domenica 9 novembre 2014

ELIOCENTRISMO E SOVVERSIONE





A Padova risedette Nicolò Copernico nell’ottobre del 1501, per iscriversi alla facoltà di medicina, salvo poi conseguire il dottorato in diritto canonico il 31 maggio del 1503. Come richiamati da un’arcana ed unica missione di portata dirompente, nella stessa città giunsero, nel 1592, Giordano Bruno e Tommaso Campanella. Quest’ultimo vi restò più di un anno, ed ebbe modo di conoscere personalmente Galileo Galilei e la sua interpretazione della teoria eliocentrica, mettendo a fuoco il nucleo della sua concezione politico-religiosa circa l’unificazione di tutti i popoli e di tutte le religioni, alla luce di una monarchia cristiana universale diretta da un “papa” adeguato, cioè non esclusivamente cattolico.
I due fautori della causa eliocentrica, intesa soprattutto da un punto magico e rivoluzionario, Bruno e Campanella, ripresero l’opera iniziata dall’ambiguo filosofo-sacerdote Marsilio Ficino, il quale introdusse sottobanco nella dottrina cristiana il germe della misteriosofia egizia a sfondo magico-sessuale, al fine di propiziare l’avvento di una nuova era, associata al lancio di una nuova religiosità universale nella quale il cristianesimo e la magia naturale potessero integrarsi reciprocamente.
I due frati eretici interpretarono quindi la teoria eliocentrica appena abbozzata da Copernico come il grandioso annuncio celeste dell’avvento del nuovo clima politico-religioso universale, alla luce di un cristianesimo riformato. In molte lettere, Campanella riferisce su questa possibilità, indicandola come la “discesa del sole” sulla terra[1]. Discesa, ovviamente non astronomica, bensì spirituale e magica. Questi due personaggi assai simili, costituiscono due anelli fondamentali nella ripresa del neopaganesimo e del ritorno in ambito sociale e religioso della cultura egiziana, cioè la regressione da Cristo ad Heros, ancora in atto ai nostri giorni.
Campanella, nato in terra calabra, ove, non dimentichiamolo, Pitagora fondò la sua scuola iniziatica propagatrice delle conoscenze recondite coltivate dai sacerdoti-maghi dell’antico Egitto, manifestò ben presto una spiccata indole sovversiva. Egli si scagliò a più riprese ed aizzò gran parte del popolo contro il dominio spagnolo e clericale vigente nel sud Italia, per cercare di realizzare l’immaginaria città pitagorico-solare, della quale egli stesso si proclamava sacerdote e profeta. Ma dopo l’ultimo misero fallimento di questa impresa contro i “clerico-spagnoli”, avvenuto nell’estate del 1599, venne catturato e condotto nel carcere di Napoli ove, dopo aver subito un ulteriore processo per eresia e pratiche demoniche, rimase fino al 1626. In questo ampio lasso di tempo, ebbe modo di comporre le sue opere principali.
Campanella trascorse così la maggior parte della sua vita nei carceri dell’Inquisizione, nei quali ebbe modo di studiare, di scrivere, di fare proseliti, di influenzare la politica europea a favore della vagheggiata “discesa del sole”. Questa sua continua attività di proselitismo, svolta nei famigerati carceri dell’Inquisizione, indica che questi non erano poi così terribili, come in genere vengono descritti nelle caricature tipiche della vulgata moderna, essendo forse persino più gradevoli di certi monasteri o conventi ove le Regole dei rispettivi Fondatori venivano applicate sine glossa, alla luce della religiosità rivitalizzata dalla controriforma tridentina ad imitazione della vita di Cristo casto, povero e penitente.
A differenza di Bruno, il frate calabrese seppe mitigare e dissimulare nel corso del tempo l’estremismo rivoluzionario del suo carattere espresso nelle sue prime opere, rivolgendosi infine anche alle istituzioni e le autorità contro le quali aveva indirizzato la lotta di una vita. Così, dopo una lunga serie di fallimenti, nel 1634, rifugiatosi in Francia per sfuggire alle ulteriori condanne dell’Inquisizione, Campanella trovò accoglienza ed onori da parte di Luigi XIII e del cardinale Richelieu. Quando nel settembre del 1638 nacque il futuro Luigi XIV, il cosiddetto re Sole, compose una lunga egloga in latino in suo onore, individuando nel neonato il realizzatore delle sue idee politiche e religiose, nonché della città mondiale, la città mondiale del Sole.
 Nel 1689, allo stesso re Sole venne misteriosamente offerta la possibilità di consacrare al Sacro Cuore di Gesù la Francia, come per preservarla dalle sanguinose sovversioni che le sette segrete stavano producendo nel mondo. L’impero di Cristo Re sul mondo e sulle nazioni a partire dalla Francia non venne riconosciuto. Cento anni dopo, il 17 giugno 1789, sullo stesso suolo prese avvio la persecuzione contro la Chiesa e l’ordine sociale sottoposto all’autorità divina, come legittimata dai regimi che drammaticamente si imposero nel corso del tempo, per realizzare l’unico regno sottoposto al nuovo ordine mondiale.

La nota utopia campanelliana riproponeva l’antico sogno di una società basata sulla comunione dei beni, sull’abolizione della proprietà privata, sull’amore libero, sulla selezione della razza e via dicendo in sostituzione a quella fondata sulla disciplina e sulla morale cattolica. Questi argomenti tipici della metafisica solare, sono riconducibili peraltro ad un vecchio trattato attribuito ad un sofista greco, denominato “anonimo di Giamblico” e titolato significativamente, Lo stato del Sole. Tale trattato prometteva la realizzazione di uno stato: «senza padroni, e senza servi, senza ricchi e senza poveri … Le masse cui egli aveva fatto appello risposero con entusiasmo e l’intero regno di Pergamo, ribattezzato dagli insorti “La Città del Sole”, per oltre due anni fu nelle mani degli schiavi»[2]. Alla luce di tali promesse, scoppiò la rivolta degli schiavi contro il potere di Roma che dilagò dalla città di Pergamo, nella seconda metà del II secolo a. C, per poi diffondersi in tutte le sponde del Mediterraneo, prima di essere soffocato a fatica dalle truppe imperiali.
La città immaginaria enfatizzata dal frate calabrese nel tardo rinascimento riuscì a far presa in molte coscienze e si delineò come una meta da perseguire nel tempo attraverso l’opera di autorevoli suoi fautori, in rapporto con i potenti di turno, non disgiunta dalla trasmissione sotterranea all’interno delle aristocrazie europee di tutti i riflessi magici in essa contenuta che ne garantivano l’efficacia, rendendone possibile l’attuazione attraverso “legami” e “sigilli” occulti.
L’opera campanelliana si rispecchiava sottotraccia anche nei manifesti rosacrociani che comparvero in diverse città europee nel 1614, come a dimostrazione che l’opera di rovesciamento dello stato e della religione vigente, sotto la veste di una fraternità e pace universali, era iniziata con l’avvento dell’era eliocentrica.
Dalle oscurità delle carceri in cui era relegato, questo frate proclamava ai potenti la realizzazione di uno stato moderno universale governato da un solo reggitore, nel quale avrebbero dovuto fondersi tutti i caratteri di duce temporale e spirituale. Questo non solo attraverso scritti, ma anche mediante rituali di antica magia, reperiti negli scritti e nei manuali ermetici che circolavano in gran numero nelle corti europee, nonostante il ferreo controllo dell’Inquisizione e la reazione della Controriforma.
Del resto, il Sole-sovrano della Civitas Solis è al tempo stesso re, sacerdote e mago secondo la figura di Ermete Trismegisto, citato da Copernico a garanzia della dottrina eliocentrica, alla luce del quale la magia popolana e pittoresca del Medioevo acquisiva parvenze di autorevolezza e potere agli occhi dei deboli di fede. Il linguaggio oscuro ed i simboli kabalistici della magia di Bruno conferivano all’ermetismo il fascino necessario per far presa sull’immaginario comune, reso quindi disponibile ad aperture verso quelle dimensioni incognite severamente interdette dalle linee pastorali ridefinite e rimarcate dal Concilio di Trento.
Come già accennato, pur di giungere al suo obiettivo sovversivo dell’ordine vigente, nello scritto Monarchia di Spagna, pubblicato nel 1620, Campanella indicò il suo antico avversario, la Spagna, come nazione-capo del regno mondiale ed individuò nel Papa la sua guida spirituale. Ma non riuscendo a far presa sulla corte spagnola, rifugiatosi poi in Francia, negli ultimi anni della sua vita pose tutta la sua fiducia nel re francese.
In un’altra opera, Monarchia Messiae egli rende espliciti i suoi progetti rivoluzionari, profetizzando ancora la realizzazione della monarchia mondiale universale: «attraverso la quale il papa sarebbe diventato il capo sia spirituale che temporale del mondo intero, tutte le religioni si sarebbero convertite in una e si sarebbe costituita una unità religiosa e politica mondiale»[3]. Tale proclama diverrà il progetto di tutte le sette segrete che miravano a stabilire attraverso il papato la distruzione stessa della vera Chiesa Romana attraverso una riforma della dottrina e delle linee ecclesiologiche tradizionali, sulla falsa riga di un protestantesimo moderato.
In effetti, la rivoluzione politico-eliocentrica, la “discesa del sole”, messa in atto da Campanella attraverso i suoi scritti e la sua instancabile propaganda, anticipava e trasmetteva i codici del progetto sincretistico di unificazione delle religioni e degli stati sotto un unico governo che diventeranno il cavallo di battaglia dell’illuminismo e del laicismo contemporaneo. Sulle linee di questo obiettivo infatti, presero avvio i protocolli segreti attraverso i quali circoli, accademie e logge di vario genere avrebbero operato l’attacco alla morale ed all’ordine sociale fino allora imposti e garantiti dall’autorità papale, a favore di un’apparente democrazia.
Il frate calabrese, nonostante condanne, fughe, processi per eresie e pratiche magiche, restava pur sempre un rappresentante di Santa Romana Chiesa, non avendo abbandonato l’abito domenicano, al contrario di Bruno. Il papa stesso, Urbano VIII, attirato dalla sua fama, ricorse a lui nel 1628 per scacciare quelli che riteneva influssi maligni. E questa sorte di esorcismo venne effettuata non attraverso preghiere e pratiche religiose, evidentemente ritenute inefficaci, ma mediante la “via diretta” di rituali magici: bruciature d’erbe, accensione di torce a modello dei pianeti e dello zodiaco, uso di piante e colori connessi ai pianeti, liquori distillati astrologicamente, come dichiara lo stesso frate in un’appendice degli Astrologica (Lione 1629)[4].
La pur momentanea apertura del Papa verso un personaggio così controverso ed equivoco è emblematica e dimostra come l’attacco alla Chiesa si stesse insidiando nel suo stesso interno, propiziato dai suoi esponenti più ambigui, come il Ficino, Bruno, Campanella, il gesuita Athanasius Kircher, ecc. Appellandosi all’autorità di Ermete Trismegisto e di Pitagora, venivano insinuati da questi esponenti nella sacra Dottrina i germi della contraddizione che avrebbe scardinato i cardini della società civile cristiana. Da allora, il clima politico divenne infatti sempre più anticlericale, spiccando in turbolenza contro l’autorità costituita per diritto divino. Il laicismo, non il laicato, prendeva piede nella mentalità comune, sotto la spinta degli ideali illuministici coltivati in quelle accademie che mal digerivano il concetto divino di autorità ed il dogmatismo proprio della religione rivelata.
L’odio anticristiano e la crociata anticlericale iniziata a livello magico ed ideologico prese infatti piede anche dal punto di vista politico. La discesa del sole era ormai alle porte, pronta a manifestarsi nella rivoluzione francese, sanguinoso evento dal quale il “massonicesimo” si sarebbe imposto in tutta Europa e nel mondo, insieme al suo fine più o meno palese di distruggere la Chiesa Romana, per ricostruirla su altre base, secondo il motto alchemico del “solve et coagula”.
Non per caso, nei documenti segreti dei Carbonari, traspare il proposito espresso da Campanella nel De monarchia ed in altri scritti, molti dei quali peraltro ancora non pubblicati. Ossia quello di “giungere con piccoli mezzi ben graduati, benché mai definiti, al trionfo dell’idea rivoluzionaria per mezzo del Papa … il lavoro a cui ci accingiamo – spiega l’Istruzione della cosiddetta Alta Vendita – non è l’opera di un giorno, né di un mese, né di un anno”.
Il documento segreto prosegue indicando il fine supremo della lotta: “quello che dobbiamo aspettare come gli ebrei aspettano il Messia, è un Papa secondo i nostri bisogni … con questo solo noi andremo più sicuramente all’assalto della Chiesa, che non con gli opuscoletti dei nostri fratelli di Francia e con l’oro stesso dell’Inghilterra … noi abbiamo il dito mignolo del successore di Pietro ingaggiato nel complotto, e questo dito mignolo val per questa crociata tutti gli Urbani II e tutti i S. Bernardi della Cristianità” (in, R. de Mattei, Pio IX e la Rivoluzione italiana, Cantagalli, Siena 2012, pp. 24-25).
L’attacco alla Chiesa prevedeva dunque la corruzione del Soglio Supremo in vista dell’“abominio della desolazione”, inteso come tentativo di sovvertire il cristianesimo attraverso il suo Capo Supremo, il rappresentante di Cristo in terra. In effetti, le mura esterne del regno terreno del Papa, caddero il 20 settembre 1870. Data carica di contenuti esoterici. Abbiamo riferito che tale data rappresenta un significativo anniversario della caduta del Tempio di Gerusalemme, avvenuta nel 70 d. C., ad opera delle truppe di Tito. Infatti, 1800 anni dopo, in occasione dell’equinozio d’autunno, data cara alle schiere massoniche, caddero le mura di Porta Pia, segnando in modo occulto con il marchio fatidico, il seicentosessantasei, quella che fu la Roma felix. Infatti, 1800, escludendo gli zeri, non è altro che 18, tre volte sei.
Aspetti cabalistici a parte, l’arduo tentativo di ricostruzione della Chiesa su basi estranee alla Tradizione Apostolica, e di porre sul Seggio Petrino un “Papa” secondo i bisogni delle sette segrete, sembra riallacciarsi al fatidico 1960. Anno nel quale la sempre Vergine Maria apparsa a Fatima indicò ai pastorelli di diffondere il terribile terzo/quarto, segreto, come a salvaguardia di un ulteriore dramma prossimo a svolgersi in tutte le sue conseguenze più oscure. Senza tuttavia omettere di assicurare che: “Alla fine il mio Cuore Immacolato trionferà”, come a suggello dell’evangelica divina sentenza “Portae inferi non prevalebunt” (Mt 16,18).






[1] F. Yates, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Laterza, Roma-Bari, 1995, p. 395.
[2] A. Donini,  Breve storia delle religioni, Newton Compton editori, Roma 1991, p. 174.
[3] F. Yates, cit., p. 416.
[4] Yates, ib., p. 405.

domenica 15 giugno 2014

LA STABILITA’ DELLA TERRA


Galilei nel 1634, scrisse ad Elia Diodati, che in quel tempo soggiornava in Parigi, tutto il suo rammarico circa la netta disapprovazione della tesi del movimento della terra, che il Collegio Romano aveva sollevato in modo autorevole attraverso il libro «Tractatus syllepticus» del gesuita Melchiorre Inchofer.
Lo scienziato in tale lettera comunica che: «ultimamente un Padre Gesuita ha stampato in Roma che tale opinione (la mobilità della terra) è tanto orribile, perniciosa e scandalosa, che se anche si permette nelle cattedre, nei circoli, nelle pubbliche dispute e nelle stampe si portino argomenti contro ai principalissimi articoli della fede, come contro l’immortalità dell’anima, la creazione, l’Incarnazione etc., non però si deve permettere che si disputi, né si argomenti contro la stabilità della terra; poiché solo quest’articolo sopra a tutti ha talmente a tener per sicuro, che in modo alcuno si abbia, neanche per modo di disputa e per sua maggior corroborazione, a instargli contro».
Oltre a far luce all’interno dell’animo dello scienziato, questa breve citazione sfata ulteriormente il luogo comune, circa la presunta intolleranza ed oscurantismo della Chiesa post-Tridentina. Infatti, la censura messa in atto da quest’ultima, nonostante i proclami ed un linguaggio spesso assai duro, in effetti era alquanto morbida e tollerante, visto che arrivava al punto, come scrive lo scienziato, di consentire la messa in discussione dei principali articoli della fede cattolica. Diffondere dubbi circa l’immortalità dell’anima, la creazione, l’Incarnazione stessa con pubblicazioni libere, e persino nelle scuole, non significava quindi, come si crede, incorrere automaticamente nelle catene e nelle torture del tribunale dell’Inquisizione.
Del resto, la nostra fede ha sempre tratto edificazione dalle contestazioni ereticali che si sono levate contro di essa nel corso dei secoli, dimostrandone l’infondatezza alla luce della verità rivelata. Si pensi al movimento dei catari, che determinò la formazione dell’Ordine di San Domenico per la difesa della dottrina e la condanna dell’eresie. Proprio quest’Ordine intervenne sollevando le prime critiche agli argomenti eliocentrici sostenuti da Galilei, innescando così il meccanismo che sfociò nel primo processo dell’Inquisizione del 1616 e nel divieto emesso dal cardinale Bellarmino, e comunque trasgredito da Galilei, di non insegnare e diffondere la teoria eliocentrica.
Certo, può stupire che una ipotesi di carattere astronomico come quella del moto della terra, fosse ritenuta più deleteria di argomenti strettamente teologici, che pur avevano segnato la Chiesa di Roma in modo profondo un centinaio di anni prima. Come se in Galilei, il gesuita Inchofer avesse individuato un pericolo analogo a quello che si levò nel 1517, alla vigilia di Ognissanti, oggi festa di Halloween, quando Lutero affisse le 95 tesi alla porta della chiesa del castello di Wittenberg.
Perché allora una tesi di ordine cosmologico e filosofico era ritenuta tanto “orribile, perniciosa e scandalosa”, non solo dai Domenicani, ma successivamente anche dai Gesuiti? In fondo, il presunto movimento della terra era un argomento che interessava un ambito molto ristretto della popolazione di allora, quello degli astronomi-astrologi e quello dei filosofi della natura. Le problematiche che segnavano la società a cavallo dei secoli XVI-XVII erano molto più gravi e stringenti delle discussioni e delle polemiche circa la disposizione dinamica celeste. Si pensi alla guerra dei cent’anni, il conflitto fra Chiesa ed Impero, le carestie, le epidemie ecc. Inoltre, questa stessa tesi era già nota perché portata avanti da esponenti della chiesa ed accettata senza problemi, vedi il Cusano, Nicola di Oresme, ultimo il canonico Copernico che dedicò lo sviluppo di tale ipotesi a Paolo III.
Oggi non possiamo che sorridere di fronte alle preoccupazioni che si sollevarono dagli ambienti ecclesiastici verso questa tesi astronomica, in vista di chissà quali mali e pericoli. Al giorno d’oggi, forse nessuno, pur non avendo cognizioni scientifiche sufficienti per dimostrare secondo i tecnicismi della scienza il moto della terra, sarebbe disposto a negare questo assunto divenuto ormai una radicatissima certezza della scienza, per esclamare con l’ingenuità del bambino della favola di Andersen «Il re è nudo». Ci fidiamo delle conclusioni della scienza e degli scienziati che in coro da tutto il mondo, da cinquecento anni, proclamano quest’idea dalla quale hanno preso avvio l’astronomia e la fisica moderne.
Per fede scientifica, ma in questo caso sarebbe meglio dire pitagorica o filo massonica, ad occhi chiusi ripetiamo quindi che il sole è fermo e la terra ruota, nonostante percepiamo il contrario. Abbiamo imparato fin troppo bene la lezione che ci è giunta dal rinascimento magico. Ogni dubbio in proposito è considerato e spazzato via come un retaggio della Chiesa medievale oscurantista, antiscientifica. Quindi, così è: la terra ruota e trasla pur senza provocare effetti evidenti, come se fosse un sistema inerziale, anche se non può esserlo. Lo sarebbe infatti se non ruotasse e non traslasse, ma se ruota e trasla non può esserlo di principio.
Siamo così convinti che la terra ruoti, che persino se scendesse un angelo del Signore ad annunciare il contrario, saremmo convinti di trovarci di fronte ad un diavolo ingannatore, perché non può essere che Dio insegni menzogne piuttosto che la verità scoperta da Galilei, grazie alla quale la ragione dell’uomo si è emancipata dai retaggi della cultura e delle superstizioni dei secoli oscuri, ecc.
Come una nuova ed infallibile religione quindi la scienza moderna, sulla base delle sue scoperte e teorie elaborate con linguaggio raffinato ed esclusivo, ha impresso nella mente di tutti il “sigillo” eliocentrico, come un indubitabile dogma. Del resto, le scoperte astronomiche dello stesso Galilei: i pianeti di Giove, le fasi di Venere, l’irregolarità del suolo lunare, ecc., hanno oscurato i suoi clamorosi errori, legittimando così la metafisica connessa al modello eliocentrico. Metafisica conciliabile con la religiosità pagana, non con quella cristiana.
Certo, nel Vangelo non ci sono informazioni scientifiche, Gesù non ha mai affermato argomenti o avvalorato teorie astronomiche quando parlava del regno dei cieli. I suoi molteplici riferimenti alla dimensione naturale sono ordinati a quella trascendente, come per dilatare l’intelligenza fino alla percezione ed acquisizione delle realtà invisibili. Egli intende così evidenziare che il termine ultimo della conoscenza, e della nostra residenza, è l’al di là e non l’al di qua, l’eterno più del transitorio.
Gesù Cristo tuttavia ci ha fornito la “chiave della scienza”, insegnandoci la logica semplice e concreta del “si e del no”, «il resto viene dal maligno» (Mt 5, 37). Sulla base di questo semplice metodo di lettura, S. Tommaso, come indica S. Paolo nell’incipit della Lettera ai Romani, ha attestato che l’uomo possiede la facoltà conoscitiva razionale, in base alla quale può penetrare le cose sensibili per astrarre da esse l’idea, o essenza intellegibile, fino a giungere alla conoscenza dell’Essere di per sé sussistente.
Quando invece la ragione rivolge il dubbio su ciò che è indubitabile, il principio primo, negando il passaggio della conoscenza dal senso all’intelletto, apre le porte a realtà immaginarie ed ideali che modificano la base dalla quale sono scaturite. Queste realtà artificiali si nutrono della stessa sostanza che le produce, il pensiero, che le sostiene e fortifica, espandendosi nel contempo di mente in mente, come una catena unificante il pensiero comune, fino a “consolidarsi” in esso.
Gli antiaristotelici e gli umanisti iniziati alla filosofia occulta ed alla religiosità e licenziosità classica, sapevano bene che per scardinare la visione della realtà derivante dalla metafisica scolastica, per aprire quindi varchi nella ragione e nella morale e manipolare l’immaginazione comune, occorreva mettere in dubbio il principio primo, la percezione del reale, la logica elementare del si si e no no, emancipando altresì l’uomo dal dogmatismo religioso e dalla morale ad esso conseguente.
Essi trovarono in questo programma un alleato formidabile in Galilei, il quale postulava “il far violenza ai sensi” per dar luogo alla fantasia razionale, barattando così il vero con il vero-simile, opponendo la ragione alla percezione, nel caso del presunto moto della terra, ma riabilitando la percezione quando veniva a conforto della sua ragione, come nel caso del telescopio.  
Gli stessi sensi che si ingannavano infatti quando vedevano il sole e le stelle muoversi nel cielo da oriente ad occidente, non si ingannavano quando vedevano attraverso rozzi filtri oculari i monti della Luna, le fasi di Venere, i satelliti di Giove ecc. A queste visioni sensibili filtrate da strumenti rudimentali occorreva prestar fede ed asservire la ragione. Invece, nel caso del movimento del sole, bisognava far violenza alla visione percepita, in modo inequivocabile da tutti, perché ritenuta illusoria. “Coerenza” galileiana, sulla quale si glissa volentieri, spostando i termini del discorso su argomenti meno scivolosi ed aperti alla polemica.
Del resto, Galilei fu un maestro nel suscitare contrasti verso quanti mettevano in dubbio i suoi argomenti a favore del moto terrestre, di norma erronei, riuscendo ad invertire le parti in causa. I protestanti che prima avevano condannato Copernico e l’eliocentrismo rivalutarono questa dottrina, nel momento in cui Galilei tirò in ballo l’interpretazione delle Scritture. I cattolici che avevano utilizzato la tesi eliocentrica per la riforma del calendario e non avevano nulla contro il De revolutionibus di Copernico, iniziarono a nutrire verso quest’ipotesi, strumentalizzata teologicamente ed assolutizzata dal Pisano, forti sospetti.
La dottrina eliocentrica assumeva infatti agli occhi degli avversari di Galileo tutti i caratteri di una nuova e sottile eresia che, sotto l’aspetto di scienza induttiva espressa in linguaggio asettico, quantitativo e formale, avrebbe reso fredda e formale la conoscenza, escludendo la teologia dall’indagine scientifica, e mantenendo in se stessa l’aspetto irrazionale collegato alla filosofia pitagorica ed alla magia ermetica, dalle quali aveva preso avvio e fondamento quella rivoluzione cosmologica.
Oggi pertanto non crediamo più alle sfere celesti, alle gerarchie angeliche, all’azione delle intelligenze celesti. Pervasi da tutt’altro spirito, fondato sulla illogica identità fra essere e nulla, di matrice eraclitea, tutti noi crediamo ad altre cose, ordinando la fede alla scienza, la Scrittura alla fisica. Crediamo quindi senza indugio, che la terra si muova. Sosteniamo quest’argomento, senza sospettare della negatività che gli veniva attribuito, perché fondato sulla negazione del principio primo della conoscenza: la realtà percepita e, per quanto abbiamo più volte rilevato, perché collegato sottobanco alla eliolatria egizia. Questo legame non doveva essere sconosciuto specialmente ai Domenicani, ex confratelli di Giordano Bruno, fautore di un ritorno alla religiosità, ed alla cattività, egizia.
Crediamo a tutto questo per un atto di fede verso la nuova religione, la scienza, anche se non vi sono effetti fisici evidenti che rivelano il presunto moto della terra, attraverso accelerazioni palesi su di essa. Se la terra ruotasse come una giostra, vi sarebbero effetti fisici percepibili in modo evidente. Un sistema in rotazione e traslazione, come una trottola che ruota e che avanza, non può essere considerato apparentemente fermo come si considera sia la terra, a meno che si consegua una laurea in fisica e come in un gioco di prestigio si trasformi la realtà in astrazione matematica e questa in realtà.
Per dimostrare la tesi già convalidata a priori del presunto moto terrestre, si utilizzano le prove del pendolo di Foucault, le forze di Gaspard Gustave Coriolis, Parigi 1792-1843 (l’esperienza di Guglielmini è stata tolta di mezzo perché non affidabile). Il pendolo di Foucault dimostra sì che qualcosa si muove tra cielo e terra, ma non chiarisce quale dei due elementi effettivamente si muova. Il suo piano inoltre non ruota nel senso previsto, da ovest verso est, ossia come dovrebbe ruotare la terra, ma da est verso ovest, come ruotano i cieli e le stelle, cioè in senso opposto a quello attribuito alla terra.
Oggi quindi non crediamo più che siano gli angeli a disporre e mantenere l’ordine del cosmo visibile e di quello invisibile. Non crediamo nei cori e nelle gerarchie disposti armonicamente che ci sovrastano e collegano il visibile all’invisibile, fino al trono di Dio. Crediamo però nelle fantomatiche particelle-onde, nei quark, nei buchi neri ed in altri prodotti della fantasia razionale, come se esistessero davvero al pari di tavoli e sedie. 
Ovviamente crediamo anche che un punto dell'equatore terrestre ruoti insieme a noi alla velocità di 1.668 Km/h (460 m/s), che la rivoluzione terrestre avvenga alla velocità di 107.280 Km/h (30 km/s), e che la rotazione del nostro sistema solare rispetto al centro della galassia si compia alla velocità di circa 2,6 milioni di Km/h (720 km/s). Velocità di roto-traslazione sbalorditive ed incredibili che tuttavia, misteriosamente non producono effetti conseguenti su di noi e nell’atmosfera. La quale, invece, nonostante tutto, continua a trasmettere all’animo sentimenti di pace e di armonia, nonché intense sensazioni di stabilità ed equilibrio che rimandano alla Trascendenza ed alla perfezione divina, essendo pur sempre il cielo “trono di Dio”, e la terra “sgabello dei suoi piedi” (cfr. Mt 5, 34-35).


domenica 20 aprile 2014

IL “DEBITO” DI GALILEI



Un mito orientale narra di una battaglia così accanita che dopo la morte dei guerrieri le ombre continuarono a combattere. Questo simbolismo indica che la lotta delle idee si protrae nel tempo, a prescindere da chi le incarni. In un certo senso, sembrano essere le stesse idee a “nutrire” coloro che le sostengono e dalle quali sono come conquistati.
Se così non fosse, non si spiegherebbe il persistere di polemiche che non si risolvono, che non sfociano nella verità tutta intera, la quale obbedisce ad una logica sola. Succede anche che le parti che si contrappongono in questa accanita battaglia, che si tramanda nelle generazioni, quella dei vincitori e quella dei vinti, spesso scambino i ruoli nel tempo, a seconda del pensiero dominante, in una sorta di danza degli opposti che non si risolve in sintesi definitiva.
In questa dinamica strutturale, sembra rientrare il non ancora sopito contrasto che vide opporsi Galilei, sostenuto da una parte di figure ecclesiastiche, al resto della Gerarchia Romana. Ma se allora questa costituiva la fazione vincitrice e dominante, recentemente come per antitesi sono invece gli epigoni galileiani ad aver conquistato la quasi totalità del campo della pubblica opinione.
Il logoro cliché positivista, che eleva Galilei a simbolo della lotta contro l’oscurantismo ed il dogmatismo della Chiesa dogmatica di un tempo, è entrato a far parte anche della cultura cattolica, dopo i vari “mea culpa” che Giovanni Paolo II recitò in vista del Giubileo del 2000 e gli illustri interventi di vario genere a favore di questa tesi.
La questione galileiana sembra quindi essere chiusa, se non fosse (al di là di quanto si dice e crede anche in ambito cattolico) per i dubbi circa la “fede” e l’ortodossia di Galilei, il cui spirito polemico non indietreggiò, ad esempio, neanche quando si trattò di disputare con il Papa Urbano VIII, rappresentato nel Dialogo dalla figura caricaturale di Simplicio.
Dubbi a parte, di certo sappiamo che il punto critico relativo a questo annoso contrasto è segnato dai due processi che lo scienziato subì da parte del Tribunale dell’Inquisizione. Il primo del 1616 si concluse con l’ammonizione rivolta a Galilei dal cardinale Bellarmino di abbandonare l’interpretazione realistica dell’opinione eliocentrica e del divieto di insegnarla e difenderla in alcun modo, né per voce, né per scritto.
Contravvenendo apertamente a tale “salutifero editto”, lo scienziato continuò nelle sue ricerche e nelle sue divulgazioni dell’eliocentrismo, che raccolse nel libro pubblicato nel 1632, Dialogo dei due massimi sistemi del mondo. In questo testo, scritto in volgare proprio per diffondere meglio l’opinione, veniva tra l’altro erroneamente portato, a dimostrazione del presunto movimento della terra, il fenomeno delle maree.
Un anno dopo la pubblicazione, il Tribunale dell’Inquisizione avviò la seconda procedura contro l’autore di questo discutibile testo. Il secondo processo a Galilei si concluse il 22 giugno 1633. La sentenza venne letta nel chiostro domenicano di Santa Maria sopra Minerva. Essa proibiva il Dialogo ed obbligava il suo autore, “fortemente sospettato di eresia”, all’abiura della dottrina eliocentrica. Come penitenza e segno di purificazione e pentimento, allo scienziato venne imposto che: “per tre anni a venire dichi una volta la settimana li sette salmi penitenziali”.  
Galilei morì nove anni dopo. Scrive il suo discepolo Vincenzo Viviani che il trapasso avvenne alle quattro di notte dell’8 gennaio 1642: “in età di settantasette anni, dieci mesi e giorni 20”. E prosegue affermando che: “il suo corpo venne condotto dalla villa d’Arcetri in Firenze, e per commessione del nostro Serenissimo Gran Duca separatamente fatto custodire nel tempio di S. Croce, dove è l’antica sepoltura della nobil famiglia de’ Galilei, con pensiero di ereggergli augusto e sontuoso deposito in luogo più cospicuo di detta chiesa” (Ed. Naz., XIX, pagg. 623 e 624).
Il proposito di erigere un solenne mausoleo nel duomo di S. Croce, venne prontamente ostacolato dal Santo Uffizio. Infatti, una quindicina di giorni dopo, il cardinale Barberini scrisse all’Inquisitore di Firenze: ”Sua Beatitudine, col parere di questi miei Eminentissimi, ha risoluto che ella, con la sua solita destrezza, procuri di far passare all’orecchie del Gran Duca che non è bene fabbricare mausolei al cadavere di colui che è stato penitenziato nel Tribunale della Santa Inquisizione, et è morto mentre durava la penitenza, perché si potrebbero scandalizzare i buoni” (Lettera di Francesco Barberini a Giovanni Muzzarelli, 25 gennaio 1642).
Dobbiamo credere che l’affermazione riferita a Galilei, “mentre durava la penitenza, del cardinale Francesco Barberini corrisponda al vero, per la sua alta posizione ecclesiastica e soprattutto perché, per poter esprimere un simile giudizio, doveva essere al corrente, direttamente o indirettamente, della vita spirituale dello scienziato.  
Galileo dunque secondo il Barberini morì “mentre durava la penitenza” richiesta dal Tribunale dell’Inquisizione. Questo significa che, a distanza di nove anni, lo scienziato non aveva ancora completato la recita settimanale dei sette salmi per tre anni. Questa penitenza era del tutto formale e persino “trasferibile” ad altri. Venne infatti concesso che a recitare questi salmi fosse la figlia prediletta Virginia, che Galileo ebbe dalla sua amante Marina Gamba con la quale conviveva in more uxorio, in Padova, il 13 agosto 1600.
Virginia, insieme alla sorella Livia costretta alla vita religiosa, il 4 ottobre 1616, all’età di sedici anni, aveva assunto i sacri voti nel monastero di S. Matteo d’Arcetri, prendendo il nome di suor Maria Celeste. Morì però pochi mesi dopo il rientro di Galileo nella sua villa “Il Gioiello” di Arcetri, dopo una breve malattia, nel 1634, quindi non ebbe modo di completare la penitenza a favore del padre.
La scomparsa della figlia prediletta provocò in Galilei già sfibrato dalle vicende giudiziarie e dalla salute incerta uno stato di ulteriore prostrazione, al quale tuttavia reagì immergendosi nel lavoro, che in quel periodo consisteva nella stesura del libro Discorsi sulle nuove scienze.
Lo stato d’animo dello scienziato è comprensibile. Condannato dalla Chiesa, sicuro di essere nel giusto, non riconoscendo la correzione impostagli dagli ecclesiastici avversari, profondamente offeso ed umiliato per essere stato costretto all’abiura dell’idea eliocentrica, dovette attaccarsi ancor più radicalmente a tale prospettiva che si stava diffondendo in tutt’Europa, nella quale credeva con fede assoluta non solo per motivi scientifici, in verità assai deboli.
Egli scrisse infatti che: “Quanto all’opinione del Copernico, io veramente la tendo sicura, e non per le sole osservazioni di Venere, delle macchie solari e delle Medicee, ma per altre sue ragioni, e per molt’altre mie particolari che mi paiono concludenti” Lettera a G. B. Baliani, 12 marzo 1614). Per varie ragioni dunque Galilei assunse l’ipotesi pitagorica del sole centrale e della terra in movimento come ideale della sua vita, al quale dedicò tutte le sue forze.
Tale amarezza d’animo, il risentimento verso le gerarchie che lo avevano condannato, l’onta imperdonabile dell’abiura, il dolore per la perdita della figlia prediletta, l’annebbiamento dovuto alla vista sempre più debole, le pressioni dei suoi amici sostenitori antiaristotelici ed antitomisti, la freddezza dell’altra figlia Livia nei suoi confronti, le preoccupazioni economiche per il figlio Vincenzo. Tutto questo insomma, dovette incidere nell’animo dello scienziato sempre più immerso nella ricerca filosofica, inducendolo a trascurare l’adempimento della penitenza richiestagli dal Tribunale del Santo Uffizio, come mezzo di perdono e riconciliazione con la Chiesa stessa.
Tuttavia, col tempo la situazione iniziò a ribaltarsi, secondo le misteriose regole del contrasto eracliteo. Nonostante le precedenti riserve e divieti, il 12 marzo 1737, grazie all’intervento decisivo del granduca Gian Gastone e delle logge fiorentine, il corpo dello scienziato venne finalmente sepolto in pompa magna nella Basilica di Santa Croce, nella tomba monumentale tuttora esistente.
La sua “ombra” tuttavia sembra ancora agitarsi, specialmente nelle polemiche sempre pronte a sorgere in suo nome, in attesa di entrare nel luogo di assoluto riposo (cfr Sal 94) al quale sembra non essere pervenuta. Forse proprio a causa del suo antico “debito”.




martedì 25 marzo 2014

San Tommaso e la “caduta dei gravi”


Prima ancora di Galilei, S. Tommaso comprese l’essenza del moto di caduta dei gravi. Al di là delle goffe caricature e dei luoghi comuni generosamente diffusi circa i teologi e la filosofia medievale, l’oscurantismo, la fine del mondo, la terra piatta e via dicendo, S. Tommaso affermò che i corpi si muovono più velocemente, quanto più procedono nella caduta, anticipando quindi nella sostanza la legge di caduta libera dei gravi, sulla quale Galilei dissertò nei Discorsi e dimostrazioni matematiche, scritti nel biennio 1633-1635.
San Tommaso attesta infatti che un grave lasciato libero di cadere accelera in progressione al tempo, mentre decelera se lanciato verso l’alto. Egli utilizza questo principio di fisica di passaggio, come esempio rivolto ad edificazione della fede, riconducendo la fisica alla teologia, per spiegare il perché coloro che sono in stato di grazia debbono tanto crescere in carità quanto più si avvicinano al loro fine ultimo.
Commentando infatti il passo della Lettera agli Ebrei: “Esortiamoci a vicenda sempre più, in misura che avanza il giorno”, il Santo scrive: “Perché dobbiamo progredire nella fede e nell’amore? Perché il moto naturale diventa tanto più rapido, quanto più si avvicina al suo termine; mentre per un moto violento avviene il contrario” (S. Tommaso, in Ep. Ad Haebr. X 25”).
Questo concetto fisico venne ripreso dal dottor angelico nel commento al De Coelo (q. I, VIII, 17) con i seguenti termini: “Terra (vel corpus grave) velocius movetur, quanto magis descendit”, un corpo si muove più velocemente, quanto più cade. La velocità di caduta dei gravi quindi aumenta con il trascorrere del tempo e con l’approssimarsi del termine della caduta stessa (cfr. Garrigou – Lagrange, Le tre età della vita interiore, vol. I, Ed. Viverein, Monopoli 2011, pp. 169-170).
Ricordiamo che nella fisica aristotelica, il moto naturale è quello dei gravi lasciati liberi di cadere o di salire nel caso della loro leggerezza. Il moto violento può avvenire nelle altre direzioni, ad esempio un corpo che viene lanciato secondo una traiettoria parabolica. Questo perché la posizione dei corpi era legata alle loro proprietà: il grave tende al suo luogo naturale posto al centro della Terra, i corpi leggeri salgono perché tendono al loro luogo naturale, l’alto.
Tutti i moti che si discostano da questo tipo erano considerati ”violenti” ed intesi come composizioni del moto naturale e di quello circolare. I moti circolari venivano ritenuti perfetti, in quanto ogni punto dell’orbita circolare è al tempo stesso l’inizio e la fine dei moti. I moti perfetti erano idealmente attribuiti ai corpi perfetti, quelli celesti, perpetui ed immutabili.
San Tommaso, come dicevamo, considera il moto di caduta dei corpi come un caso particolare e addirittura banale del movimento in generale, inteso come passaggio dalla potenza all’atto, per il conseguimento di un fine. Difatti, l’avvicinamento dell’uomo a Dio avviene nella dimensione del tempo e dovrebbe aumentare con il procedere della vita. Il progresso è chiaramente l’elemento indispensabile alla vita spirituale, la quale si compie in misura dell’unione intima dell’uomo con Dio.
La proprietà dei corpi di accelerare nel loro moto di caduta verso il basso, era quindi ben nota nella metafisica tomista, prima ancora che Galilei cercasse di definire attraverso le discutibili esperienze del piano inclinato le proprietà di tale movimento. Esperienze che vennero messe in dubbio da diversi critici, ad esempio dal Koyrè, in quanto alquanto difficoltose da realizzare e ripetere nei termini espressi dallo scienziato pisano. I famosi esperimenti ideali, “immaginiamo che”, posti alla base della scienza induttiva.
Peraltro, Galilei nei Dialoghi considera i moti inerziali quelli effettuati su di un’orbita curvilinea e non su ina traiettoria rettilinea, in linea con la tradizione aristotelico-tomista. Galilei, con scarso intuito fisico, non accetta infatti l’idea kepleriana delle orbite ellittiche e l’accelerazione del moto dei pianeti. Egli non considera nel moto periodico dei corpi celesti la componente d’inerzia diretta lungo la tangente, né l’accelerazione centripeta, diretta verso il centro in quanto ancora legato all’immagine aristotelica del cosmo.
Nella cosmologia aristotelica, la caduta di un grave è legata a due concetti: la tendenza dei corpi verso i loro luoghi naturali, e la quiete dei corpi perseguita quando li raggiungono. I corpi o si trovano nel loro luogo naturale o non si trovano.  In questo caso si determina il movimento naturale. Da questa dinamica deriva un’immagine “pacificata” del cosmo, perché soggetto ad un movimento ordinato e finalizzato . Lo spazio viene così inteso come un sistema di luoghi naturali in quiete, una sorta di pace progressiva. Essi si distinguono per la loro distanza dal “centro del mondo”, che è il luogo privilegiato e naturale per eccellenza.
Ai moti naturali ed alla composizione di questi, si aggiungono i moti circolari sulle superfici concentriche che circondano la Terra: i cosiddetti moti perfetti propri dei corpi perfetti.  La perfezione quindi non corrisponde solo a quiete, ma anche a movimento circolare attorno ad un centro perfetto.
I corpi leggeri che “salgono” ed i corpi pesanti che “scendono”, insieme ai corpi perfetti che si muovono su traiettorie circolari, mossi dall’etere o quintessenza, costituiscono dunque i principi essenziali della dinamica cosmica, secondo la cosmologia medievale. Dinamica che come dicevamo riconduce anche il moto ad un senso metafisico di pace universale correlata a Dio. Il finalismo spiega inoltre che la ragione di ogni movimento, il suo compimento, è il raggiungimento della quiete e dei luoghi naturali.
S. Tommaso tuttavia paragonando il moto naturale alla risalita dell’anima verso Dio, risalita sempre più rapida quanto più si colma il rapporto tra uomo e Dio, in un certo senso ha ribaltato l’immagine cosmologica geocentrica e delle sfere omocentriche di Tolomeo ed Aristotele. Infatti, la leggerezza che spinge verso l’alto ed il peso che attira in basso, rapportati allo stato di grazia dell’anima, suggeriscono un’immagine capovolta del mondo. Un’inversione fra centro e sfera. Infatti, dopo la morte, l’anima “sale” verso il cielo, il corpo “scende” nella terra.
Aristotele ed il geocentrismo pongono la terra al centro del mondo. Nell’immagine teologica “capovolta”, suggerita dal paragone del moto dei gravi ed al progresso, o risalita, dell’anima di S. Tommaso, il centro-terra diventa circonferenza, e la circonferenza-cielo diviene centro. Nel centro, considerato come “alto”, salgono le essenze leggere, come l’anima. Sulla circonferenza, considerata come “basso”, cadono le essenze pesanti. Anche Simone Weil nel testo Le pesanteur et la grace, riconosce che il peccato spinge verso il basso mentre la grazia attira verso l’alto.
A questo centro etereo ed insensibile tendono le anime in proporzione allo stato di grazia perseguito come verso una porta che introduce nel Regno di Dio. La Terra come limite materiale, dal quale tutti gli uomini iniziano il loro viaggio verso la dimensione spirituale, la risalita verso l’alto teologico.
Uomini posti agli antipodi, a “testa in giù”, metafisicamente tutti rivolti verso l’Alto-Cielo, o centro della sfera cosmica, intorno al quale gravitano gli astri in spazi sempre più eterei, sempre più esclusivi. Le energie del cosmo così racchiuse, sono raccolte e conservate in questo contenitore universale nel quale il movimento circolare degli astri si mantiene immutato nei secoli.
Il moto circolare ed etereo, che i medievali ritenevano immagine della perfezione, perché avveniva per “inerzia”, senza perdita di energia, diviene immagine della perfezione delle anime che giungono a Dio, e che continuano a ruotare intorno alla sua divina essenza, partecipando e celebrando “liturgicamente” la sua Gloria, in pace perfetta, in gaudio perfetto.
La pace non è solo immobilità. La pace è gravitazione continua intorno ad un centro. Il tempo non lineare, ma perfettamente centrato in Gesù Cristo, è l’immagine del tempo assoluto teologico. Tempo liturgico che si ripete identicamente e ciclicamente, avvicinando già in questa vita la “periferia” del mondo al Centro, verso il quale tutto è rivolto.
Esortiamoci a vicenda sempre più, in misura che avanza il giorno”, come insegna S. Tommaso, spiega quindi la ragione del movimento progressivo necessario alla fede ed all’amore per conseguire felicemente il fine, l’Alto, l’entrata nel Paradiso attraverso Gesù Maestro, Re e Porta dell’Universo (cfr Gv 10 1, 21).




giovedì 13 febbraio 2014

LETTERE COPERNICANE



Il 21 dicembre 1613, giorno del solstizio d’inverno, data cara agli esoteristi di tutti i tempi, Galilei scrisse una lettera a don Benedetto Castelli (1578-1643), benedettino, suo discepolo a Padova, lettore di Matematica prima a Pisa e poi alla Sapienza di Roma, a sua volta valente sperimentatore, circa la dottrina eliocentrica ed il suo rapporto con le Sacre Scritture.
Il domenicano Niccolò Lorini venuto in possesso di tale scritto, che abbondantemente circolava “per le mani d’ogni uomo”, richiamandosi al carisma di san Domenico e del suo Ordine – fondato per “essere i cani bianchi e neri” del Signore, ossia per contrastare gli eretici –, ne trasmise copia al Cardinale Paolo Sfrondati, nipote di Gregorio XIV, il 7 febbraio 1615, per ottenerne un giudizio.
Il Lorini spiegava al Cardinale che i “Galileisti, uomini da bene e buoni Cristiani, ma un poco saccenti e duretti nelle loro opinioni”, avevano allarmato tutti i Padri del convento di S. Marco. Essi infatti affermavano che “certi modi di favellare della Sacra Scrittura siano sconvenienti e che nelle dispute naturali la medesima scrittura tenga l’ultimo luogo, e che i suoi espositori bene spesso errano nell’esposizioni di lei, e che la medesima Scrittura non si deva impacciar d’altra cosa che degli articoli concernenti la fede, e che nelle cose naturali abbia più forza l’argomento filosofico o astronomico che il sacro e divino”.
Non erano accuse né infondate né trascurabili quelle rivolte a Galileo dal frate domenicano, circa la pretesa che la religione dovesse adeguarsi alle scoperte della scienza naturale, in quel tempo peraltro così poco sviluppata, così poco precisa, specialmente in ambito astronomico.
Lo scienziato era infatti entrato in una zona interdetta ai laici, soprattutto in seguito alla lacerante disputa con i Riformati, i quali criticavano il primato proprio della Chiesa Petrina circa l’interpretazione scritturale: “Sappiate anzitutto questo: nessuna scrittura profetica va soggetta a privata spiegazione” (2 Pt 1,20).
Sembrò dunque inaccettabile al Lorini che il comando rivolto da Giosuè al sole ed alla luna di fermarsi, non dovesse intendersi secondo il cosiddetto “senso comune”, ma simbolicamente, perché secondo l’opinione pitagorica è la terra a muoversi nei cieli intorno al sole, “fuoco centrale”.
Il Lorini scrisse al Cardinale, seppur in forma di “amorevole avviso, come servitore a padron singolarissimo”, dopo aver ascoltato un paio di prediche del suo confratello Tommaso Caccini sul libro di Giosuè, nelle quali venivano chiaramente censurate le idee del movimento della terra e che il sole fosse il centro del mondo celeste, così come diffuso dallo scienziato pisano sulla scia di Copernico e della setta pitagorica, perché contrarie alle Scritture.
L’accusa del Caccini contro il sistema eliocentrico ovviamente non poteva contenere argomentazioni scientifiche. Del resto, anche quelle eliocentriche proposte da Copernico e da Galileo erano più che carenti da questo punto di vista. Il loro modello tanto enfatizzato non si adattava nemmeno alle osservazioni più evidenti, come rilevò Erasmus Reinhold, nel 1551, quando venne incaricato di calcolare tavole celesti sulla base dell’ipotesi eliocentrica, le cosiddette Tabulae Prutenicae, dedicate al duca di Prussia.
L’accusa sollevata dal padre domenicano era quindi di carattere filosofico e metafisico, perché tale modello è fondato su una dottrina che nega il valore della realtà rispetto alla sua rappresentazione. I pitagorici infatti sovrappongono e sostituiscono alla dimensione dei fenomeni la descrizione razionale, la matematica alla fisica. Nel far questo essi non partono dalla realtà, ma dalla ragione matematica, dal modello mentale costruito a priori rispetto al “mondo”. Essi uniscono ragione e superstizione, regole matematiche e norme etiche, trasmettendo le loro conoscenze attraverso il linguaggio dei simboli, sconosciuti ai profani, noti agli iniziati.
Quello che il puro senso della vista rappresenta è come nulla in proporzion dell’alte meraviglie che, mercé delle lunghe ed accurate osservazioni, l’ingegno degli intelligenti scorge in cielo”, scriverà Galilei nella più articolata lettera a Madama Cristina di Lorena. Non le lunghe ed accurate osservazioni legate al “senso comune”, ma l’immaginazione razionale degli “intelligenti”, intesi come iniziati alle verità segrete, scorgerebbe le meraviglie del cielo. Ecco di nuovo proposta l’inversione fra realtà ed immaginazione.
Non è difficile immaginare, insieme alla carica polemica, quali potessero essere le accuse antieliocentriche proclamate dal pergamo di Santa Maria Novella dal padre maestro Caccini, dello stesso Ordine di san Tommaso d’Aquino. La filosofia moderatamente realista dell’Aquinate proclama infatti la realtà come primo elemento dell’indagine razionale e filosofica. Negare la realtà equivale a negare la verità. Secondo l’Aquinate tutta la conoscenza umana non può che trarre origine e sviluppo che dai dati sensitivi: senza i “fantasmi” o immagini della fantasia non si danno né concetti, né giudizi, né ipotesi scientifiche: “perché i fantasmi stanno all’intelletto come i dati sensibili al senso (phantasmata se habent ad intellectum sicut sensibilia ad sensum)” (In III Sent. D. 31, 2, 4).
Secondo la filosofia dell’essere, la facoltà conoscitiva umana si sviluppa secondo due operazioni, quella intuitiva dell’intelletto e quella discorsiva della ragione, delle quali la prima è più alta, decisiva, poiché l’intelletto costituisce l’organo del concreto. Quindi slacciare i “fantasmi” della conoscenza dallo stretto legame con la realtà, equivale ad aprire le dubbie porte dell’immaginazione. Infatti, l’immaginazione può essere sia razionale, come la scienza, sia irrazionale, come la magia,  sia passionale, come l’erotismo. Del resto, scienza e magia, numero e simbolo, ragione e superstizione, compongono la struttura della dottrina pitagorica e della sua logica di fondo. Logica che non distingue, ma unifica gli opposti, l’essere ed il nulla.
Con la dottrina conoscitiva dell’astrazione, san Tommaso mette invece in risalto la stretta unione esistente tra conoscenza sensitiva e conoscenza intellettiva. Egli però conferisce il primo luogo alla conoscenza sensitiva, perché i dati elaborati dall’intelletto agente si riferiscono sempre a qualche cosa di materiale e di individuale. Successivamente, viene ricavato il concetto universale e immateriale. La conoscenza umana possiede quindi un valore intrinseco, proprio perché le rappresentazioni che ci dà delle cose sono vere. Infatti, la verità è una perfetta corrispondenza fra la mente e la cosa: Veritas est adaequatio rei et intellectus (In I Sent. 19, 5, 1).
Per quanto riguarda la conoscenza astronomica, perché non conoscibile direttamente ed in tutta la sua ampiezza dall’osservazione sensibile, san Tommaso aveva già dichiarato che le spiegazioni degli astronomi hanno carattere di mera probabilità e, mancando di certezza, possono sempre essere sostituite da spiegazioni migliori (in, De coelo, II, 17).
Stessa tesi ripresa dal Bellarmino, il quale consigliò a Galilei di parlare per ipotesi e non per certezza del sistema eliocentrico, perché certo non era. Così, le censure ed ammonizioni emesse in proposito dal Santo Uffizio, il 25 febbraio 1616, contestavano il tono assoluto delle due affermazioni galileiane: 1) il sole è il centro del mondo, del tutto immobile; 2) la terra non è il centro del mondo, ma in movimento.
La censura si concentrò su queste due affermazioni perché non dimostrabili con certezza e perché costituivano un pericolo per la fede e la semplicità proprie della dottrina cristiana. Affermare infatti il movimento della terra e la quiete del sole corrisponde a negare il valore della realtà percepita dal “senso comune”, troncare il passaggio dal mondo creato al Creatore, dall’osservazione alla contemplazione.
Questo pericolo seguiva le accuse rivolte da San Paolo a coloro che, pur contemplando la realtà creata e le impronte in essa impresse da Dio, non risalgono al Creatore stesso. Mentre invece: “Dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità” (Rm, 1, 20).
San Paolo imputa a questo errore intellettuale, il non risalire a Dio partendo dalla realtà percepita, la decadenza morale che avrebbe colpito coloro che avessero sostenuto tale contraddizione: “Perciò Dio li ha abbandonati all’impurità secondo i desideri del loro cuore, sì da disonorare i loro corpi, poiché essi hanno cambiato la verità di Dio con la menzogna e hanno venerato ed adorato la creatura al posto del creatore, che è benedetto nei secoli. Amen” (1, 24).
Adorare “la creatura al posto del creatore” equivale a metterla al “centro” del mondo. E proprio questo, l’equiparazione della creatura solare a Dio, costituiva l’opera degli esoteristi rinascimentali, i quali cercavano di dare parvenza scientifica alla dottrina eliocentrica di matrice egizia. Secondo questa tendenza eliolatrica, scriveva con enfasi Galilei a Cristina di Lorena che il sole: “in certo modo anima e cuore del mondo, infonde agli altri corpi che lo circondano non solo la luce, ma il moto ancora, col rigirarsi in sé medesimo, così che cessando la conversione del Sole, si fermerebbero le conversioni di tutti i pianeti”.
D’altra parte, interpretazioni ed immaginazioni eliolatriche circolavano da tempo, proprio nella corte fiorentina, dopo che il Ficino aveva tradotto il Corpus Hermeticum, una sorta di breviario della magia e della stregoneria più oscura.
La diffusione di questo testo nei circoli aristocratici aveva rimesso in piedi la concezione magica della realtà, insieme alle opere attraverso le quali evocare le forze invisibili, i demoni dell’aria rotanti intorno al demone solare posto al centro del cielo, gli arconti posizionati nelle sfere planetarie. Questa cosmogonia demoniaca fu celebrata da Ludovico Lazzarelli, il traduttore e valorizzatore del libro XVI del Primander, dove sono contenute le interpretazioni spiritiche del sistema solare alle quali si riferisce Copernico, quando cita Ermete Trismegisto come uno degli antichi interpreti della dottrina eliocentrica.
Il Lazzarelli era discepolo di Mercurio Giovanni da Coreggio, lo strano personaggio che si proclamò nuovo messia e nuovo Ermete, identificando la Mente (Poimandres) con il Cristo gnostico, quando l’11 aprile 1484, domenica delle Palme, entrò platealmente in Roma per compiervi oscuri rituali magici e propiziatori.
Nella lettera a Monsignor Piero Dini, del 23 marzo 1615, Galilei dava conferma a questa concezione neoplatonica solare, esaltando il sole come “anima mundi” con termini simili a quelli utilizzati da Ermete, dai pitagorici e dagli alchimisti rinascimentali, successivamente condivisi da Isaac Newton nei suoi Principia, nel commento alla definizione di “Quantità di materia”, nonché nello Scolio finale.
Galilei scrive infatti: “Parmi che nella natura si ritrovi una substanza spiritosissima, tenuissima e velocissima, la quale, diffondendosi per l’universo, penetra dappertutto senza contrasto, riscalda, vivifica e rende feconde tutte le creature viventi”. Continua sulla stessa linea affermando la “principalissima” sorgente di questo “spirito sottilissimo”, o energia alchemica: “il senso stesso ci dimostri sia il corpo del Sole, dal quale espandendosi per un’immensa luce per l’universo, accompagnata da tale spirito calorifico e penetrante per tutti i corpi vegetabili, li rende vividi e fecondi”. Energia termica, ma anche sessuale ed erotica.
Come osservava giustamente l’autorevole Eugenio Garin, questa “intuizione pitagorica, ermetica, neoplatonica, quel culto caro a Guiliano l’Apostata, che costituisce il presupposto e lo sfondo, del resto consapevole e dichiarato, dell’ipotesi copernicana, è presente in troppi testi galileiani per essere accidentale”. Galilei cioè partecipava attivamente “a quella ispirazione solare che aveva preceduto e poi accompagnato la rivoluzione copernicana, caricandola di una portata speculativa che andava al di là del semplice rovesciamento di un’ipotesi astronomica” (Scienza e vita nel Rinascimento italiano, Laterza, Bari 1975, p. 119).
Del resto, lo stesso Galilei nella lettera a Giovan Battista Baliani, 12 marzo 1614, aveva scritto: “Quanto all’opinione di Copernico, io veramente la tengo sicura, e non per le sole osservazioni di Venere, delle macchie solari e delle Medicee, ma per altre sue ragioni, e per molt’altre mie particolari che mi paiono concludenti”. Non erano quindi argomentazioni esclusivamente astronomiche, come le fasi di Venere, o le macchie solari che provavano la rotazione su se stesso del sole, ma “altre ragioni” che inducevano Galilei a creder per certa l’ipotesi eliocentrica, ossia la sua fede pitagorica.
Queste convinzioni personali, di “scuola egizio-pitagorica”, erano così radicate da spingere lo scienziato ad uscire allo scoperto, ma in modo scaltro, attraverso alcune scritture private ben congegnate. Come la lettera al Castelli, che innescò la polemica galileiana. Questo scritto è troppo ben articolato per costituire semplicemente una “lettera privata scritta all’amico mio, per essere letta da lui solo”, come Galilei affermerà a Piero Dini, nella lettera del 23 marzo 1615. Essa invece sembra essere studiata per essere messa in circolazione e provocare la reazione degli uomini di Chiesa. I quali si insospettirono anche per il tono di fondo che segnava tale scrittura. Un tono antievangelico, settario, aristocratico, in breve: esoterico.
Galilei infatti affermava non solo che la Bibbia non è infallibile in questioni di scienza, perché non sarebbe suo compito rivelarci le leggi della natura: “Nella scrittura si trovano molte proposizioni che quanto al nudo senso delle parole, hanno aspetto diverso dal vero”. Egli aggiungeva inoltre che queste affermazioni sono poste in modo da “accomodarsi all’incapacità del vulgo, così per quei pochi che meritano di essere separati dalla plebe è necessario che i saggi espositori producano i veri sensi”. Le Scritture racconterebbero “favolette” per adattarsi al popolo, ai creduloni di turno.
Secondo Galilei, i saggi espositori ed interpreti dovrebbero svelare il senso recondito delle Scritture non al popolo, volgo, plebe ignorante e incapace di intendere, ma a quei pochi che meriterebbero di essere separati dalla plebe. Tesi questa chiaramente incompatibile con la logica e la prassi evangelica. Gesù peraltro si compiacque con il Padre proprio per il contrario. Ossia, per aver tenuto nascosti i segreti ai sapienti ed agli intelligenti, ma di averle rivelati ai piccoli: “Sì Padre, perché così a Te è piaciuto” (Mt 11, 26).
Invece di ammaestrare, rendere maestri, gli ultimi, i poveri come insegna il messaggio evangelico, perché “Dio vuole che tutti siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità” (1 Tm 2,4), Galilei in chiave pitagorica relega la conoscenza ad un gruppo ristretto di eletti. Proprio come i sacerdoti egizi riservavano per sé le conoscenze dottrinali e rivelavano al popolo false rappresentazioni per conservare ed aumentare il loro potere, il loro dominio sulle masse.
Dal pergamo di Santa Maria Novella, in quel lontano 1614, i frati predicatori, tanto bistrattati dagli storici laicisti, furono i primi ad individuare profeticamente la crociata massonica ed eliolatrica che stava determinandosi in ambito razionale, in quelle accademie aristocratiche che elaboravano una falsa interpretazione ed utilizzazione della scienza ed all’interno delle quali parimenti venivano coltivate le più oscure arti magiche.
Essi avevano come individuato nelle istanze galileiane come il germe di un male invisibile che si sarebbe sviluppato nel corso della storia nella ragione umana, allontanando sempre più l’individuo, la società, il mondo da Dio, dalla sua realtà, dal suo volere. Un mondo dove la superbia della ragione, il non riconoscimento dell’opera di Dio, come scriveva san Paolo ai Romani, avrebbe portato una ricaduta negativa nella società civile, la diffusione del degrado e della corruzione morale ed etica a tutti i livelli.
Le invettive di quei due frati erano infatti rivolte contro l’antica setta che individuava nel sole lo spirito dell’universo, l’erotico demone pseudo liberatore dell’umanità, il “lucifero magnifico apostata”. Del quale, l’attuale contraddittoria società, sembra essere il millantato frutto, apparentemente positivo, internamente imputridito, pur destinato a tramontare definitivamente in seguito alla vittoria che Gesù Cristo perseguì a vantaggio di noi tutti.



domenica 12 gennaio 2014

MASSONERIA E STAMPA RISORGIMENTALE


Si dice che la bella Rosina, l’amante del focoso Vittorio Emanuele II (da lui poi sposata morganaticamente nell’autunno del 1869, una volta divenuto vedovo, superando la scomunica di Pio IX che gravava su di lui), conservasse compiaciuta un bastone da passeggio rotto. A chi le chiedeva la ragione di quella curiosa “reliquia”, rispondeva che era il cimelio di una lezione data a don Giacomo Margotti, il sacerdote giornalista direttore de “L’Armonia”, maggior quotidiano di opposizione cattolica, che non le aveva risparmiato critiche per il suo legame mal celato con il re savoiardo, quando era ancora in vita la regina Adelaide.
Certo, il Margotti se l’era cavata a buon prezzo rispetto ad Augusto Tirani, direttore del periodico filo-clericale Cronaca Turchina, che dedicò una serie di articoli alla vita privata e libertina di Vittorio Emanuele II, trovato cadavere nel 1877, nel parco di Stupinigi. Questo crimine pur suscitando sorpresa ed allusioni varie, venne presto archiviato senza aver trovato assassino, movente o, addirittura, mandante.
Don Margotti fu l’acerrimo oppositore della Libera Muratoria e della propaganda anticlericale ad essa collegata attraverso i quotidiani di stampo laicista. Primo tra i quali, la “Gazzetta del Popolo”. Questa ebbe come fondatore e direttore il massone Felice Govean, portabandiera dell’anticlericalismo e dell’antigesuitismo torinese, curatore della rubrica “Il Sacco nero”, nonché autore del romanzo apologetico “I Valdesi”, del 1852.
Con Govean, la “Gazzetta del popolo” appoggiò incondizionatamente la politica di laicizzazione intrapresa dallo Stato sardo a discapito della Chiesa. Da parte sua, don Margotti, dalle pagine de “L’Armonia della Religione con la Civiltà”, divenuto poi semplicemente L’Armonia”, rispondeva che: “La Gazzetta del popolo già disse che si può fare a meno della costosa spesa del Re, e che si deve fare a meno dei frati, dei preti, dei Vescovi, del Papa, e del cattolicesimo. Ecco la sua politica e la sua religione, ecco il fine … Noi abbiamo già detto e diciamo di volere la religione con Papa, la libertà col Re”.
Nel 1850, L’Armonia aprì dalle sue colonne una sottoscrizione, per offrire come gesto di solidarietà un pastorale all’arcivescovo di Torino Monsignor Fransoni, arrestato nel maggio dello stesso anno per aver allertato il clero della propria diocesi in merito all’approvazione della legge Siccardi per la soppressione del foro ecclesiastico.
Sul primo numero dell’anno 1851, sullo stesso giornale cattolico venne pubblicato un articolo titolato L’anno passato, nel quale si leggeva che il 1850 era stato: “l’anno della menzogna, dei sofismi, delle vessazioni, l’anno che vide predicatori incatenati, vescovi alla berlina: l’anno d’indulgenza per la stampa sfrenata e immorale, e l’anno di rigore per la stampa religiosa e conservatrice… Siccardi e Fransoni sono i due nomi che ci danno la fisionomia dell’anno trascorso Siccardi che trionfa, la Chiesa che patisce i fiscali sul Campidoglio, i vescovi sulla Rocca Tarpea, i cattolici in lacrime, i rivoluzionari in festa”.
La Gazzetta del popolo rispose alla sottoscrizione e solidarietà in favore dell’arcivescovo torinese, con una raccolta di firme, finalizzata all’erezione di un obelisco in commemorazione della legge Siccardi. Tale monumento venne eretto nel centro di piazza Savoia, vicino al santuario della Consolata, ed inaugurato, il 23 novembre 1853, in occasione del quinto anniversario della concessione dello Statuto Albertino. “Il Consiglio comunale di Torino prese la decisione di “far murare” alla base del monumento i numeri del 17 e 18 giugno 1850 della Gazzetta, con cui questa aveva aperto la sottoscrizione“ (B. Gariglio, I cattolici dal Risorgimento a Benedetto XVI – Un percorso dal Piemonte all’Italia, Morcelliana, Brescia 2013, p. 49).
Venne poi la proposta di legge Cavour Rattazzi, presentata il 28 novembre 1854, per la “Soppressione di comunità e stabilimenti religiosi ed altri provvedimenti intesi a migliorare la condizione dei parroci più bisognosi”, che in sostanza prevedeva la soppressione delle comunità monastiche e religiose di ambo i sessi, delle collegiate e dei benefizi semplici.
Questa proposta di legge sollevò un’ondata di disapprovazione. Scrive lo storico Rosario Romeo  che nella prima settimana dell’aprile 1855, prima ancora che cominciasse la discussione alla Camera di tale legge, giungono al Senato 68967 firme contrarie a tale proposta, e poco più di diecimila a favore. Si pensi che i votanti di quella V legislatura erano 54495. Questo vuol dire che il numero delle firme contrarie alla legge di confisca dei beni ecclesiastici era maggiore del numero dei votanti stessi delle elezioni politiche! (Vita di Cavour, Bari 1990, pp. 376-378).
Nei primi mesi del 1855, durante i quali prendeva piede la discussione sulla legge Rattazzi, una serie di “avvertimenti” celesti avevano colpito il re Vittorio Emanuele II, che avrebbe dovuto firmare e rendere effettiva tale legge. Il 12 gennaio, muore sua madre, la regina Maria Teresa, 54 anni. Il 20 gennaio, muore sua moglie, la regina Maria Adelaide, 33 anni. Il 10 febbraio, muore suo fratello, Ferdinando duca di Genova, 33 anni. Il 17 maggio, muore il suo figlio ultimogenito, Vittorio Emanuele duca del Genovese, 4 mesi. E come predisse don Bosco (Epistolario, Roma 1991, lettera 225): “Se V. S. segna quel decreto segnerà la fine dei Savoia e non godrà più la sanità di prima”. Infatti, come recita un proverbio: la famiglia di chi ruba a Dio non giunge alla quarta generazione. Come è appunto successo ai Savoia.
Don Margotti annoterà in modo puntuale che, la legge firmata in via definitiva da Vittorio Emanuele II, il 29 maggio 1855, nonostante gli avvertimenti divini e le predizioni di don Bosco, colpiva gli Ordini religiosi maschili: Agostiniani, Carmelitani scalzi e calzati, Certosini, Benedettini Cassinesi, Cistercensi, Olivetani, Frati Minori, Conventuali, Cappuccini, Oblati di santa Maria, Passionisti, Domenicani, Servi di Maria, Padri dell’Oratorio o Filippini. E gli Ordini femminili: Clarisse, Benedettine, Cappuccine, Carmelitane scalze e calzate, Cistercensi, Domenicane, Terziarie Domenicane, Francescane, Battistine. Vennero così requisite 604 case religiose con tutti i loro possedimenti e rendite. 8593 religiosi vennero buttati in mezzo alla strada, privati così della possibilità di portare a buon fine la vocazione e la regola di vita che avevano liberamente scelto.
A questo esproprio di Stato che non garantiva possibilità di replica o di patteggiamento, si aggiungeranno le confische più copiose che colpirono la Chiesa nel centro e nel sud qualche anno dopo. La stampa anticlericale millantava tale confisca di beni, effettuata in nome degli ideali di unità e di giustizia della nazione che andava costituendosi secondo le linee filo-massoniche tipiche della politica di Cavour.  
Come dicevamo, il direttore della Gazzetta del Popolo, Felice Govean, massone, tanto contribuì a determinare tale stato di cose. Egli fu uno dei primi membri della loggia Ausonia, costituita ufficialmente alla mezzanotte dell’8 ottobre 1859, sulla riva destra del Po, come da rituale, per riaffermare il clima libero-muratorio dopo che, 45 anni prima, nel 1814, un editto aveva sancito “la proibizione delle congreghe ed adunanze segrete, qualunque ne sia la denominazione loro, e massime quelle de’ così detti Liberi Muratori, già proibita col Regio Editto del 20 maggio 1794”.
Govean e gli altri sette fondatori della loggia, il 20 dicembre, si erano riuniti per costituire un Grande Oriente Italiano, sotto il titolo di Grande Oriente d’Ausonia, posto sotto l’obbedienza del Grande Oriente di Parigi. Il nome “Ausonia” era l’antico nome dell’Italia usato nelle riunioni segrete dai carbonari e richiamava il fine specifico di questa loggia, ossia quello di raggruppare tutte le obbedienze già esistenti sul suolo italico per unificare l’Italia sotto il regno dei Savoia.
Con la salita al trono di Vittorio Emanuele II, il clima nel regno sabaudo era effettivamente cambiato, rispetto a quello instaurato dal padre Carlo Alberto, il cosiddetto “re tentenna”. Il quale, dopo i suoi esordi liberali, giunto al potere si propose più prudentemente di unificare l’Italia alla luce della religione e della giustizia. Il primo articolo dello statuto albertino, emesso il 4 marzo 1848, dichiarava infatti: “La Religione Cattolica, Apostolica e Romana, è la sola Religione dello Stato. Gli altri culti ora esistenti sono tollerati”.
Vittorio Emanuele II si mostrò invece molto più liberale e filo massonico nella gestione del potere. Non soltanto tollerò, ma  favorì fin dal 1850 il protestantesimo, lo spiritismo, “e i gruppi religiosi o parareligiosi più singolari e bizzarri” (M. Introvigne, nel suo libro Indagine sul satanismo, Milano 1994). Egli avallò, ovviamente sottobanco, la nascita della loggia Ausonia, tanto auspicata e propiziata da Cavour per consegnare l’Italia ai Savoia e per contrastare il potere spirituale e temporale di Santa Romana Chiesa. Del resto, già dal 1857, il massone Antonio Mordini auspicava l’avvento di: “una società segreta affermata da solenne giuramento, la quale abbia per fine la liberazione d’Italia dal giogo austriaco e dalla tirannide (sic!) sacerdotale” (in M. Novarino, G. M. Vani, Uomini e logge nella Torino capitale, Ed. L’Età dell’Acquario, Torino 2009, p. 15 e sgg.).
Dalla nascita dell’Ausonia fino al trasferimento della capitale da Torino a Firenze, varie obbedienze seguirono le linee cavouriane intraprese dalla massoneria piemontese. Coincidono peraltro in modo singolare gli sviluppi della massoneria torinese, che aveva adottato il “rito francese” (rispetto a quello “scozzese” assunto dalle logge di Palermo), con quelli che segnarono l’unificazione dell’Italia, entrambi registrati nell’arco di un biennio, dalla metà del 1859 al termine del 1871, periodo che vide l’insediamento di Vittorio Emanuele II come re d’Italia.
Tale coincidenza di sviluppi coincide con il ritorno al potere di Cavour, definito dal Gran Maestro (provvisorio) del GOI , Filippo Delfino: “il nostro fratello conte Camillo Cavour … non estraneo ai nostri misteri” (ib. p. 25). Non senza ragione infatti “i massoni torinesi accarezzarono l’idea di legare completamente i destini della nascente massoneria con quelli dello statista piemontese offrendo allo stesso la suprema carica di Gran Maestro” (ib. p. 34).
Solo la morte prematura, avvenuta il 6 giugno 1861, impedì a Cavour di conseguire ufficialmente il “Supremo Maglietto” del Grande Oriente Italiano, che comunque venne affidato, dal 3 ottobre 1861 al 31 gennaio 1862, al suo pupillo Costantino Nigra, iniziato massone presso la loggia Ausonia il 14 febbraio 1860.
La morte di Cavour avvenne otto giorni dopo la festa del Corpus Domini, alla quale egli aveva ordinato alle autorità politiche di non partecipare. Fatto questo del tutto inusuale e mai successo fino allora. Le “Memorie biografiche” di don Bosco, oltre ad affermare che Cavour era il capo della massoneria piemontese (II, 313), puntualizzano che: “la sera del 29 maggio, vigilia del Corpus Domini” il Conte di Cavour, che aveva appena passato i 50 anni, di salute robustissima, rientrato nel suo palazzo era colpito da sincope e restava come morto, per poi passare all’eternità il 6 giugno”.
Le Memorie annotano inoltre che quell’ottava del Corpus Domini, era anche l’anniversario del miracolo eucaristico di Torino avvenuto nel 1453, durante il quale un’Ostia si innalzò da un calice precedentemente rubato e restò sospesa alcune ore prima di ricadere nel calice tenuto dal vescovo, mentre il popolo restava in adorazione. E così, se alle autorità civili era stato vietato dal già scomunicato Cavour di partecipare alla processione del Corpus Domini, come per “coincidenza”, dopo otto giorni, le stesse avevano dovuto partecipare alla processione di colui che lo aveva impedito.
Solo Vittorio Emanuele II, pur essendo in Torino, non vi partecipò, dimostrando ancora una volta il suo astio verso il politico che era riuscito a portarlo alla reggenza del Regno d’Italia, demolendo le mura della Roma cattolica, per erigere quelle della Roma massonica, come scrisse don Margotti, su L’Armonia del 30 maggio 1861. Don Margotti nello stesso articolo proseguiva:
“Oggidì Roma massonica, superba dei conseguiti trionfi, vuol intervenire in Roma cattolica, vuol distruggere il Cattolicesimo, vuol levare la croce e mettere il triangolo sulla cima dell’obelisco di san Pietro. Ma sulla base di quell’obelisco sta scritto: Christus vincit, Christus regnat, Christus imperat. E Gesù Cristo vincerà, e per Gesù Cristo Pio IX saprà sconfiggere gli attentati della massoneria, come già ne seppe gloriosamente smascherare le schifose ipocrisie”.
A dispetto di questo felice augurio, il 20 settembre 1870, le mura di Roma cattolica caddero davvero e la vittoria, in questa storia, è da attribuirsi all’”altra” Roma. Così, quell’anno, nell’equinozio d’autunno, giorno notoriamente caro alla massoneria, esattamente 1800 anni dopo la caduta di Gerusalemme, avvenuta del 70 d. C. per opera di Tito, caddero le mura di Roma, responsabile della rovina della prima.
Milleottocento anni dopo, ossia tre volte seicento. Come per “coincidenza”, il seicentosessantasei, numero della bestia, si ripresenta fatidicamente sotto il velo di Kronos, in altro ambito impensabile, come a sigillo del nuovo Stato unitario, nascente sotto il segno ambiguo della stella a cinque punte e delle reiterate scomuniche papali, rivolte ai suoi padri costituenti, legati a vani “riti”, a vane “obbedienze”.