa, suonata in lontananza da un pifferaio invisibile>>[11].
Questa musica suadente e misteriosa, suonata da un “pifferaio magico”, lega tutta la realtà al mito, ed al mito più oscuro, dal momento che come afferma lo scienziato ogni essere vivente è destinato (condannato) a danzare, senza comprenderne il motivo. È chiaro che tale prospettiva, caratterizzata da <<un determinismo astrologico che esclude ogni libertà>>[12], non rappresenta che un’opinione. Tuttavia, il fatto di essere stata espressa da una delle più grandi personalità scientifiche di tutti i tempi, le attribuisce il fondamento e fascino che altrimenti non avrebbe.
Un regno senza Re
Non vogliamo di certo entrare nel merito delle convinzioni personali di Einstein riguardo all’esistenza dell’uomo e della divinità, pur dissentendone. Egli, infatti, alla luce della dottrina cristiana, dimostra di possedere una nozione alquanto oscura e primitiva di Dio, dal momento che giunge ad attribuirgli addirittura la responsabilità di tutte le sciocchezze compiute dall’uomo. Al punto da affermare che: <<la Sua non-esistenza sarebbe la sua unica scusante>>[13].
Al di là di tale sprezzante giudizio, che peraltro ignora l’argomento della libertà umana, e di come egli solo sia la causa del male che compie, riteniamo che proprio a causa di questa visione semplicistica e grezza della divinità, la filosofia einsteiniana non possa che fornire un quadro altrettanto fosco e aberrante del cosmo, caratterizzato da un assolutismo scientifico in cui pare dissolversi, insieme al valore proprio di ogni essere, il senso stesso di un mondo che perennemente esisterebbe di per sé, senza alcuna ragione intima, senza alcuna meta finale. Ma conclusione ancor più grave, senza alcuna possibilità di apertura verso la dimensione sacra e trascendente.
Nessuna sorpresa dunque se, con l’affermarsi della Relatività, l’universo è divenuto simile ad un complesso labirinto, se non proprio groviglio, matematico, di esclusiva pertinenza della comunità e delle discipline scientifiche. Peraltro, proprio le celebri equazioni di Einstein, basi universali di questo mondo mitizzato, espresse in un linguaggio di certo non accessibile ai “profani”, hanno indotto ad assolutizzare la geometria, esaltandola al punto da ritenerla: <<non solo uno strumento concettuale creato per leggere l’armonia della natura, ma la logica stessa delle sue strutture, il mezzo con cui i concetti basilari di misura si insediano nella moltitudine delle leggi fisiche… La geometria presiede a tutte le regole della natura, quando essa cambia, tutto cambia di necessità>>[14].
Il senso di questa affermazione è notevole, se non esagerato. Esso indica che il formalismo geometrico utilizzato nella teoria di Einstein, viene identificato addirittura con il fenomeno fisico descritto, fino a prenderne il sopravvento, svuotandolo dunque di ogni consistenza oggettiva. Infatti, se davvero: <<la fisica costituisce un sistema logico di pensiero che si trova in uno stato di evoluzione, e le cui basi non si possono ottenere mediante un qualsiasi metodo induttivo, ma esclusivamente attraverso la libera invenzione>>[15], allora non possiamo pretendere di individuare una realtà ontologica effettiva in entità create “attraverso libere invenzioni”, ed esistenti perciò solo nella “fantasia razionale” dello scienziato.
Dovrebbe peraltro essere chiaro che l’incomprensibilità di alcune fondamentali e famose idee della teoria relativistica – il “secondo principio di relatività”, il continuum quadridimensionale dello spazio-tempo, la sua curvatura, ecc. –, trova origine nella pretesa (di per sé fondata) di voler attribuire un riscontro ed un senso reale ad entità matematiche, che invece, per loro stessa natura, esistono solo nella mente di chi le ha escogitate, unificando, attraverso “libere invenzioni”, ideologia privata, linguaggio formale ed enti reali.
Questa sintesi di dottrina-ragione-realtà, costituisce peraltro l’essenza più intima del pitagorismo iniziatico, adottato dalla metodologia scientifica moderna. Ma è proprio in tale unità che si cela l’insidioso passaggio dal vero del mondo, al verosimile della rappresentazione. Passaggio che spesso comporta l’acquisizione non solo di scienza palese, ma anche di dottrina (materialistica) mascherata.
Per Einstein infatti – al pari del suo amato maestro Spinosa, che non separò Dio dal mondo naturale –, il credo nella religiosità cosmica costituisce un tutt’uno con la sua, forse fin troppo celebrata, opera scientifica. Ed è per questo motivo che tutto l’edificio relativistico, che senza dubbio costituisce una delle più grandi acquisizioni della scienza moderna, è tuttavia come impregnato dall’idea di una “presenza” impersonale, che <<si rivela nell’armonia di tutto ciò che esiste, ma non in un Dio che si occupa del destino e delle azioni degli esseri umani>>[16].
E proprio dalle nebbie di tale prospettiva, non può che emergere l’immagine di un mondo virtuale, senza senso, regolato da un “pifferaio invisibile”, che con la sua arcana musica trattiene “grandi” e “piccoli” all’interno di un regno dissacrato. Senza forma. E senza Re.
[1] R. Hanson afferma che non è mai possibile una “osservazione immacolata” dei fenomeni, poiché gli asserti osservativi che esprimono i dati empirici, sono sempre “carichi di teoria”. In base a questa osservazione, ci sembra possibile penetrare il senso ultimo di una teoria scientifica, che si riveste dei contenuti ideologici dello scienziato, spesso fonte della stessa indagine conoscitiva. Confronta N. R. Hanson, in A. Rebaglia, Scienza e verità – Introduzione all’epistemologia del Novecento, Paravia, Torino 1997, p. 154 e seguenti.
[2] <<La tendenza dominante nella fisica moderna segue Eraclito. Tuttavia, il Logos di Eraclito era una dialettica vaga: un discorso che non si originava dal concreto, né vi ritornava; mentre solo una dialettica concreta [materialistica, ndr] è in grado di cogliere la natura dinamica degli oggetti fisici>>, E. Bitsakis, Basi della fisica moderna, Ed. Dedalo, Bari 1992, p. 23.
[3] <<Credo nel dio di Spinosa che si rivela nell’armonia di tutto ciò che esiste, ma non in un dio che si occupa del destino e delle azioni degli esseri umani>>, telegramma inviato da Einstein a Rabbi Herbert S. Goldstein, <<New York Times>>, 25 aprile 1929, p. 60, col. 4.
[4] Lettera di Einstein a Hedwig Born, 18 aprile 1920.
[5] A. Einstein, Pensieri di un uomo curioso, Mondadori, Milano 1997, p. 124.
[6] Confronta G. Di Bernardo, La ricostruzione del Tempio, Marsilio, Venezia 1996, p. 71 e seguenti.
[7] M. Caleo, Galileo l’anticopernicano, Dottrinari, Salerno 1992, p. 34.
[8] Citato in S. L. Jaki, Dio e i cosmologi, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1991, p. 66 e nota 17.
[9] A. Einstein, Pensieri di un uomo curioso, citato, p. 112.
[10] Ibidem, p. 119.
[11] Ibidem, p. 110.
[12] Giovanni di Salisbury a proposito della dottrina aristotelica dell’astrazione. In E. Gilson, La filosofia di San Bonaventura, Jaka Book, Milano 1994, p. 11.
[13] A. Einstein, Pensieri di un uomo curioso, citato, p. 109.
[14] F. de Felice, Gli incerti confini del cosmo, Mondadori, Milano 2000, p. 28.
[15] A. Einstein, Pensieri degli anni difficili, Boringhieri, Torino 1965, p. 74.
[16] A. Einstein, Pensieri di un uomo curioso, citato, p. 110.